Il Post 31/3/2016, 31 marzo 2016
Il romanzo italiano più lungo di sempre, quasi Che cosa dice Edoardo Albinati delle eccezionali dimensioni di "La scuola cattolica", e di come è stato scrivere e costruire un libro così In una classifica improvvisata – quindi aperta a ogni contributo e suggerimento – dei libri italiani noti più lunghi e pesanti (in senso letterale) di sempre, La scuola cattolica di Edoardo Albinati è terzo, ma primo nella categoria romanzi e in quella dei libri usciti in volume unico
Il romanzo italiano più lungo di sempre, quasi Che cosa dice Edoardo Albinati delle eccezionali dimensioni di "La scuola cattolica", e di come è stato scrivere e costruire un libro così In una classifica improvvisata – quindi aperta a ogni contributo e suggerimento – dei libri italiani noti più lunghi e pesanti (in senso letterale) di sempre, La scuola cattolica di Edoardo Albinati è terzo, ma primo nella categoria romanzi e in quella dei libri usciti in volume unico. Giacomo Casanova, Storia della mia vita, Mondadori, 1964, 7 volumi, 5591 pagine Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, Oscar Mondadori, 4615 pagine, 2 Kg Edoardo Albinati, La scuola cattolica, Rizzoli, 1294 pagine, 1,3 kg Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, Rizzoli, 1125 pagine 907 g Antonio Moresco, Canti del caos, Oscar Mondadori, 1074 pagine, 699 g Ippolito Nievo, Le confessioni d’un italiano, Marsilio, 1022 pagine, 662 g Antonio Moresco, Gli increati, Scrittori Mondadori, 1013 pagine, 1,3 Kg Oriana Fallaci, Insciallah, Rizzoli, 865 pagine, 939 g Prima che per la sua importanza letteraria – mercoledì Rizzoli lo ha candidato al premio Strega – quindi, il nuovo romanzo di Albinati va descritto come un oggetto fisico, cercando di capire se il suo contenuto abbia qualcosa a che fare con la sua eccezionale lunghezza: 1294 pagine di carta bianchissima appena tendenti al crema – Pamo Super da 50 grammi – che scivolano sottili sotto i polpastrelli dando una sensazione simile a quella che si prova sfogliando un messale o una bibbia. In copertina un cielo color vergine Maria sovrasta un condominio giallo canarino dalle parti di Piazza Tuscolo a Roma, ma sotto la sopraccoperta il libro appare bianco come il vestito del papa. Il protagonista del romanzo – parzialmente autobiografico e scritto in prima persona – è l’Istituto San Leone Magno di via Nomentana a Roma, una scuola maschile gestita dai preti e frequentata da una certa borghesia e piccola borghesia romana cattolica, molto attenta – la scuola – anzi quasi ossessionata, dal decoro. Al San Leone Magno, negli anni Cinquanta, aveva studiato Sergio Mattarella. A metà degli anni Settanta, della scuola si parlò molto perché tra gli allievi c’erano stati Gianni Guido e Angelo Izzo, due dei giovani – l’altro, Andrea Ghira, frequentava il Liceo Giulio Cesare, dove Albinati concluse l’ultimo anno – che a fine settembre 1975 seviziarono due ragazze di 19 e 17 anni, Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, uccidendo la prima. Il “massacro del Circeo” è il centro del libro, il tema intorno a cui tutto ruota e allude, anche se occupa solo una piccola parte del romanzo. La scuola cattolica procede di digressione in dilazione, descrive le ore di ginnastica, i corpi dei ragazzi e gli scherzi tra i compagni, le lezioni e i professori, il rapporto intensissimo tra i maschi adolescenti e il pensiero del sesso, e quello con la religione e con l’impostazione della scuola: apre continue parentesi, sottolineandole e rimandando più avanti la trattazione di questo o quell’altro argomento, come se il tema e l’intento del libro – ricostruire un ambiente preciso in un periodo preciso, capire il rapporto tra violenza e apparenza – abbiano imposto un approccio laterale e circolare (qui c’è un estratto della parte iniziale del libro). Anche per questo, le dimensioni fisiche del libro generano un sacco di domande. La scuola cattolica avrebbe potuto essere più corto? Ha ancora senso un libro così lungo con tutti i classici ancora da leggere in attesa di attenzione, e in tempi di accorciamento delle durate di lettura? Qualcuno ha ancora il tempo e la concentrazione per tante digressioni? Si sarebbe potuto tagliare di più in fase di editing? L’editore poteva decidere di pubblicarlo in due parti? Come si lavora da un punto di vista editoriale con così tante pagine? C’è bisogno di un solo editor? Quanti correttori di bozze ci vogliono? La rilegatura ordinaria è abbastanza forte? Decidere di scrivere un libro così lungo cambia il modo di scrivere? È stato scritto dall’inizio alla fine, o montato successivamente? Per leggere un testo così lungo è più adatto un’eReader o la carta? Lo abbiamo chiesto ad Albinati stesso. Il libro di carta «Il formato è uno dei temi del libro. È la prima cosa di cui parlano tutti. Al momento le battute più comuni sono, nell’ordine: – Viene fornito con un leggìo? – Il drone di Amazon riesce a trasportarlo? – Rimborsate l’ortopedico se mi cade sul piede? Sapevo dall’inizio che sarebbe stato lungo, ma lo immaginavo sulle 500-600 pagine, non certo di queste dimensioni. Non mi sono reso conto di quanto lungo sarebbe diventato fino alla fine, perché lavoravo su file separati, quindi non avevo nessuna consapevolezza di quanto stavo scrivendo. Ma avevo chiaro in testa che volevo scrivere un libro, non una serie di libri. Alla fine ho scritto circa il doppio di quanto poi è stato stampato, e in bozze abbiamo poi tagliato altre 150 pagine». Il libro elettronico «Con l’eBook la questione del formato perde importanza. Nel libro elettronico ci sono parti che nell’edizione di carta sono state tagliate. Per esempio nell’eBook la trascrizione del quaderno del professore di italiano Cosmo della Nona parte è integrale, mentre su carta c’è solo una selezione. Mi capita di consigliare l’eBook anche perché è più è più leggero e costa meno, anche oggi alla guardia carceraria (Albinati da oltre vent’anni insegna in carcere, ndr) che si congratulava con me perché mi aveva visto in tv assieme ad Alba Parietti e che voleva comprarlo per iniziare a leggerlo a Pasqua. Però vedo anche che molti sono infastiditi dal non vedere i numeri di pagina e non sapere bene a che punto del libro si trovano. Non è per snobismo, né per nostalgia verso la carta, ma alla fine anche a me pare che il libro di carta sia ancora il formato più adatto per un libro come questo». La fase della scrittura «Il lavoro è incominciato nel 2006 ed è finito nel 2015, quindi ci ho messo nove anni. È un romanzo che ha avuto uno sviluppo lungo e diseguale, sia nell’impegno che nelle varie fasi del progetto. Verso il 2010 ho avuto una crisi esistenziale molto forte dovuta a guai personali. È durata due anni durante i quali ho smesso di scrivere. Per ironia della sorte sarebbero stati gli anni in cui avevo più tempo, invece li ho persi. In quel periodo ho pensato che sarebbe rimasto incompiuto. A parte l’inizio e la fine, che sono più o meno rimasti identici, la scansione interna è cambiata decine di volte. Parecchie parti sono cadute. Scrivevo solo il giovedì, venerdì, sabato e domenica, perché un certo calo di energia dovuto all’età faceva sì che dopo essere stato in galera dove insegno da vent’anni ero troppo stanco. Per la prima volta in vita mia ho fatto tutto da solo. Non ho fatto leggere niente a nessuno, tranne il mio agente. Neanche a Francesca D’Aloja, la mia donna, che mi vedeva lavorare e lavorare senza leggere mai niente. Quello che ho avuto chiaro fin da subito è che il tema permetteva e, anzi, richiedeva sviluppi in direzioni molteplici, e ho voluto assecondarli invece che reprimerli, andando avanti a scrivere in attesa di un montaggio che avrei fatto solo alla fine e che è stato di gran lunga la cosa più complicata del libro». La fase del montaggio, appunto «Dopo aver finito di scrivere, mi sono costruito uno storyboard come quelli che si adoperano nel montaggio del cinema: non ne avevo mai visto uno, mi ha aiutato un amico regista, Matteo Garrone, che è venuto a casa mia a insegnarmi come fare. (Albinati è tra gli sceneggiatori di Il racconto dei racconti, l’ultimo film di Matteo Garrone, ndr). Ce l’ho ancora montato nel mio studio, è una specie di cartellone grande come tutta la parete su cui sono incollate delle tasche in plastica trasparente in cui infilare i cartoncini con le varie scene per poi spostarli fino a che non ti sembra di avere trovato il montaggio giusto. È stato un lavoro sfiancante. Una volta che l’ho finito ho scoperto di non avere più nessuna forza. Mi sono spremuto troppo. Adesso non posso immaginare di scrivere niente di nuovo». Il lavoro con l’editore «Rizzoli è stato fondamentale, perché ha saputo usare il pungolo e l’affetto, aspettandomi, ma facendomi anche sentire che avevano voglia di vedere il libro e pubblicarlo. Volevo consegnare un testo definitivo, o almeno che non richiedesse grandi interventi, ma non ci sono riuscito. Alla fine è stato un lavoro in progress che ha richiesto più redattori, più correttori di bozze, più editor. Nessuno a cominciare da me era in grado di maneggiare da solo tutto il testo. Quando ci siamo resi conto della mole, eravamo anche preoccupati che l’oggetto tenesse da un punto di vista tecnico: che la rilegatura fosse abbastanza forte, che il corpo tipografico non fosse troppo piccolo e che la carta fosse abbastanza sottile perché il libro si potesse tenere in mano, ma resistente, che si potesse sfogliare. Abbiamo valutato l’idea di farlo in due volumi, anche perché da un punto di vista economico sarebbe stato più conveniente per l’editore (il libro costa 22 euro, poco più dei 18-20 che sono la norma dei nuovi romanzi di 300-400 pagine, ndr), ma ci siamo accorti che non era divisibile, non c’era un punto dove smezzarlo. Abbiamo anche pensato di ridurlo, ma anche tagliando sarebbe rimasto molto lungo. Gli editor che prima mi convincevano a tagliare, poi ci ripensavano e mi dicevano di reinserire le parti tagliate. È un libro che è nato con una sproporzione non sanabile. E io non ero disposto a tagliare ancora. Ho seguito un criterio letterario, non editoriale». La consegna «A Rizzoli avevo dato circa 400 pagine, giusto per dimostrargli che non stavo scrivendo solo “Il mattino ha l’oro in bocca” come Jack Nicholoson in Shining. Però mi chiedevano una data di consegna. Ho lavorato furiosamente fino al settembre 2015 per consegnare una bozza il più possibile conclusa, altrimenti avrei dovuto lavorare di nuovo sulla bozza, e nessuno sapeva come lavorare sulle bozze di un libro così lungo. Il momento in cui ho inviato il manoscritto, però, è stato segnato da una coincidenza cabalistica abbastanza incredibile. A fine settembre 2015 ero sfinito e loro insistevano. Così l’ho mandato, anche se il libro non aveva raggiunto lo stato che avevo sperato. La sera ho detto a Francesca che lo avevo mandato finalmente. E lei mi dice: “Ma lo sai che giorno è oggi?”. “Il 29 settembre”, ho risposto. Pensavo parlasse della canzone Lucio Battisti. Poi ho capito: era il quarantesimo anniversario della strage del Circeo, che è l’evento da cui il libro è partito e intorno a cui il libro gira». I fatti del Circeo «Il Circeo occupa un decimo del libro, però forse lo occupa tutto, non so, si scioglie nelle storie degli altri, in quell’ambiente preciso. Il libro è nato nell’aprile 2005 quando venne fuori che Angelo Izzo aveva ucciso e torturato un’altra donna e la figlia di 14 anni. Per me è stata una chiamata. Mi sono detto che quella storia che avevo sepolto riemergeva dalle nebbie, che doveva essere scritta e che dovevo farlo io. Ero compagno di classe del fratello di Izzo, e conoscevo gli altri, o le loro famiglie. Sentivo di dovere raccontare quella scuola, quell’ambiente, quel particolare modo di essere ragazzo che per me rappresentava l’ultimo sprazzo di una società tradizionale che stava scomparendo. Sono andato a vedermi i film e i giornali porno di quel periodo, quei colori, e quelle immagini sgranate. Ho incominciato a documentarmi, ma non ho fatto un lavoro investigativo, semmai archivistico e storico. Nel libro ci sono dei documenti di allora, per esempio le intercettazioni tra la mamma e la zia di Ghira, un altro degli autori del massacro, che per uno scrittore sono oro, un materiale preziosissimo perché rappresentano la verità dal basso. Quando si parla degli anni Settanta si pensa sempre alla violenza politica, ma ci si dimentica che c’era anche un estremismo fortissimo del costume, una furia sperimentale che distruggeva un’epoca che peraltro era ancora molto attaccata alla tradizione. Erano due faglie epocali che si scontravano». Autobiografia o invenzione «Volevo mostrare e capire come sotto la superficie del decoro stiano crimini e miserie. Volevo tirare i fili di quell’ambiente preciso in quel momento preciso: il quartiere Trieste a Roma nella prima metà degli anni Settanta, un quartiere della piccola borghesia cattolica. Volevo mostrare come il risentimento borghese, cioè della classe razionale per antonomasia, potesse accendersi in fiammate selvagge. Volevo mostrare lo sbalordimento di fronte a quell’infiammarsi. Ma il mio bisogno era liberarmene, non ricordarlo. Mi ha aiutato molto la libertà di violare la memoria. Se avessi scritto le mie memorie sarebbe stato più duro. Tra la mia vita e il romanzo che ho scritto c’è uno scarto che è decisivo. Io non so se sono quello lì che racconta in prima persona, anche perché il protagonista è determinato anche dal suo coprotagonista, Arbus: se lui era così, allora “io”, io del libro, dovevo essere cosà. In realtà loro due sono un unico personaggio. So che avere finito questo libro per me ha il significato di chiudere con una parte della mia vita, il posto, e il tempo da dove vengo. Con il mio ambiente. So che io non ci tornerò mai più da un punto di vista letterario. Con questo libro ho chiuso con i preti, con Izzo e con il quartiere Trieste. È l’ultima volta che dico “io”, cioè Edoardo Albinati, in un mio libro. Un’amica mi ha detto che in questo libro ho messo tutto a nudo. È stato un gran complimento, perché la mia intenzione era proprio questa». Aggiornamento: il romanzo di Enzo Bettiza I fantasmi di Mosca è lungo 2006 pagine. La scuola cattolica, Rizzoli 2016 il cattolicesimo certe volte pare l’antesignano e poi l’epigono del surrealismo. Prende una cosa qualsiasi e poi dice che quella cosa è l’esatto contrario di ciò che quella cosa con tutta evidenza è. Vai a un funerale, sei giù perché ti è morto qualcuno, almeno su questo sembrerebbe che non ci siano dubbi, vorresti che ti si lasciasse piangere in pace, e invece c’è sempre sul pulpito, dico sempre, come una maledizione!, c’è regolarmente un prete che ti assicura che il tuo amico o il tuo caro parente, per cui ti stai rattristando, non è morto. No, non è morto. Enzo non è morto. Silvana non è morta. Cesare non è morto. Rocco è ancora vivo. Ma come, non era morto?! E allora cosa stiamo qui a fare? No, lui non è morto, lui vive, e voialtri non dovete essere tristi, ma esultare con lui… per lui… di lui… godere insieme a lui… Certo, ora lui è in paradiso dunque sta meglio di prima, ci arrivo pure io, non sono così rozzo: ciononostante mi sento preso per il culo da questa filosofia. Scatena in me una rabbia infinita, devo uscire dalla chiesa, sono anni che non riesco a terminare una funzione, preferisco aspettare la bara fuori quando la portano a spalla, un paio di parenti e amici paonazzi e gli addetti delle pompe funebri, con i bicipiti che sformano la giacca. È troppo sublime e insieme troppo facile. Basta rovesciare l’evidenza e tac, ottieni la soluzione. Se sei povero in realtà sei ricco; le malattie sono doni di Dio; quando muore qualcuno è una benedizione perché lui ora gioisce con gli angeli, i primi saranno gli ultimi, il bestemmiatore senza saperlo loda il Signore, se ti allontani da Dio vuol dire che lo stai cercando, se Dio non c’è allora vuol dire che di sicuro c’è… Possibile che in questa vita non ci sia una sola cosa già messa fin dall’inizio per dritto, che non occorra per forza rovesciare? In mezzo a tutte le virtù, diciamo così, attive, che spingono a essere più e meglio di quello che siamo, quelle invece basate sulla rinuncia restano enigmatiche. Dal rispetto che ispira il sacrificio di sé alla ripugnanza e poi alla ridicolizzazione il passo è breve. L’eventuale vita di un santo, del tipo di quelle narrate nelle agiografie, con la consueta sfilza di mortificazioni e piaghe, se si replicasse oggi sarebbe oggetto del disgusto e della riprovazione generale. Ma un briciolo almeno di santità il prete dovrebbe portarlo con sé, in un angolo del suo cuore, o della sua mente, o del suo abito, altrimenti cos’ha di diverso da noialtri? Se non ce l’ha per niente è un bluff, e se invece ce l’ha, siamo così disabituati al sacro che ci spaventa o ci annoia. Il sacro è appunto la diversità. Sono sacri quelli che hanno quarant’anni meno di noi e devono ancora avere il primo rapporto sessuale o devono ancora sposarsi, sono sacri quelli che hanno la pelle di un altro colore o vanno a piedi scalzi, se siamo maschi sono sacre le femmine, se siamo femmine i maschi, è sacro chi porta un fez, un turbante, una bombetta, un cappello da bersagliere, persino il cilindro preso a nolo per un matrimonio conferisce per una serata al capo di chi lo calza l’aura di un paramento sacro. È sacro l’impronunciabile cognome di una donna a ore cingalese. Era sacro per me ieri notte traversare silenziosamente in barca gli stretti canali di Castello, a Venezia. E sono queste briciole di sacro, queste particole di sacro, a infastidire e a scatenare risentimento. E tu saresti uno che parla ogni giorno con Dio? verrebbe da dire al prete. Mostramelo, allora, questo tuo Dio, tiralo fuori adesso, fammi un miracolo qui, su due piedi. Mi accorgo di usare spesso, mentalmente, lo stesso linguaggio degli interrogatori a cui venivano sottoposti i primi cristiani, che subì Cristo stesso, prima di essere messo in croce. Hic Rhodus, hic salta. Da ogni credo religioso si pretende, non del tutto a torto, che si renda immediatamente salvifico: invece tutti promettono cose lontanissime, premi che verranno tardi, troppo tardi, alla fine dei tempi, per cui nel frattempo si finisce per accontentarsi degli aspetti minori e propiziatori, semi-magici, un po’ di consolazione dalle durezze che tocca sopportare qui e ora, qualche piccolo o grande miracolo, la carezza fredda alla statua di un santo che ti ha protetto durante un incidente, air-bag gonfiato di preghiere. Un giorno che mi trovavo a Padova uscii la mattina presto dall’albergo e, svoltato l’angolo, mi accorsi di essere a cento metri dalla basilica del Santo (la notte prima arrivando mezzo ubriaco in taxi non l’avevo vista), vi entrai, mi diressi verso l’urna che contiene le sue spoglie e debbo dire che man mano che mi avvicinavo sentivo crescere un’emozione forte e inspiegabile. Non che l’onda di questo nuovo sentimento cancellasse lo scetticismo precedente, dato che io non sono nemmeno scettico, miscredente o ateo, non sono nemmeno quello, non sono niente; le convinzioni personali vi avevano poco a che fare: forse era solo la corrente, l’anello magnetico formato dai voti che intorno a quella pietra circolavano da secoli. Quando fui abbastanza vicino al sepolcro da poterlo toccare con la mano, e lo feci, carezzandone una parete, mi accorsi che i tasselli multicolori che lo rivestivano vistosamente non erano intarsi di marmo, ma fotografie incollate col nastro adesivo, decine di fotografie, ed erano tutte di carcasse di automobili schiacciate o sventrate o bruciate, del genere che si fa dopo gli incidenti per ottenere il rimborso dall’assicurazione. Anche se a giudicare dalla gravità dei sinistri nessuna delle vetture sarebbe mai stata riparata: ce n’erano alcune il cui muso era completamente rientrato nell’abitacolo in seguito a uno scontro frontale, altre con il tetto ribassato fino all’altezza delle spalliere dei sedili, che lasciavano poco margine all’immaginazione di cosa ne fosse stato degli occupanti. E invece, sorpresa, accanto alle foto della polizia stradale, ce n’erano altre più piccole e recenti, qualche volta delle polaroid, raffiguranti un uomo o una donna sorridenti, e un biglietto di ringraziamento al Santo per averli salvati. Lo seppi decifrando alcuni di questi messaggi scritti in inglese o spagnolo con la calligrafia infantilmente chiara e tondeggiante che hanno, per esempio, i filippini, e in effetti quasi tutte le foto votive appartenevano a immigrati, orientali o ispanici, come se gli incidenti automobilistici accadessero solo a loro oppure solo loro, oramai, in un paese poco riconoscente, si sentissero in dovere di ringraziare qualcuno lassù per averla scampata. Mi spiacque di non avere con me le foto dell’Honda 125 su cui mia figlia Adelaide poche settimane prima era andata a sbattere contro una macchina correndo la mattina a scuola, e la relativa foto di lei sorridente e illesa. Mi spiacque ma pensai di rimediare dicendo una preghiera, “Ti ringrazio… ti ringrazio… di averla salvata”, ma non sapevo a chi indirizzare esattamente quel grazie, chi fosse il tu a cui rivolgersi. Dio è lontano, il Santo troppo occupato, e semmai ascolterà chi crede veramente in lui. Mi mantenni così nel vago, come nelle poesie in cui si è sicuri che il poeta si rivolge a una donna amata, ma non si sa a quale. Edoardo Albinati