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 2016  aprile 02 Sabato calendario

APPUNTI PER L’APERTURA DEL FOGLIO ROSA – 


Secondo l’ultimo aggiornamento fatto il 7 gennaio scorso dall’Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e le georisorse, nel 2015 il gettito delle royalties per la sola Basilicata è stato di 158 milioni di euro. Ma tra 2001 e 2013 1 miliardo e 158 milioni di euro di royalties sono finiti nelle casse della Regione e dei 12 Comuni che ricadono nell’area estrattiva [Antonello Cassano, la Repubblica 13/1].

– ogni barile contiene 159 litri di petrolio –

JACOPO GILIBERTO, IL SOLE 24 ORE 1/4 –
Rischia di fermarsi il “Texas d’Italia”: 1,6 miliardi di investimenti internazionali nel giacimento Tempa Rossa, l’area petrolifera più importante sulla terraferma europea. Mentre gli italiani (molti dei quali sono ecologisti soltanto a parole) hanno interrotto la caduta dei consumi energetici e nel 2015 hanno ripreso a bruciare a tutta forza petrolio e metano, mentre rallentano le produzioni energetiche nazionali facendo crescere le importazioni, rischiano di fermarsi gli investimenti energetici in una delle Regioni diventate fra le più attrattive d’Italia. L’inchiesta di Potenza, che ipotizza reati, che ha messo sotto indagine 37 persone e che ha costretto Federica Guidi a dimettersi dall’incarico allo Sviluppo economico, mette sotto tiro la più importante area petrolifera europea tre settimane prima del referendum sulla durata delle concessioni per le piattaforme in mare.
IL GIACIMENTO
Le rocce nelle profondità sotto la Basilicata sono impregnate di petrolio: la val d’Agri e Tempa Rossa sono la più importante area petrolifera su terraferma d’Europa, senza contare quanto si nasconde dove quelle rocce proseguono e sprofondano sotto il golfo di Taranto.
La “struttura geologica” della val d’Agri e di Tempa Rossa continua sotto il fondale del mar Ionio e la Shell – prima di essere stata costretta mesi fa a fuggire dalle paure antipetrolifere della riottosa Italia – aveva programmato investimenti importanti per estrarre quelle risorse in fondo al mare.
LA SORGENTE DEL GREGGIO
Il petrolio, in Basilicata, è così generoso che sgorga anche da solo. A volte il greggio trafila dalle colline. A Tramutola (Potenza) c’è anche la sorgente del petrolio. Sorgente naturale. Alle spalle del campo sportivo, tra le faggete, l’aria non ha il profumo di un bosco di mezza montagna bensì ha l’odore penetrante e inconfondibile un distributore di benzina: il ruscello è un rivolo naturale di petrolio, e durante la guerra vi si rifornivano i camion del Regio esercito e della Wehrmacht. E poi quel petrolio – litri ogni ora – corre nella valle e si accumula in un lago messo sotto accusa per l’inquinamento da idrocarburi.
IL PROGETTO TEMPA ROSSA
Tempa Rossa è il nome di uno dei due grandi giacimenti di petrolio e di metano della Basilicata. Fu scoperto nel 1989 fra alcuni paesi arroccati in quota sull’Appennino Lucano, cioè Corleto Perticara, Gorgoglione e Guardia Perticara. Luoghi aspri e dolci da cui, finché non è arrivata la Total, le persone fuggivano alla ricerca di un futuro.
Il giacimento Tempa Rossa è gestito dalla compagnia francese Total (in termine tecnico si chiama operatore) in associazione con le compagnie Mitsui e Shell. L’investimento previsto è 1,6 miliardi. Il giacimento potrebbe produrre ogni giorno 50mila barili di petrolio, 230mila metri cubi di metano, 240 tonnellate di Gpl e 80 tonnellate di zolfo purissimo. Tempa Rossa potrà rappresentare circa il 40% della produzione di petrolio in Italia.
La Total nel 2006 aveva firmato con la Regione Basilicata un accordo quadro per dividere con la cittadinanza il valore del giacimento: impegni ambientali, royalty a Regione e Comuni, incentivi agli enti locali, piani di promozione sociale ed economica.
GLI IMPIANTI IN COSTRUZIONE
Non è ancora cominciata l’estrazione del gas e del greggio a Tempa Rossa. Si tratta di perforare meno di una decina di pozzi per raggiungere le rocce imbevute di idrocarburi, ma per alcuni di questi pozzi manca ancora l’autorizzazione dell’amministrazione pubblica. È in costruzione il centro oli, uno stabilimento nel quale il petrolio estratto avrà una prima pulizia per togliere lo zolfo contenuto al suo interno.
GLI IMPIANTI BLOCCATI
Poi dalle montagne della Basilicata il greggio con un oleodotto sarà mandato a Taranto, dove la raffineria dell’Eni lo trasformerà in benzina, gasolio e altri prodotti. I lavori a Taranto sono bloccati da anni per le proteste e per l’opposizione delle amministrazioni locali.
Il progetto di Taranto costituisce per il futuro della città una speranza per molti, ma per altri rappresenta una preoccupazione. Senza gli impianti di ricezione del petrolio, resta paralizzato anche il giacimento di Tempa Rossa sulle montagne della Basilicata. Taranto è il “rubinetto” da cui poter spillare il vino dalla botte. Lavori e lavoro. La ripresa dell’attività per il porto, dove la crisi dell’Ilva ha frenato l’approdo di navi. Il rilancio della raffineria dell’Eni.
LA VAL D’AGRI E L’ENI
Nella zona c’è l’altro grande giacimento, forse anche più grande di Tempa Rossa, che l’Italia sfrutta da molti anni. È quello dell’Eni in Val d’Agri. Anche il giacimento della Val d’Agri è sotto inchiesta: fra le accuse c’è quella di avere rimmesso in modo irregolare nel sottosuolo le acque sotterranee uscite dalla roccia insieme con il petrolio. Di averle classificate con codici scorretti dei rifiuti. Da dove viene quest’acqua? È nel giacimento, mescolata insieme con il petrolio. Quando si estrae il greggio, con esso sgorga anche acqua. Viene ripompata in profondità nelle rocce in cui aveva riposato per milioni d’anni. Però, dal momento che prima di tornare sotto è state pompata alla luce, è classificata come rifiuto, e come tale va trattata.
SCIENZA E CONTESTAZIONI
C’è chi accusa l’Eni per questa attività di ripompaggio dell’acqua nel sottosuolo. L’Eni aveva affidato a un eminente ecotossicologo uno studio, secondo il quale il petrolio che contamina le sorgenti non è quello delle perforazioni; è lo stesso petrolio che sgorga naturalmente dalle sorgenti di tutta la zona. Altri scienziati hanno ribattuto che lo studio è stato condotto in modo sbagliato.
In Basilicata i cittadini sono divisi fra chi apprezza i benefici in termini di benessere e servizi ai cittadini offerti da queste risorse locali, e chi contesta le conseguenze sull’ambiente locale. Alcune associazioni – fra queste spicca l’Ola (Organizzazione lucana ambientalista) – sono molto attive e in diversi casi hanno ottime capacità di analisi scientifica e ambientale.
IL TESORO
Gli investimenti rischiano di fermarsi ancora una volta, mentre sempre più aziende del settore – Shell, Petroceltic, Transunion – nelle ultime settimane hanno abbandonato i progetti nell’Italia che sembra volere sempre più petrolio a patto che sia solo di importazione.
Jacopo Giliberto, Il Sole 24 Ore 1/4/2016

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ANGELO MASTRANDREA, INTERNAZIONALE.IT 15/8/2015 – 
Il Texas italiano, visto dai 1.725 metri del Sacro Monte di Viggiano, è di una bellezza che mette i brividi: boschi e monti e colli fin giù nella valle dove spicca, nota stonata tra tanto verde, il grigio metallico del Centro oli più grande d’Italia. Ovunque tu vada, in val d’Agri, non riesci a liberartene: la fiamma perennemente accesa a segnalarne la presenza, un rumore di sottofondo incessante come di lavori sempre in corso e le esalazioni di gas e zolfo. “Guarda, lo hanno costruito sulla traiettoria della Madonna”, esclama Salvatore Laurenzana, un fotografo locale che, con Mimmo Nardozza e Marcella di Palo, ha girato un breve documentario, Mal d’Agri, sugli effetti delle trivellazioni petrolifere in questo angolo di Basilicata.
Per mostrarmelo lui e Nardozza mi hanno portato fin quassù, ai piedi del santuario più famoso della regione e ora, all’ombra di un faggio, ammiriamo un paesaggio da cartolina al centro del quale spicca questo monumento alla modernità, in linea d’aria perfettamente simmetrico al santuario della “patrona e regina della Lucania”, come fu incoronata da papa Leone XIII, nel 1890, la madonna dal volto del colore del bitume che qui in val d’Agri erutta naturalmente, al pari dell’acqua sorgiva.
Ne rimasero colpiti pure alla grande esposizione universale di Parigi del 1878, quando di fronte all’ampolla d’oro nero arrivata dalla Lucania in molti rimasero stupiti quasi come davanti alla nuovissima tour Eiffel.
Ma dovette passare ancora del tempo perché da quella “piccola sorgente di acqua mista a petrolio”, dove quest’ultimo “viene emesso in piccola quantità, ma in modo continuo sotto forma di viscide filacciche che vengono trascinate dalla corrente impeciando le sponde del ruscello e sprigionando un acuto odore caratteristico” e talvolta “anche delle bollicine gassose”, come si legge in un Bollettino della società geologica italiana datato 1902, si arrivasse all’estrazione vera e propria.

Una colonizzazione vera e propria
Tutto cominciò nella seconda metà degli anni trenta quando la neonata Agip cominciò a bucherellare il territorio senza che la “miseria contadina” descritta dall’economista agrario e grande meridionalista Manlio Rossi Doria, negli anni venti studente-ospite di un’azienda agricola e in seguito confinato dal fascismo proprio in val d’Agri, ne traesse alcun beneficio.
Oggi la storia si ripete. La Basilicata è la più grande riserva petrolifera d’Italia: qui si estraggono il 70,6 per cento del petrolio e il 14 per cento del gas italiani.
Dalla terrazza naturale del Sacro Monte, Mimmo Nardozza indica i pozzi vecchi e nuovi, a volte mimetizzati tra i boschi. L’umanità è rarefatta, da queste parti: per strada si incontrano solo mezzi della statunitense Halliburton, tecnici della Total francese o auto dei vigilantes locali, uno dei piccoli business fioriti attorno alle estrazioni.
Michele, un giovane del posto, fa eccezione: gli piace godersi la solitudine della montagna ed è salito quassù con la sua moto per cercare un po’ di refrigerio dalla canicola asfissiante del primo pomeriggio, lavora come elettricista per una ditta che ha la sede nella zona industriale, vicino al Centro oli e per questo spesso è chiamato a eseguire lavoretti di manutenzione nei pozzi.
Racconta degli screzi tra gli operai che l’Eni ha fatto arrivare dalla Sicilia e quelli lucani per uno sciopero al quale i primi non hanno aderito e non è contento del modo in cui sono trattati il territorio e la popolazione. “È una colonizzazione vera e propria”, afferma senza timori.
A Viggiano, poco più di tremila abitanti che affacciano sul Centro oli e su venti dei 27 pozzi attivi in Val d’Agri, in molti hanno avuto o hanno a che fare con il petrolio: c’è chi ha preso soldi per un pezzo di terra espropriato, chi fa lavoretti occasionali e chi ha un familiare impiegato, e tanto basta a far sì che dell’argomento in molti parlino poco volentieri.
Ma la consapevolezza dei danni procurati all’ambiente è tanta, almeno a giudicare dalla conversazione con il mio occasionale interlocutore d’alta montagna, venuto a cercare refrigerio in questo bosco incantevole dove ci si potrebbe pure abbeverare a una sorgente con annessa fontanella, se non fosse per una scritta, “acqua non controllata”. È stata messa lì dal comune che, nell’impossibilità di monitorare costantemente le sorgenti, avverte gli assetati viandanti: se vi azzardate a bere, lo fate a vostro rischio e pericolo.
Il problema è reale: l’Acqua dell’abete, tra i boschi della vicina Calvello a 1.200 metri d’altitudine, è risultata inquinata, e anche questa potrebbe non essere limpida come appare. “Ma i fedeli la bevono ugualmente perché pensano che è l’acqua della Madonna e non può far male”, spiega Michele.
Viggiano è oggi la capitale del petrolio italiano. Nel suo comune ricadono venti dei 27 pozzi della val d’Agri, nonché il Centro oli dove il gas viene separato dalla parte liquida (come pure lo zolfo), compresso e immesso nella rete distributiva della Snam. Il greggio, stabilizzato e stoccato, è invece spedito a Taranto, attraverso un oleodotto lungo 136 chilometri, da dove prende soprattutto la via della Turchia.
Il paese è attraversato da una rete sotterranea di tubi che affluiscono dai pozzi verso il Centro oli: ogni giorno nelle viscere del paesino lucano viaggiano 3,4 milioni di metri cubi di gas e l’equivalente di 81.868 barili di petrolio (ogni barile contiene 159 litri). Sono queste cifre a fare di questa valle “il più grande giacimento onshore dell’Europa occidentale”, come la definisce l’Eni.
Per paradosso, Viggiano è il comune petrolifero più ricco d’Europa in una delle regioni più povere d’Italia. Accade per le royalty che puntualmente, dalla fine degli anni novanta, l’Ente nazionale idrocarburi versa nelle casse del comune: fino al 2010 si trattava del 7 per cento del totale del petrolio estratto, poi è stato aumentato al 10 per cento.
L’Eni dichiara di aver pagato 1,16 miliardi di euro dal 1998 al 2013 (ultimo dato disponibile) e a Viggiano arrivano più di 11 milioni all’anno, così tanti che l’amministrazione ha perfino difficoltà a spenderli. “Ci finanziano sagre e feste estive, hanno messo fioriere dappertutto”, dice Nardozza, ma tutto ciò non basta a impedire che i giovani emigrino alla ricerca di fortuna altrove e in paese rimangano solo gli anziani, come in molte aree interne del Mezzogiorno.
Nemmeno la presenza di tecnici e operai del Centro oli e delle aziende dell’indotto pare aver modificato più di tanto lo stile di vita del paese. Alle due di pomeriggio, lungo il corso principale c’è una sorta di coprifuoco e all’unico bar aperto regna l’accidia mediterranea delle ore di fuoco.
A essere cambiato davvero, mi spiega Enzo Alliegro, è il rapporto della popolazione con il territorio. Alliegro è un antropologo, insegna all’Università Federico II di Napoli e ha dedicato alla questione del petrolio in Basilicata un libro, Il totem nero, nel quale prova ad andare oltre la consueta critica ambientalista e ad analizzare le mutazioni antropologiche dettate dal cambiamento del rapporto tra la gente del luogo e la natura.
“La petrolizzazione ha danneggiato il territorio non solo sul piano ambientale e paesaggistico, ma pure su quello sanitario, identitario e della coesione”, sostiene. Vale a dire? “Fino a ieri, per i lucani la terra era un elemento di identificazione culturale e sociale. Nessuno dubitava dell’acqua e della salubrità dei prodotti locali. Ora invece pensano che le risorse naturali possano essere compromesse e questo cambia profondamente la loro identità. Nel loro immaginario la natura da fonte di vita si è trasformata in rischio di morte”.

Sentirsi derubati
Un tempo gli eventi avversi erano eccezionali: un alluvione o un terremoto (qui la cultura popolare ancora porta la memoria di quello devastante del 1857, immortalato dal fotografo francese Alphonse Bernaud nel primo reportage fotografico di un sisma della storia del giornalismo). Oggi invece secondo Alliegro, grazie agli sconvolgimenti portati dalle trivelle, la natura è diventata perennemente matrigna.
Ma sono pure altri i sentimenti che agitano gli abitanti di queste terre: “La popolazione si sente derubata di una cosa che è sua e che dovrebbe rimanere a loro. Pensano, secondo me sbagliando, che il petrolio è lucano e ne debbano beneficiare gli abitanti del posto. In buona sostanza, ragionano in questo modo: ci avete derubato, messo a rischio e ora ci trattate come persone del terzo mondo. È uno schema interpretativo al quale aderisce pure chi è a favore delle perforazioni”.
Per addolcire la pillola ai suoi cittadini la regione Basilicata, dismessa ogni velleità autarchica (qualche anno fa aveva minacciato di aderire autonomamente all’Opec, l’Organizzazione dei paesi produttori di petrolio), utilizza i proventi dell’oro nero per finanziare lo stato sociale: tra i 20 e i 30 milioni al sistema sanitario, due milioni in borse di studio universitarie, 20 milioni in programmi di forestazione e per le vie blu marittime, 3,5 milioni in investimenti nella Società energetica lucana.
E ancora, dieci milioni all’anno vanno all’Università della Basilicata, altri soldi sono destinati alla riduzione della bolletta energetica e del costo della benzina, nonché a un fondo di garanzia per le imprese.
In definitiva, il petrolio copre così tante spese culturali e sociali per i nemmeno 600mila abitanti di una regione poco popolosa e priva di grandi città che la Cgil è arrivata a denunciare il rischio di una “dipendenza eccessiva dai diritti provenienti dalle attività estrattive”. Cosa accadrà, lascia intendere il sindacato, se le royalty dovessero diminuire, come già potrebbe accadere quest’anno a causa del crollo dei prezzi del petrolio, o addirittura il giorno in cui tutto dovesse finire?

Cravatte al sole
L’enorme giro d’affari attorno al business delle trivelle spiega perché, al di là dell’opposizione di facciata, nel mondo della politica locale al petrolio intendano rinunciare in pochi. Nel palazzo della regione a Potenza un tabellone segnala l’estrazione giornaliera come in un emirato arabo e attorno all’oro nero si gioca la stabilità di un sistema politico che non ha avuto grandi scossoni dai tempi della prima repubblica.
Ma l’opinione pubblica non è più la stessa che accettò senza battere ciglio le prime perforazioni negli anni novanta e i politici sono costretti a seguirne gli umori per non perdere consensi. Le inchieste giudiziarie hanno fermato le nuove prospezioni petrolifere e la giunta regionale ha deciso di non concedere più nuovi permessi, ma la corte costituzionale le ha dato torto e ora su tutta la regione incombono 18 nuove istanze, firmate Shell e e Total, su una superficie di 3.896 chilometri quadrati e 95 comuni interessati.


Lo sblocca Italia del governo Renzi, che qui considerano l’ultimo atto di una colonizzazione cominciata con gli accordi del 1998 e proseguita con un successivo Memorandum, ha completato l’opera, scavalcando per legge gli enti locali e autorizzando trivellazioni un po’ ovunque, perfino di fronte alla costa di Policoro, sul mar Ionio, dove una decina di anni fa ci fu una vera e propria sommossa popolare contro la proposta dell’allora governo Berlusconi di costruirvi il sito unico per le scorie nucleari.

Nelle scorse settimane il governatore Marcello Pittella, fratello di Gianni – capogruppo dei socialisti al parlamento europeo – e figlio dell’ex senatore socialista Domenico – che nel 1981 curò clandestinamente nella sua clinica di Lauria (sul versante tirrenico) la brigatista Natalia Ligas ferita in uno scontro a fuoco– si è presentato a una manifestazione contro le previste perforazioni in mare, ma è stato contestato dai comitati No Triv: “Basta con le sfilate di cravatte al sole”, gli hanno urlato.

Al presidente della regione viene imputata la debole opposizione allo sblocca Italia e la mancata impugnazione di un articolo, il 38, che secondo l’Organizzazione ambientalista lucana (Ola) regalerebbe alle compagnie petrolifere il 78 per cento del territorio regionale. Ma non finisce qui. Secondo Nardozza “la Basilicata è destinata a diventare l’hub energetico più importante d’Italia”.

La nuova frontiera si chiama Tap (Trans-adriatic pipeline) ed è il gasdotto che dalla frontiera greco-turca porterà il gas del mar Caspio in Europa. Da Taranto la condotta passerà per la val d’Agri, facendo il percorso inverso a quello che fa oggi il gas estratto da queste parti, e “il Centro oli è destinato a trasformarsi in un gigantesco deposito”.
Per capirne un po’ di più degli orientamenti politici me ne vado a un convegno sulla sanità promosso dal Pd a Villa d’Agri, il capoluogo commerciale della valle, a pochissimi chilometri dal Centro oli.
Prendono la parola esponenti della regione, sindaci e politici delle zone del petrolio. Si parla di ospedali ma il tema dominante è l’onnipresente petrolio. C’è allarme sulle patologie causate dall’inquinamento ambientale e nello stesso tempo bisogna far fronte ai tagli previsti dalla spending review del governo, e il leit motiv del convegno è la capacità o meno di spendere alcuni fondi europei.
In buona sostanza, nessuno pensa a uno stop al petrolio ma solo a come compensarne gli effetti più deteriori. Così vanno le cose nella “Basilicata Saudita”, come l’ha efficacemente definita il segretario dei radicali lucani Maurizio Bolognetti, autore di numerose denunce sui disastri ambientali provocati dalle perforazioni.


Viggiano è la città della Madonna nera, del petrolio che ha lo stesso colore della Vergine e di musicisti nomadi. A rammentarlo è un’insegna che accoglie i visitatori all’ingresso del paese, appollaiato su una collina sovrastata dal Sacro Monte e a sua volta affacciato sul Centro oli. Molto prima che si cominciasse a estrarre l’oro nero, gli emigranti partivano in squadre da quattro, portandosi dietro i ferri del mestiere: un violino, un flauto, un clarinetto e l’“arpicedda”, una particolare arpa con 34 corde, abbastanza maneggevole per essere trasportata da compagnie itineranti.

Leonardo Fiore è uno degli ultimi eredi di questa antica tradizione. Non sa suonare ma ha recuperato un’attività artigianale che toccò il suo apice quando un emigrante viggianese, Nicola Reale, regalò uno strumento di sua fabbricazione (in realtà si trattava di un violino e non di un’arpa) al presidente americano Richard Nixon.

Mi invita nel laboratorio in un vicoletto del centro storico per mostrarmi il suo capolavoro: un’arpa in legno di frassino, abete rosso della val di Fiemme e corde di budello, appena ultimata dopo quattro anni di lavoro. È in vendita al prezzo di tremila euro.

Luoghi mitici

Per almeno un secolo e mezzo la musica ha dato da vivere a buona parte del paese, come si legge nel primo numero del periodico L’arpa viggianese, datato 1873: “Viggiano proprio per l’arpa si ha mutato in casa ogni tugurio”. A questo giornale è legato un aneddoto singolare:quando nel 1878 uscì il romanzo Sans famille di Hector Malot, in paese identificarono il personaggio di Vitali, che avvia a una vita da arpista girovago il trovatello Remi, con un musicista del luogo, e si offesero terribilmente perché Vitali era ritratto come uno sfruttatore del lavoro infantile, cosa che invece è stata edulcorata nel successivo cartone animato giapponese degli anni ottanta (il “dolce Remi, piccolo come sei, per il mondo tu vai” della sigla italiana firmata Vince Tempera che vedranno milioni di bambini).

Diciamoci la verità: l’idea di coniugare ambiente e petrolio è una grande cazzata

I redattori dell’Arpa viggianese (alcuni docenti ed esponenti del notabilato locale) si diedero così l’obiettivo di “restituire la rettitudine morale e politica dei musicanti”, considerati alla stregua dei gitani di oggi e dunque vittime di razzismo. L’epopea degli arpisti zingari incise in profondità la cultura viggianese, al punto da ispirare alcuni detti: “Misurare l’Europa da un capo all’altro è affare da nulla per il viggianese” oppure “ogni luogo è teatro pel viggianese”.

Il poeta Pietro Paolo Parzanese declamò in versi, nel 1846: “Ho l’arpa al collo, son viggianese, tutta la terra è il mio paese”. In una corrispondenza del 1884 Giovanni Pascoli scrisse a Giosué Carducci che “gli arpeggiamenti per tutto il paese” facevano del comune della val d’Agri l’Antissa della Lucania, paragonando il paesino in cui era stato inviato come commissario per gli esami scolastici al luogo mitico dell’isola di Lesbo in cui nacque il poeta e suonatore di lira Terpandro, considerato il fondatore della musica greca antica.

Alla fine di maggio è morto, alla veneranda età di 95 anni, l’ultimo grande esponente di una lunghissima tradizione. Si chiamava Victor Salvi, aveva suonato nell’orchestra filarmonica di New York e nella Nbc orchestra diretta da Arturo Toscanini, suo fratello era stato a sua volta un arpista di livello mondiale (si esibì con Enrico Caruso, Beniamino Gigli e Tito Schipa, tra gli altri) e insieme avevano fondato la Salvi Harps, tuttora un colosso del settore.

Ma questa storia a Viggiano pare rimossa, come se gli emigranti, lasciando il paese, avessero portato via pure la sua musica. Nonostante la buona volontà di qualcuno e le buone potenzialità legate a un mercato di nicchia rispetto al quale potrebbero contare su un know how plurisecolare, alle arpe si preferiscono le trivelle. Leonardo Fiore lo ammette sconsolato: “Oggi nessuno vuole fare più quest’attività, tutti vogliono lavorare con il petrolio”.

Compensare i danni

A separare il pozzo Monte Alpi 1 dalle stalle dell’azienda agricola Sassano è un reticolato e null’altro. Ci arrivo passando per la sede della fondazione Enrico Mattei, che utilizza un bel convento restaurato e si premura di incentivare il turismo sostenibile e di fare di Viggiano un albergo diffuso, nel tentativo di compensare l’impatto ambientale delle estrazioni.

Lungo una strada poderale, in un’area che dovrebbe essere espropriata per consentire l’apertura di una quinta linea del Centro oli, tra terreni coltivati e vecchie abitazioni in pietra, spunta un’antica sede sindacale della metà dell’ottocento, in una casa colonica ristrutturata.

Il proprietario dell’azienda, Gaetano, non c’è ma risponde al telefono, chiamato da un suo dipendente indiano: “Da quando sono spuntati i pozzi per me è stata la fine”, dice. Il vino che produce non lo vuole più nessuno e le mucche hanno cominciato a morire senza motivo: “In meno di un mese ne ho seppellite quindici e nessuno sa darmi una spiegazione”. Davanti all’azienda ce n’è una con una sorta di distrofia muscolare, scheletrica, separata dalle altre, gli occhi che paiono implorare aiuto. “Diciamoci la verità: l’idea di coniugare ambiente e petrolio è una grande cazzata”.
Il monumento commemorativo del terremoto del 1857 a Grumento Nova, il 13 giugno 2015. - Andrea Sabbadini, Buenavista photo Il monumento commemorativo del terremoto del 1857 a Grumento Nova, il 13 giugno 2015. (Andrea Sabbadini, Buenavista photo)

Nel centro di Grumento Nova incontro un simpatico personaggio che non vuole dire il suo nome ma è votato alla chiacchiera e incline alla citazione colta. È un professore di liceo in libera uscita estiva, tipica figura d’intellettuale magno-greco di paese e, da una piazzetta affacciata sulla val d’Agri, sulla collina di fronte a quella su cui è costruita Viggiano, indica il Centro oli, la “cattedrale nel deserto”: “Una volta questa era una valle bellissima, del vino di Grumentum”, l’antica città romana, una sorta di Pompei lucana oggi parco archeologico, “ne parla Tito Livio, ma ora arriva un olezzo…”.

La cittadina non beneficia di royalty milionarie come Viggiano ma risente degli effetti più sgradevoli: il rumore, specie di notte quando tutto tace, le esalazioni che non deliziano l’olfatto, la moria di carpe nel lago Pertusillo, invaso artificiale che, volgendo lo sguardo verso la sinistra da questo paese-terrazza, si estende a perdita d’occhio circondato dai boschi.

Dovrebbe essere una riserva naturale, quest’ultimo, un’oasi nel verde che fornisce alla Puglia, attraverso una mastodontica diga alta cento metri, il 65 per cento del suo fabbisogno di acqua potabile e per usi irrigui: 4.500litri al secondo, per una capacità di 155 milioni di metri cubi.

Da anni, invece, si susseguono denunce e controdenunce, analisi e controanalisi, in una guerra di dati e notizie che servono solo a far confusione e a coprire di una spessa coltre di disinformazione l’intera questione.

Tre tipi di scienza a confronto

Da quando muoiono le carpe attorno al Pertusillo è accaduto di tutto: un tenente della polizia provinciale che aveva diffuso i dati sull’inquinamento è stato sospeso dal servizio, processato per rivelazione di segreto d’ufficio e poi definitivamente assolto, l’Arpa della Basilicata ha censito la presenza di ben 21 metalli pesanti nelle acque del lago, cinque dei quali passati indenni perfino agli impianti di potabilizzazione, l’Organizzazione lucana ambientalista ha denunciato concentrazioni di idrocarburi superiori ai limiti legali nel 70 per cento dei campioni mandati ad analizzare, specie in coincidenza con la foce del fiume Agri che attraversa le terre del petrolio.

Sono finite sotto accusa le trivellazioni e i depuratori malfunzionanti, i cambiamenti climatici e calamità naturali come la misteriosa comparsa di una devastante alga rossa.

Da ultimo, un deputato lucano cinquestelle, Vito Petrocelli (con un passato recente nell’estrema sinistra dei Carc), ha presentato un dossier alla commissione ambiente del parlamento europeo sostenendo che l’inquinamento del Pertusillo è tutta colpa del fracking, la tecnica di fratturazione idraulica utilizzata dalla Halliburton per cercare gas e petrolio. Per dimostrarlo, ha fatto un parallelo con un analogo fenomeno avvenuto in un lago del Kentucky.

Il petrolio, da queste parti, viene fuori anche se nessuno lo cerca

Ma, come per la puzza e il rumore del Centro oli, nessuno è finora riuscito a dimostrare un legame di causa-effetto e a stabilire responsabilità e pericoli per la salute. E chi è stato chiamato a fornire un’analisi scientifica non ha contribuito a diradare le nebbie.

“Qui si scontrano la scienza di stato che fornisce una verità ufficiale, quella aziendale che porta acqua al mulino dei petrolieri e un’altra di prossimità, fatta da medici, ingegneri, geologi ed esperti locali di vario genere che studiano il territorio e svolgono un’importante opera di denuncia ed educazione delle popolazioni”, dice l’antropologo Alliegro.

Poi c’è quella che definisce “la scienza dei senza scienza”, vale a dire le conoscenze legate alle esperienze sensoriali degli abitanti del luogo, che sono insofferenti ai rumori, soffrono per la puzza e si rendono conto che l’acqua non è più quella di una volta. Di fronte a questa evidenza, non c’è soglia di legge o interpretazione che tenga: lo scienziato senza scienza, abitante e profondo conoscitore dei luoghi per esperienza diretta, si rende conto che oggi in val d’Agri non si vive più come un tempo. In definitiva, per Alliegro esiste un danno percepito che è molto superiore a quello certificato.

Assistenzialismo allo stato puro

Che non sia facile attribuire colpe è testimoniato pure da un’altra evidenza: il petrolio, da queste parti, viene fuori anche se nessuno lo cerca.

Ne ho la prova in un canyon di Tramutola: da una sorgente, a poca distanza da un parco acquatico che sfrutta le acque sulfuree del sottosuolo, sgorga l’oro nero di Lucania, viscido e oleoso. Forma una sorta di ruscello nerastro e va poi a riversarsi in un torrente, il rio Cavolo. In qualche punto si addensa e si formano delle bollicine di metano, mentre l’acqua sulfurea gli scorre addosso e scende a grande velocità verso il rio, lasciando per strada molte impurità.

Mi dicono che è proprio da questa sorgente che nel 1878 fu riempita l’ampolla da portare all’Expo di Parigi ed è difficile credere che sia ancora viva in qualcuno la convinzione che, come per l’acqua della Madonna sul Sacro Monte, il composto che rigurgita dalle viscere di Tramutola abbia effetti curativi.

Proseguendo oltre, si incontrano le vestigia dell’“eldorado nero” della seconda metà degli anni trenta, come fu definito dagli amministratori dell’epoca. Si tratta di 47 pozzi svuotati e abbandonati, una sorta di avvertimento per quello che potrà accadere in futuro alle estrazioni di oggi.

Oggi il miraggio petrolifero si è spostato di poco, dalle gole di questo paesino lucano all’altro capo della valle. Ha conquistato politici e gente comune, lasciando credere che insieme alle jeep e alle trivelle sarebbero arrivati soldi, benessere e lavoro per tutti.

L’Eni fornisce qualche numero: 2.881 impiegati in Basilicata, di cui 348 direttamente (tra questi 206 lucani) e 2.553 (1.077 del luogo) nelle aziende dell’indotto o “nella catena di fornitura di beni e servizi”. Davide Bubbico, sociologo all’università di Salerno e autore del dossier per la Cgil, puntualizza: “Si tratta in gran parte di attività a basso valore aggiunto”.

In buona sostanza, per i giovani del posto che non emigrano il petrolio rimane un miraggio: si accontentano di mansioni poco qualificate, stipendi bassi e, almeno nella metà dei casi, di contratti a tempo determinato (spesso legati alla manutenzione degli impianti o a esigenze particolari), mentre le vecchie arpe ereditate da genitori e nonni rimangono gelosamente sigillate in casa come pezzi d’antiquariato, senza che nessuno di loro sappia però più utilizzarle.

“Sono tutti lavoretti per far stare tranquilla la popolazione, i giovani sono impiegati solo per pochi mesi, si tratta di assistenzialismo allo stato puro”, chiosa il professore di Grumento Nova, che azzarda un paragone con l’araba fenice, “che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”. Per l’anonimo erudito magno-greco “l’Eni ha portato un’illusione di tipo foscoliano”: “Si tratta di una speranza che non arriva mai”, dice, anche se nessuno da queste parti vuole rinunciare a crederci.



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PAOLO GRISERI, LA REPUBBLICA 2/4 – 
All’ora dell’aperitivo piazza Plebiscito si affolla di suv con la carrozzeria sporca di fango che scaricano giacche arancioni in arrivo dal cantiere. Venerdì sera, si stacca. I più si bevono l’ultima birra prima di trascorrere il week end con la famiglia lontana. Giuseppe, bancario, è uno dei pochi che restano: «Quante telecamere. Speravo che saremmo diventati famosi per un buon motivo: non osavo immaginare un premio Nobel, ma almeno un calciatore. E invece eccoci nel Totalgate». Favori, appalti e petrolio. Roba da Jr, non da Rosaria Vicino, sindaca per 15 anni e ancora oggi stimatissima nonostante gli scandali: «Che cosa ha commesso di male? Ha fatto entrare alla Total i ragazzi del paese. E allora? Che cosa deve fare un sindaco se non questo?». All’“Antico Caffé”, Angelo è un innocentista convinto. Eppure le intercettazioni parlano chiaro: per ottenere le assunzioni la sindaca minacciava la Total di non rilasciare le licenze di costruzione. «La sindaca minacciava la Total? Lei ha presente che cosa stiamo dicendo? Che il primo cittadino di un paese di 2.500 anime fa tremare una multinazionale del petrolio. Io non ci credo. E se ci riusciva, tanto di cappello».
Alla faccia dello scandalo molti corletani sono con Rosaria. E, naturalmente, con la Total: «Senza il petrolio tanti ragazzi sarebbero emigrati al Nord. Oggi avremmo il paese animato solo d’estate», considera Giovanni, 66 anni, uno che è riuscito a non spostarsi mai dal bancone della sua tabaccheria.
Gli effetti economici del petrolio li elenca Antonio Massari, 45 anni, dal maggio scorso primo cittadino dopo aver battuto alle elezioni proprio Rosaria Vicino. «Con la Total lavorano stabilmente circa 150 abitanti del paese. Ma il cantiere occupa molte più persone. Oggi sono circa 1.600. La novità della nostra amministrazione è stata quella di ottenere che la Total assumesse dopo corsi di formazione collettivi e non su segnalazione dei politici». Una manna, quella del lavoro, che rischia comunque di essere passeggera: a fine 2017, quando si concluderà il cantiere, l’occupazione per il funzionamento dell’impianto non supererà le 1.000 persone. Per questo Rosaria cercava di pilotare le assunzioni: «Tutti sanno che il treno del cantiere passa e va», spiega il bancario.
Finiti i lavori ci sarà solo più la speranza dei soldi. Sul muro del Municipio, il vecchio castello degli Sforza restaurato, c’è un cartello che potrebbe figurare sulla Town hall di una cittadina del Golfo del Messico: «Intervento finanziato con le risorse regionali derivanti dalle royalties delle estrazioni petrolifere». Le royalties, l’oro dell’oro nero. Roba da Paperoni. Quanto incassa il comune di Corleto? «Per ora nulla», rispondono all’ufficio Ragioneria spiegando che quelle cui fa riferimento il cartello sono le royalties regionali ottenute dall’Eni per i pozzi di Viggiano. Ma nel 2018 quando il centro oli della Total comincerà a funzionare si aprirà il rubinetto: i 50 mila barili di Corleto sommati a quelli Eni di Viggiano porteranno la produzione globale della Basilicata a 200 mila barili al giorno. E arriveranno i soldi. «Saranno tra uno e due milioni di euro all’anno». Cioè tra il dieci e il venti per cento del bilancio comunale. Corleto sarà ricca? Pochi ci credono ma dieci anni fa c’era chi in campagna elettorale prometteva benzina gratis per tutti. Oggi siamo in Lucania ma domani sembrerà di essere a Riad.
Sarebbe un errore dipingere questo paese come un covo di affaristi senza scrupoli che in nome del dio denaro passano sopra le ragioni dell’ambiente. Il cartello che accoglie il visitatore dal fondovalle non potrebbe essere più chiaro: «Benvenuti a Corleto Perticara, città per la pace. Comune denuclearizzato». Tutte le medaglie del politicamente corretto della sinistra sono esibite, compresa la bandiera arcobaleno. Piuttosto c’è una certa trasversalità ambientalista: il cantiere del petrolio è circondato da gigantesche pale eoliche e francamente non si saprebbe dire se facciano più a pugni con il paesaggio i tralicci dell’energia rinnovabile o i tubi che arrivano dai pozzi dell’oro nero. Venti chilometri più a valle, nel centro Eni di Viggiano, fa certamente peggio il petrolio se si deve credere allo scandalo dei gravi inquinamenti scoperti dall’inchiesta di Potenza. Ma qui, a Corleto, l’inquinamento più grave è quello del giro di favori e di appalti gestito da Rosaria Vicino e dai conoscenti del ministro Guidi. Poteva la sindaca comportarsi diversamente, ottenere i posti di lavoro in altro modo o, in fondo, hanno ragione gli innocentisti? Domanda insidiosa per il parroco, don Vincenzo Cantore: «Le rispondo con una domanda: Robin Hood era popolare? Certamente. Ma la legge è la legge. E si deve ammettere che, per quanto popolare, Robin Hood, innegabilmente sbagliava».

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JACOPO GILIBERTO, IL SOLE 24 ORE 2/4/2016 –
Vale 500 milioni il beneficio economico che i giacimenti portano alla Basilicata. È una stima, bentinteso, e non tiene conto di vantaggi e svantaggi non misurabili come gli sprechi dei soldi ricevuti, come i rischi ambientali o al contrario come il lusso che i cittadini della Basilicata si concedono di avere l’unica sanità regionale del Sud risanata con i soldi delle compagnie petrolifere.
Non tutti i soldi portati in Basilicata dai giacimenti di petrolio e metano sono leggibili nelle statistiche. Per esempio, non ha valore misurabile il fatto che la Basilicata è l’unica Regione del Mezzogiorno a concedersi il lusso di avere un bilancio sanitario certificato. E risanato. Grazie alle royalty del petrolio gli abitanti della Basilicata possono godere il servizio sanitario migliore del Sud. E un ambiente tra i migliori del Mezzogiorno a dispetto del pesante inquinamento petrolifero.
Le ricadute economiche sulla Basilicata potrebbero valere più di 500 milioni fra la somma delle royalty, la nascita di nuove attività, lo sviluppo dell’indotto e in generale la ricchezza aggiuntiva che si genera. Sono stime per forza di cose approssimate. Secondo un’analisi (Agriregionieuropa 2012) l’attività petrolifera apporta alla regione un valore aggiunto sui 500 milioni e genera più di 5mila posti di lavoro. È una manna per una regione dove il Pil pro capite per i 500mila abitanti s’aggira sui 18mila euro e dove l’agricoltura (quante volte è stato detto che «il nostro territorio è vocato per l’agricoltura»?) è un doloroso 3% dell’intero Pil regionale.
Oltre alle royalty sui 300 milioni l’anno — la Basilicata ha un regime speciale — e a quanto viene dato direttamente ai Comuni e ai programmi di sviluppo sociale ed economico, oltre alla sanità migliore del Sud, oltre agli investimenti delle compagnie, oltre al lavoro e alla nascita di tante imprese, il greggio porta lo sconto sui carburanti, cioè 330mila bonus pari a 52 milioni. E porta anche un progetto per quel reddito di cittadinanza che tanti politici sognano e che il presidente della Regione, Marcello Pittella, può concedere ai suoi concittadini poveri: per il solo fatto di essere lucani, ecco un assegno mensile di 450 euro.
Investimenti a rischio
Fra Legge di stabilità, l’alternarsi di permessi e divieti, il referendum sulla durata delle concessioni petrolifere in mare, i comitati nimby e le amministrazioni locali ribelli, l’Italia sta spaventando tutti gli investitori energetici. Non scappano solamente le compagnie petrolifere: anche gli investitori delle fonti rinnovabili sono sempre più sconcertati e spostano altrove gli investimenti. Più facile investire in Messico che a Orvieto.
In pochi mesi l’Italia riottosa ha saputo perdere più di 10 miliardi di investimenti nel metano e nel greggio. L’anno scorso le compagnie avevano progettato di spendere in Italia 16,2 miliardi di euro. Ora non più di 5,8 miliardi. La Shell è scappata a gambe levate dal Golfo di Taranto (2 miliardi sfumati), la Petroceltic è stata “consigliata” dalla ministra Federica Guidi ad abbandonare i giacimenti in acque internazionali in Adriatico, la Transunion ha lasciato i suoi progetti.
Ora s’aggiunge questo rischio per gli 1,6 miliardi di investimenti della Total sul giacimento lucano di Tempa Rossa e sul suo centro logistico a Taranto.
Se passerà il referendum sulle concessioni, l’abbandono petrolifero sarà totale, a vantaggio di flotte di petroliere per importare il greggio che usiamo sempre di più. Nel 2015 i 5,3 milioni di tonnellate usate dagli italiani, ecologisti soltanto a parole, rappresentano una crescita del +5,5% rispetto al 2014. E aumenta anche l’import di gas, +5,5 miliardi di metri cubi.
Le royalty in Italia
Paesi petroliferi come la Norvegia e la Gran Bretagna , ma anche l’Irlanda, hanno zero royalty sul petrolio. Hanno spostato sulla fiscalità, sulle tasse alle compagnie, tutto il prelievo pubblico su gas e petrolio. In Italia le royalty variano se il giacimento è su terra o su mare, se di gas o di petrolio. Alle royalty l’Italia aggiunge la normale fiscalità sugli utili delle compagnie. In tutto, fra royalty e fiscalità preleviamo alle compagnie petrolifere circa il 50-60% del valore del petrolio estratto, cioè l’Italia si colloca nella fascia medio-alta di prelievo tra i Paesi europei.
La sola voce royalty nel 2014 è stata pari a 402 milioni, di cui 182,4 alle Regioni petrolifere (pari al 45%), 70,6 milioni allo Stato e 29,2 milioni ai Comuni con i pozzi.
Come vengono usati questi soldi? In parte per ridurre il prezzo dei carburanti con la tessera residenti. A parte il caso particolare della Basilicata, il grosso dell’aiuto al rifornimento va a Veneto, Piemonte e Puglia. Altri 34 milioni sono stati divisi tra ministero dell’Ambiente (per finanziare la flotta antinquinamento) e Sviluppo economico (per il controllo tramite le navi della Marina militare, i satelliti e altri strumenti).
Le compagnie che nel 2014 hanno pagato di più sono l’Eni (258,7 milioni) e la Shell (106 milioni).
Jacopo Giliberto

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DOMENICO PALMIOTTI, IL SOLE 24 ORE 2/4/2016 –
Vale 300 milioni di euro, su un investimento totale di 2 miliardi, metà dei quali già spesi in Basilicata, la parte tarantina del progetto «Tempa Rossa». Nei 300 milioni c’è la costruzione di due serbatoi di stoccaggio da 180mila metri cubi all’interno della raffineria Eni di Taranto e l’allungamento di 515 metri del pontile petroli della stessa raffineria. Due anni di lavori, 300 occupati di cantiere e un ricaduta per circa 50 imprese. Il tutto per far affluire a Taranto, attraverso l’oleodotto Val D’Agri già esistente, il greggio di Tempa Rossa, stoccarlo temporanamente e caricarlo sulle navi dei clienti della joint Total, Shell e Mitsui.
Di queste opere, però, allo stato non è partito ancora nulla.
A settembre 2014 il premier Matteo Renzi, in un incontro con le istituzioni locali nella Prefettura di Taranto, definì «strategico» l’investimento di Tempa Rossa e si impegnò a convocare un tavolo che avrebbe esaminato tutte le criticità manifestate verso il progetto da Regione Puglia e Comune di Taranto, che da un sì iniziale espresso nel 2011, erano passate al no anche a seguito della vicenda Ilva e della pressione degli ambientalisti.
Tempa Rossa aveva già la Valutazione di impatto ambientale favorevole rilasciata a livello centrale ma gli enti locali motivarono il cambio di opinione col fatto che l’area di Taranto era già molto compromessa dall’Ilva a livello ambientale e non si potevano quindi aggiungere nuovi rischi. Il passo successivo del Comune fu quello di escludere, dall’approvazione del piano regolatore portuale a novembre 2014, le infrastrutture collegate a Tempa Rossa. A dicembre dello stesso anno è arrivato l’emendamento alla legge di Stabilità che difatto ha esteso alle opere a valle del giacimento lucano, e quindi ai depositi costieri e ai terminali di ricezione, le autorizzazioni centrali. In questo modo si volevano sbloccare gli intoppi locali, ma l’emendamento non ha sortito risultati, nè hanno fatto cambiare atteggiamento agli enti locali le migliorie apportate al progetto con un’ulteriore riduzione delle emissioni relative sia al carico del greggio che della raffineria Eni.
Nel frattempo, si è aperto un contenzioso davanti alla giustizia amministrativa, promosso dai soggetti interessati a Tempa Rossa e dall’Eni, i quali hanno impugnato le decisioni del Comune sul piano regolatore del porto. E a giugno scorso il Tar di Lecce ha annullato la delibera comunale dicendo che l’ampliamento del pontile petroli rientra negli accordi sottoscritti da Comune e Autorità portuale nel 2006 e nel 2007, e che se l’ente locale può mettere in discussione precedenti intese, non può tuttavia farlo escludendo dal confronto le parti interessate. In quanto ai serbatoi, il Tar ha invece osservato che la loro costruzione non avverrà nelle aree del piano regolatore portuale «ma all’interno della raffineria, su terreni di proprietà Eni, qualificati nel Prg come area industriale». Quindi, per il Tar, l’altolà alla costruzione dei serbatoi è illegittimo.
C’è stato poi un ulteriore passaggio al Mise con la conferenza dei servizi chiusasi a fine 2015 e la dichiarazione, da parte del ministero, che «sussistono i presupposti per l’emanazione del relativo provvedimento di autorizzazione previa intesa con la Regione Puglia». Autorizzazione che però non è stata rilasciata anche perché l’intesa con la Regione non c’è stata. A inizio 2016, infine, per effetto del provvedimento del Tar e avendo rinunciato a fare appello al Consiglio di Stato, il Consiglio comunale di Taranto ha riapprovato il piano regolatore del porto includendovi l’ampliamento del pontile Eni funzionale a Tempa Rossa. Per l’appendice tarantina è stata fatta la progettazione di ingegneria e sono stati anche acquisiti, e fatti arrivare sul posto, i primi materiali da usare nella costruzione delle opere, ma al di là di questo non si è andati.
Domenico Palmiotti

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GIORGIO SANTILLI, IL SOLE 24 ORE 2/4/2016 –
Il Paese dei mille lacci, delle regole sempre eccessive (e spesso inutili) è ridotto a una guerra continua fra le lobby di interessi particolari che provano ad aggirare quelle regole con metodi (spesso non leciti) e i “professionisti del no” che di quelle regole si avvalgono come fossero una Bibbia. A farne le spese la crescita, gli investimenti, una seria programmazione di priorità.
Se non si riconduce il dibattito a toni civili, se non si analizzano gli investimenti per la loro capacità di produrre ricchezza diretta e indotta sul territorio, se non si disboscano regole ridondanti che servono solo a tenere in vita qualche potere di interdizione perpetua, se non si cerca nella “buona programmazione” la via per scegliere le priorità di cui un Paese ha bisogno, la guerra fra le lobby attente solo ai propri interessi (poco importa se economici o politici) è destinata a continuare senza sosta, a entrare nelle inchieste della magistratura, a riempire i giornali. Altre occasioni di sviluppo si perderanno, altri progetti resteranno paralizzati per decine di anni senza che una via di uscita a questa impasse ideologica abbia fine.
Per interrompere questa guerra è necessaria un’azione su tre fronti che – bisogna darne atto – il governo sta perseguendo con coerenza. Due fronti di ordine generale che vanno oltre i singoli progetti. Il primo fronte è quello della semplificazione. Qui stanno succedendo cose davvero importanti, ma la fatica del governo ad andare avanti conferma le molte resistenze. Il primo caso di semplificazione è il Dpr, previsto dalla legge Madia, che prevede il dimezzamento dei tempi di approvazione dei progetti infrastrutturali e produttivi e l’affidamento di poteri sostitutivi al premier in caso di resistenze immotivate. Provvedimento sacrosanto che consente un esercizio della responsabilità politica da parte del governo ma che le Regioni stanno pesantemente osteggiando in conferenza unificata. Il secondo provvedimento importante è la riforma della conferenza di servizi. Il terzo – e più importante – la riforma del codice degli appalti che riduce il numero di articoli da 600 a 219 e introduce elementi di soft law in luogo del vecchio regolamento rigido.
Il secondo fronte su cui la partita si gioca è quello della legalità su cui non si possono ammettere sconti a nessuno. Anche qui, però, come è stato nel caso dei commissariamenti all’Expo avvenuti sotto la regìa di Raffaele Cantone, bisogna distinguere le responsabilità (penali in quei casi) dal progetto che deve andare avanti.
Il terzo fronte è quello di riaprire una stagione di programmazione seria che sappia nuovamente dettare le priorità infrastrutturali fondamentali per il Paese e sappia convogliare su quelle le risorse disponibili (che non sono poche se consideriamo fondi Ue e “flessibilità” di bilancio). Anche su questo il governo sta facendo la propria parte con l’azione coraggiosa e in profondità del ministro Delrio: con il documento di programmazione pluriennale, che dovrebbe vedere la luce a settembre, si tireranno le fila di tutta una serie di programmi settoriali profondamente rivisitati. E si darà spazio probabilmente non solo alle grandi opere “europee”, ma anche alle “tecnologie leggere”, allo sviluppo urbano (con metropolitane e piste ciclabili), alla logistica, alla manutenzione. Un modo non solo per ridare energia più dinamica a un’azione di infrastrutturazione, ma anche di riconquistare fette dimenticate di crescita in settori fondamentali per il futuro.
Giorgio Santilli

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OSCAR GIANNINO, IL MESSAGGERO 2/4/2016 – 
Il caso politico del ministro Guidi si è risolto giovedì con le sue dimissioni entro poche ore. Ma già si possono fare tre osservazioni: sulle dimissioni, sul referendum del 17 aprile, e sulle conseguenze già prodottesi. Federica Guidi è caduta su un classico caso di conflitto d’interesse. La sua decisione di lasciare l’incarico è conseguenza di una valutazione condivisa con il premier Renzi. Quelle telefonate nelle intercettazioni disposte dalla procura di Potenza rendevano immediatamente opportuno sgombrare il campo da ogni polemica. Ed è stato meglio così.
Ci penserà la magistratura a valutare se il compagno della Guidi ricada o meno nella fattispecie penale dell’improprio traffico di influenze, prevista dall’articolo 346-bis del codice penale. E cioè se grazie alla via preferenziale d’accesso al ministro abbia ottenuto norme favorevoli a un progetto che interessava a Total, e se grazie a ciò abbia conseguito l’indebito vantaggio patrimoniale di divenirne possibile fornitore. Ma politicamente la posizione del ministro e del governo sarebbe stata una piaga aperta, se non si fosse proceduto a dimissioni subito. Il conflitto d’interesse si dimostra ancora una volta problema numero uno della vita politica italiana. Ed è ancor più rilevante se a incorrervi è un ministro imprenditore, con l’azienda di famiglia attiva nel settore dell’energia.
Spiace per la Guidi, che è stata un ministro molto attivo a centinaia di tavoli di gestione di crisi d’impresa, e che aveva presentato 15 mesi fa una buona legge per la concorrenza e le liberalizzazioni, che il parlamento ha smontato in buona parte. Ma fa testo una gran lettera che Quintino Sella scrisse al fratello Venanzio il giorno prima di assumere l’incarico di ministro del Tesoro, lasciando alle sue mani l’impresa di famiglia. Ti chiedo un impegno d’onore, gli disse: finché durerà la mia permanenza al ministero, prometti di non chiedere alcun contratto al governo. Il problema non è di oggi, visto che era il 1864.
GLI OBIETTIVI
Ma veniamo al referendum. Una cosa è certa: le dimissioni del ministro Guidi non c’entrano nulla con le ragioni favorevoli o contrarie al referendum. E per quanto sia ovvio che i proponenti e la politica si appiglino a tutto pur di recuperare consensi a proprio favore, si tratta in ogni caso di un tentativo strumentale.
La realtà è che purtroppo il quesito referendario sopravvissuto all’esame della Corte costituzionale ha un impatto limitatissimo rispetto alla questione che era sollevata dall’iniziativa referendaria promossa dalle Regioni con 6 quesiti. E lo ha capito benissimo la stragrande maggioranza dei governatori del Pd del Centrosud, che infatti si sono nettamente distinti dai toni oltranzisti che continuano invece a essere usati una minoranza dei proponenti.
Il quesito riguarda infatti la richiesta di non far più durare la concessione estrattiva per l’intero arco temporale del giacimento. Ma nel frattempo l’iniziativa è riuscita a far cambiare posizione al governo, che da quando aveva riaperto a ricerche ed estrazioni di fonti fossili con il decreto sblocca-Italia nel 2014, ha fatto marcia indietro con la legge di stabilità 2016, salvando solo le concessioni già attive. Assumendo l’iniziativa referendaria nelle Regioni invece di discuterne prima nel Pd, i governatori referendari hanno di fatto impedito che scelte energetiche di tanto impatto avvenissero dopo una seria e accurata discussione, in un paese al 90% dipendente per il suo fabbisogno da importazioni energetiche estere, e da paesi assai problematici come Russia e Algeria.
GLI EFFETTI
Delle 135 piattaforme marine presenti sul territorio italiano a fine 2015, quelle entro le 12 miglia oggetto del referendum sono 92, di cui attualmente 48 eroganti e rispondenti a 21 diverse concessioni. Dunque il presunto referendum “contro le trivelle” riguarderà tra queste solo il possibile effetto di farne smettere l’attività – con rilevanti problemi e rischi per il suggellamento - allo scadere della concessione invece che ala fine dei bacini estrattivi. Un effetto calcolabile dunque intorno all’1% del fabbisogno nazionale, rispetto al 10% complessivo di fonti estratte in Italia.
Eppure, in caso di quorum raggiunto il 17 aprile e vittoria del fronte abrogativo, le conseguenze sarebbero rivendicate ed estese all’intero complesso delle estrazioni nazionali. Nel tentativo – diciamo le cose come stanno - di far perdere il lavoro a circa 30mila addetti diretti e in filiera, con un danno complessivo diretto stimato da Nomisma per oltre 5 miliardi di euro nel solo Sud del Paese. La comunità degli oltre 6 mila lavoratori del distretto adriatico oil e gas di Ravenna ha perso giustamente la pazienza, e di fronte alla strumentalizzazione referendaria ha intrapreso azioni pubbliche per far capire agli italiani che cosa davvero è a rischio. Si badi bene che quei 6mila sono tutti aggiuntivi rispetto ai dipendenti ENI, che a propria volta verrebbero colpiti all’effetto a cascata di un’impropria strumentalizzazione dell’esito referendario. Ma né della dipendenza energetica italiana, né dei lavoratori della filiera, né degli effetti sul Sud già disastrato sembra importare molto alla polemica referendaria. Naturalmente incentrata su “più rinnovabili sussidiate dallo Stato”.
I NODI
In più, dall’intera confusa vicenda referendaria e dalle indagini giudiziarie in corso, abbiamo inflitto un’altra botta di credibilità internazionale alla possibilità stessa che multinazionali del settore ritengano possibile e conveniente operare nel nostro paese. A cominciare dalla Total coinvolta nella vicenda che ha portato alle dimissioni della Guidi, ma in realtà vale per tutte le straniere che abbiano concessioni in Italia. Non è davvero il modo di attirare capitali stranieri. E il peggio è trovarsi con tutti questi danni senza averne neanche discusso in maniera seria. Finora, dunque, un pessimo bilancio. Per evitare che peggiori, ci pensino gli italiani: che certamente hanno più buon senso.
Oscar Giannino

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ROBERTO GIOVANNINI, LA STAMPA 14/1/2016 – 
Massima è la confusione sotto il cielo, quando si parla di trivelle, ricerche e perforazioni petrolifere off shore. Dal 23 dicembre scorso, infatti, risulta vietato fare nuove perforazioni del fondo marino per estrarre idrocarburi entro le 12 miglia dalla costa del Belpaese. Lo ha stabilito un emendamento alla Legge di Stabilità inserito dal governo per evitare i referendum «No Triv» presentati da dieci Regioni. Tuttavia, le concessioni per le trivellazioni già date a suo tempo non scadono: restano “congelate”, e potrebbero tornar buone in un futuro imprecisato. Contemporaneamente, è appena stato concesso un nuovo permesso di ricerca al largo delle isole Tremiti. Con una conseguenza paradossale: la società Petroceltic Italia potrà cercare di capire se sotto il mare c’è un giacimento di gas o altri idrocarburi. Ma se lo trovasse vicino alle coste, non potrebbe estrarlo.
LA PROTESTA ALLE TREMITI
Nel frattempo è esplosa la protesta degli abitanti delle Tremiti, che temono ripercussioni per il turismo. Due sono le obiezioni degli isolani. La prima riguarda il futuro più lontano: un arcipelago come le Tremiti deve puntare su turismo e ambiente, oppure sugli idrocarburi, con tutti i rischi del caso? La seconda riguarda i possibili danni per il fondo marino legati all’uso della cosiddetta «air gun», una tecnica di ispezione del sottosuolo basata su esplosioni mirate di aria compressa. Secondo la maggior parte degli scienziati è assolutamente innocua, altri temono conseguenze per fondali e fauna. Critiche sono anche le organizzazioni ambientaliste, contrarie alle trivellazioni in mari «angusti» come l’Adriatico e il Canale di Sicilia, visti i potenziali rischi di incidente e inquinamento, come si è visto nel Mare del Nord o nel Golfo del Messico. E poi, dice Rossella Muroni presidente di Legambiente, «visti gli impegni presi alla Cop 21 di Parigi non si può predicare bene a livello internazionale e poi in Italia fare il contrario», visto anche che i giacimenti possibili di idrocarburi nei nostri mari sembrano molto piccoli, a detta degli esperti.
A complicare la situazione ci si è messo il braccio di ferro istituzionale tra il governo e il presidente della Puglia Michele Emiliano, uno dei presentatori dei quesiti referendari, che chiede al governo di ritirare il permesso di ricerca alle Tremiti. E – ciliegina sulla torta – martedì 19 la Corte Costituzionale potrebbe stabilire che uno dei sei referendum «No Triv» potrebbe essere comunque mantenuto. Proprio quello che riguarda le trivelle entro 12 miglia dalla costa.
GOVERNO ONDIVAGO
Una grande confusione che nasce, fanno notare gli addetti ai lavori, dalla linea poco chiara fin qui tenuta complessivamente dal governo Renzi. Da una parte c’è un ministero – quello dello Sviluppo Economico – che spinge sul pedale dell’estrazione di petrolio in Italia, con la finalità di ridurre (anche di poco) la dipendenza energetica. E sostanzialmente mantiene la strategia energetica decisa nel 2012 dal governo Monti, considerata universalmente molto «fossile». Dall’altra c’è il ministero dell’Ambiente, che a nome del Paese ha siglato l’accordo sul clima di Parigi. E soprattutto, dicono al ministero guidato da Gian Luca Galletti, è un ministero che a ben vedere è stato molto poco generoso con chi vuole trivellare. A leggere i numeri di un rapporto riservato del ministero dell’Ambiente, sulle 20 autorizzazioni Via di impatto ambientale concesse dal varo nel 1994 della legge che regola la materia delle «coltivazioni off shore», soltanto una è stata data dal governo e dal ministro in carica. Sei risalgono al primo governo Prodi (ministro Ronchi); tre al Berlusconi 1 (Matteoli); cinque al Berlusconi 2 (Prestigiacomo), e due a Monti (Clini). L’unica autorizzazione firmata da Galletti riguarda il progetto «Ombrina Mare», a 3,6 miglia dalla costa abruzzese-molisana. Attualmente (forse) sospeso. I punti interrogativi sono d’obbligo.
Roberto Giovannini, La Stampa 14/1/2016

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ANTONELLO CASSANO, LA REPUBBLICA 13/1/2016 – 
La carta idrocarburi e il reddito minimo garantito, la copertura dei dissesti comunali e la gestione della raccolta dei rifiuti, ma anche i soldi alle borse di studio, all’università e alla sanità in tutta la regione.
Mentre in Puglia ci si prepara alla battaglia in vista di trivellazioni lungo tutta la costa per la ricerca di eventuali giacimenti di petrolio, sulla vicina Lucania cade da anni una pioggia di milioni di euro, grazie allo sfruttamento dei suoi pozzi. Nel Texas d’Italia, come è stata ribattezzata la Basilicata, i proventi dell’oro nero servono a finanziare un po’ di tutto. Perché qui ci sono i giacimenti on shore più grandi di tutta l’Europa continentale dai quali si estrae il 70 per cento del petrolio e quasi il 15 per cento del gas di tutta Italia. Chi estrae? Eni e Shell nei 27 pozzi della Val d’Agri. Presto però si affiancheranno i 6 pozzi della francese Total, fra i Comuni di Gorgoglione e Corleto Perticara, all’interno del progetto Tempa Rossa. Anche in questo caso il confronto con la Puglia è impietoso. Perché se per i lucani si prevedono nuove royalties, a Taranto, sede di transito dell’oleodotto che porterà il petrolio di Tempa Rossa fino alla raffineria Eni ionica, non si parla proprio di compensazioni.
Sono queste ultime ad aver portato ricchezza in Basilicata. Secondo l’ultimo aggiornamento fatto il 7 gennaio scorso dall’Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e le georisorse, il gettito delle royalties per la Regione Basilicata è stato di 158 milioni di euro. Sei Comuni si sono poi spartiti circa 27 milioni di euro. Tra questi si distingue Viggiano, con 18 milioni di euro nel 2014.
Ma i soldi arrivati negli ultimi anni sono davvero tanti: tra 2001 e 2013, 1 miliardo e 158 milioni di euro di royalties sono finiti nelle casse della Regione e dei 12 Comuni che ricadono nell’area estrattiva. Le polemiche sull’utilizzo di questa montagna di denaro non mancano. C’è chi parla di vero e proprio spreco: nulla — dicono i detrattori — viene lasciato agli investimenti sul futuro, si pensa solo a coprire le emergenze. Lo ha fatto notare anche la Corte dei Conti in una relazione del 2014. Secondo i giudici, l’85 per cento di quel denaro se n’è andato in spesa corrente anziché in investimenti per sviluppo e lavoro. Quel che è certo è che i soldi del petrolio coprono molte esigenze: 30 milioni vanno alla sanità regionale, 20 al programma di forestazione, altri 10 alle università, un paio finanziano le borse di studio. Ora spuntano 40 milioni per coprire il reddito minimo garantito a 8mila famiglie in difficoltà economiche.
Per non parlare della carta idrocarburi, assegnata a ogni lucano possessore di patente, che dà diritto a un centinaio di euro all’anno da spendere in rifornimenti di benzina. «Ci sono state luci e ombre — commenta l’assessore all’ambiente della Regione Basilicata, Aldo Berlinguer, a proposito dell’uso delle royalties — ma il meccanismo di erogazione di quei fondi non ci ha aiutato. E poi, secondo lei, è normale che un lucano paghi benzina e gas quanto un cittadino residente in una regione dove non ci sono estrazioni?».

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VIRGINIA PICCOLILLO, CORRIERE DELLA SERA 11/1/2016 – 
Dalle isole Tremiti a Isola Capo Rizzuto. Da Santa Maria di Leuca a Pantelleria. Anche al largo di Venezia. Nei nostri mari, e nelle nostre campagne, c’è un grande aumento delle ricerche di petrolio. A leggere il documento del ministero dello Sviluppo Economico che il 31 dicembre ha assegnato le concessioni alle ricerche e allo sfruttamento, ci si trova di fronte a 90 permessi di ricerca per la terraferma e 24 per i fondali marini. Poi ci sono 143 concessioni per «coltivazioni» di idrocarburi già individuati a terra e 69 in mare. Ma non è soltanto la quantità del territorio quanto la qualità dei fondali e delle porzioni di territorio che faranno da teatro alle ricerche che genera allarmi e polemiche. «Per le ricerche di fronte alle isole Tremiti, uno dei gioielli ambientali più importanti d’Europa, ricche di biodiversità marina, è stato concesso un permesso alla Proceltic Italia srl per 5 euro e 16 centesimi al metro quadrato. Un totale di 1.928,292. Nemmeno duemila euro l’anno», denuncia il verde Angelo Bonelli, in prima linea contro quello che definisce «l’assalto delle lobby petrolifere». Sobbalza il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano: «Occorre spiegare perché a largo delle Tremiti. Trivellare il nostro mare è una vergogna e una follia». Amaro il commento del sindaco delle Tremiti, Antonio Fentini: «Se questo serve a risanare il bilancio dello Stato...». Le Regioni interessate avevano presentato sei referendum per fermare la prima fase di questa caccia al tesoro che coinvolge società a volte anche piccole che in caso di scoperta dei giacimenti si rivenderanno a caro prezzo i proventi dei contratti di concessione. È sopravvissuto soltanto quello contro le ricerche entro le 12 miglia dalla costa. Mercoledì la Consulta deciderà se è ammissibile. Nell’attesa, vale la pena dare uno sguardo alle zone interessate. Gli ambientalisti denunciano che il danno c’è ancora prima delle trivelle: la tecnica Airgun – con gli spari ad altissimi decibel – disturba la fauna marina. Il sistema di controlli ancora non è in funzione. Tra le zone marine interessate c’è il Canale di Sicilia. C’è un piccolo cerchio che lambisce marettimo e Favignana e tocca Levanzo, unica area vietata a ricerche e trivelle. Tutto intorno al resto della Sicilia si può. A Pantelleria la concessione G.R 15.PU autorizza le ricerche. Così come nella zona che sta davanti alle spiagge che vanno da Marina di Modica, a Portopalo di Capo Passero fin su a Marzamemi. E interessa anche l’arcipelago delle isole maltesi. Lì, avverte Greenpeace ci sono zone considerate la «nursery» di molte specie ittiche. «A volte però le società che chiedono la concessione, negavano. Abbiamo scoperto, di recente, un “trucco”. Presentavano mappe relative ad eree diverse. Tacendo quindi al ministero dello Sviluppo economico dell’esistenza di zone di riproduzioni ittiche. Dati che il ministero dell’Agricoltura, peraltro possiede», racconta Andrea Giannì di Greenpeace. «Scoperto il trucco però la griglia di valutazione non è stata cambiata. Servono controlli attenti». Le Tremiti fanno scalpore. Ma l’Adriatico è praticamente tutto interessato dalle ricerche o già dalle estrazioni. C’è un grande rettangolo dai bordi frastagliati che tocca Rimini, ma nel lato esterno arriva all’altezza di Ravenna, in giù si dirige verso Pesaro e Senigallia, poi si inarca per circondare Ancona e il Conero, e scende ancora, fino a Termoli. Ma nel Brindisino già sono autorizzate ricerche, così come nel Leccese. E la ricerca di oro nero arriva a Santa Maria di Leuca. Così come, in Calabria, a largo di isola Capo Rizzuto. O, in Sardegna, a Porto Torres. Si va da Abbadia Cerreto a Zappolino nell’elenco di novanta concessioni per le ricerche sulla terraferma. Tra i luoghi interessati, anche in questo caso sparsi in tutta Italia, da Faenza a Ragusa, ci sono molte località della Basilicata, ma anche della Lombardia (Vigevano, Codogno, Trigolo, Castel Verde) e poi di Abruzzo, e Toscana, Piemonte e Lazio, Marche e Veneto. Già in vigore 119 concessioni per lo sfruttamento. Soprattutto in Basilicata (ma anche Emilia Romagna, Puglia, Marche, Lombardia). Tra le concessioni delle ricerche in Sicilia nel documento del governo c’è Scicli, e fra le quelle allo sfruttamento di idrocarburi compare Noto.

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ETTORE LIVINI, LA REPUBBLICA 14/8/2012 –
Trivelle d’Italia, l’Italia s’è (ri) desta. Il soffio lento e gentile del gas che pulsa nelle condotte arancioni della piattaforma Garibaldi C, 13 miglia al largo di Ravenna e degli ombrelloni della riviera romagnola, rischia di trasformarsi presto in un uragano di metano. Dopo vent’anni di regressione petrolifera, nel Belpaese — complice una bolletta energetica decollata a quota 63 miliardi – è scoppiata la voglia d’idrocarburo fai-da-te. E il governo Monti è pronto a dare il via a una corsa autarchica all’oro nero che potrebbe regalarci – calcola il ministro allo Sviluppo economico Corrado Passera – «mezzo punto di Pil e 25mila posti di lavoro in più». L’assunto è semplice: madre natura ha nascosto nel sottosuolo della penisola un tesoro da almeno 100 miliardi di euro. Quasi 2,5 miliardi di barili di riserve potenziali di greggio (il nostro fabbisogno per quattro anni) intrappolato tra i calcari mesozoici di Basilicata, Calabria e Sicilia più 250 miliardi di metri cubi di gas dispersi tra Adriatico – un bel po’ proprio qui, nel fondale sabbioso su cui poggiano le otto gambe metalliche alte 77 metri della Garibaldi C – e Stretto di Messina.
SIAMO, potenzialmente, il quarto produttore europeo di idrocarburi. E se si riuscisse a mettere le mani sopra questa fortuna sotterranea (non un miraggio ma un progetto «attivabile in tempi rapidi», assicura Passera) l’Italia potrebbe ridurre dal 90% all’80% la sua dipendenza da petrolio e gas stranieri. Per la gioia di Assomineraria («raddoppiando la produzione si libererebbero 15 miliardi di investimenti », calcola Claudio Descalzi, presidente dell’associazione degli industriali del settore) e per la disperazione degli ambientalisti, già sul piede di guerra nel timore dell’assalto dei petrolieri a suolo e fondali tricolori e della “subsidenza” (alias il collasso) dei giacimenti svuotati sotto la superficie — insolitamente blu cobalto in questa stagione — dell’Adriatico.
Siamo, meglio sgombrare il campo da illusioni eccessive, al secondo tempo di una partita iniziata 67 anni fa e che ha già spremuto buona parte delle riserve disponibili nel sottosuolo tricolore. L’Italia, lo sanno tutti, non è il Kuwait e non galleggia su un mare di oro nero. Ma i giacimenti della dorsale appenninica e sotto i campi fertili della Pianura Padana sono da sempre un segreto di Pulcinella per i nasi fini dei cacciatori di greggio.
La Us Army — che di petrolio s’intende — aveva già fiutato l’affare nel ‘43. Quando gli anfibi a stelle e strisce hanno gettato i loro pontoni sulla spiaggia di Anzio, dietro marines e corpi speciali sono sbarcate — armate fino ai denti di esplosivi e sensori geologici — due squadre sismiche incaricate di andare a caccia di idrocarburi. Arrivati alla Pianura Padana e piazzati i loro marchingegni sui terreni di Cortemaggiore, due passi da Piacenza, hanno fatto Bingo: la terra trasudava metano. Quello che cercavano. E quando è terminato il conflitto, la Casa Bianca ha provato a imporre a Roma, tra le condizioni per la pace, la clausola “Po operation valley” una sorta di diritto perpetuo a traforare come
un groviera il Nord Italia. Il resto è storia. L’Eni di Enrico Mattei è riuscita a mettersi di traverso. E i 100 e passa pozzi petroliferi l’anno scavati nel Belpaese tra il 1949 e il 1964 hanno inaugurato l’era d’oro (nero) dell’energia
tricolore e del cane a sei zampe. L’Italia è arrivata negli anni del boom ad avere 7mila impianti attivi — oggi siamo sotto i mille — e a pompare dal suo sottosuolo quasi il 50% del gas di cui aveva bisogno per far marciare il
boom del dopoguerra.
Oggi tutto è cambiato. Il Texas padano ha quasi esaurito i suoi giacimenti. Il volume di idrocarburi “made in Italy” è sceso da 20 a 8 miliardi di metri cubi. Il boom del greggio della Val d’Agri, complici
le lungaggini di casa nostra (Total e Shell hanno avuto bisogno di 400 permessi prima di far partire i lavori a Templa Rossa, in Basilicata) ci ha regalato la miseria di pochi milioni di barili l’anno. E in pochi hanno voglia di imbarcarsi
in interminabili Odissee burocratiche per scavare sottoterra: nel 2010 sono state fatte solo 35 richieste per nuove perforazioni, il minimo dal 1949, di cui 34 per migliorare impianti già attivi e solo una per la ri-
cerca di nuovi giacimenti. E così la nostra sicurezza energetica è legata a filo doppio — ora più di ieri — agli sbalzi d’umore del Cremlino e alla stabilità geopolitica di Algeria, Libia e stretto di Hormuz. Il tentativo adesso è quello
di uscire da questo
cul de sac.
Le compagnie petrolifere stanno già affilando le armi. In Italia le tasse societarie sono altissime ma le royalty sull’estrazione sono molto più basse che all’estero. Sul tavolo della direzione generale per le risorse minerarie e geologiche ci sono 120 richieste di perforazione (39 in Emilia, 14 in Lombardia, 12 in Basilicata). E la speranza dei colossi dell’oro nero è che gli snellimenti burocratici previsti nel Salva-Italia aiutino a tagliare i tempi lunghi delle autorizzazioni, visto che qui da noi per spillare il primo barile dal sottosuolo servono — tra ok amministrativi e sviluppo di un nuovo campo petrolifero — ben 11 anni contro i 6 del resto del mondo. Pure gli ambientalisti hanno drizzato le antenne. Nel timore, per loro la certezza, che i costi ambientali di “trivella selvaggia” siano largamente superiori ai benefici.
In tempi di crisi però, pecunia
non olet, anche se ha l’odore acre del greggio e degli idrocarburi: «Serve un patto per lo sviluppo tra tutte le parti in causa. Se riusciremo a superare le barriere strutturali e temporali di burocrazia e amministrazione possiamo raddoppiare la nostra produzione nazionale», garantisce Descalzi. Risultato: 600 milioni di euro in più l’anno per il fisco nazionale e 250 milioni di royalties per le casse di Regioni e Comuni. Carburante buono per dribblare la crisi dei debiti sovrani e per salvare dalla prossima estinzione il gigantesco Meccano d’acciaio della Garibaldi C e la ragnatela di tubi sottomarini che da trent’anni — pompando gas tricolore dai fondali dell’Adriatico fino alla centrale di Casal Borsetti — garantisce un pieno d’energia autarchica all’Italia
spa.