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 2016  aprile 01 Venerdì calendario

QUINDICI ANNI COL TERRORE ADDOSSO

Abderrahmane Ameroud, chi è costui? Nella confusione generata dai troppi nomi arabi che entrano nella nostra cronaca, sarebbe bene ricordarsi di lui. Personaggio minore, certo, rispetto ai campioni del terrorismo. Ma l’unico che ci ricorda, almeno sinora, che esiste un filo rosso a tenere legata una storia vecchia di 15 anni, iniziata l’11 settembre 2001 a New York, quando il mondo cambiò. E noi con lui.
Ameroud aveva infatti reclutato, per conto di al Qaeda, i due finti reporter tunisini che il 9 settembre 2001 uccisero con una bomba nascosta nella telecamera il comandante Ahmad Shah Massoud, il "leone del Panshir", unico serio ostacolo sulla strada dello sceicco Osama bin Laden per il controllo dell’Afghanistan. Ebbene Ameroud (23 anni allora, 38 oggi) è ricomparso lo scorso venerdì 25 marzo nelle strade di Schaerbeek, quartiere di Bruxelles gemello di Molenbeek (la culla degli attentatori in Francia e Belgio), mano nella mano con la figlia alla fermata del tram. È l’uomo che - lo avrete visto - viene ferito dalle forze speciali prima di essere arrestato perché in contatto con un jihadista catturato ad Argenteuil, Francia, ora supposto seguace dello Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi. Belgio-Afghanistan-Stati Uniti-Francia-Belgio. Al Qaeda-Stato islamico.
Tout se tient, tutto si tiene nella galassia fondamentalista talvolta in competizione, talvolta in collaborazione. Comunque nel segno di una continuità nemmeno troppo difficile da decrittare se, con tattiche diverse, persegue un’unica strategia: far nascere il "Califfato universale" dove tutti i musulmani possano vivere nell’osservanza della Sharia.

LE TORRI GEMELLE
Eliminato Massoud, due giorni dopo è l’11 settembre: sono le Torri Gemelle che crollano, sono i 2.996 morti dell’attacco all’America, dunque all’Occidente. Bilancio spaventoso e nemmeno preventivato nelle proporzioni dagli organizzatori, almeno stando a un video ritrovato in un covo dove bin Laden commenta con alcuni seguaci l’acme della sua ascesa. Il presidente George W. Bush, eletto meno di un anno prima con un programma che allude a un neo-isolazionismo della superpotenza, è costretto dagli eventi a farsi "Marte" in opposizione a un’Europa "Venere" e riluttante a ingaggiare guerre, per parafrasare il credo dei suoi consiglieri neo-conservatori che lo spingono a "esportare la democrazia" laddove ci sono dittature ostili. Attacca l’Afghanistan (7 ottobre dello stesso anno) dopo il rifiuto del regime talebano di consegnargli bin Laden. Appoggiato da una corposa coalizione che ben presto espugna Kabul, senza tuttavia catturare la preda più ambita. Lo sceicco resiste nella ridotta di Tora Bora per poi svanire nelle aree tribali del confinante Pakistan, protetto da una popolazione come minimo fiancheggiatrice. Coalizione che si assottiglia un anno e mezzo più tardi quando Washington decide di ripetere lo schema (marzo 2003) con l’Iraq di Saddam Hussein. Bush vuole completare l’opera lasciata a metà dal padre nel 1991 all’epoca della prima guerra del Golfo, quando vinse ma non rovesciò il tiranno. Il pretesto sono non meglio identificate armi di distruzione di massa di cui Baghdad sarebbe in possesso (non saranno mai trovate). La sciagurata spedizione, felice solo all’inizio e solo sul piano militare, spalanca il vaso di Pandora invero già aperto, del terrorismo globale. Anche in seguito all’improvvida decisione del governatore nominato dell’Iraq, Lewis Paul Bremer, di sciogliere l’esercito di Saddam (preso, velocemente processato e ammazzato): 300 mila persone in armi e dalla mattina alla sera senza un lavoro. Quasi tutti sunniti e con l’incubo della rivincita degli sciiti, in maggioranza e destinati a prendere il potere, come succederà, per il principio democratico "una testa un voto" in una terra dove si sceglie per appartenenza etnica e non per ideologia. Non per caso le province sunnite, Al Anbar al confine con la Siria su tutte, sono protagoniste della resistenza all’invasore. Vaste aree sono fuori dal controllo centrale, basi perfette dove organizzare la guerriglia e progettare attentati.
Tra al Qaeda e stato islamico
Abbiamo lasciato bin Laden in qualche remoto rifugio a leccarsi le ferite per la perdita di uno Stato, l’Afghanistan, braccato dagli americani e con la necessità, dopo i rovesci, di riaffermare la centralità di al Qaeda. A suon di bombe. L’11 marzo 2004 di Madrid, stazione di Atocha, 191 morti, è la perdita dell’innocenza dell’Europa, fino ad allora convinta di vivere in una sorta di pace perpetua kantiana. La strage è la punizione per il governo di destra di José Maria Aznar, colpevole di aver seguito gli Usa nelle avventure belliche, e determina la sua sconfitta nelle elezioni successive a favore del socialista José Luis Zapatero. Così come un anno dopo, 7 luglio 2005, le 56 vittime nel metro e negli autobus di Londra sono il fio che Tony Blair paga per essere stato il più fedele alleato di Bush.
A dispetto di quella che sembra "geometrica potenza" lo sceicco del terrore è in oggettiva difficoltà. Comunica coi suoi luogotenenti solo con "pizzini" come fosse un qualunque padrino mafioso. Proliferano, è vero, varie filiazioni di al Qaeda in Iraq, nella Penisola arabica, nel Maghreb eccetera, ma con legami sempre meno stretti con la casa madre che sfociano persino in ribellioni impronosticabili sino a pochi anni prima. La sua idea che spargendo il terrore nel campo del nemico produrrà alla lunga (comunque molto oltre le sue aspettative di vita terrena) il consenso necessario per l’edificazione del califfato, viene apertamente contestata dalle nuove leve del fondamentalismo, assai più pragmatiche. E niente affatto convinte che l’obiettivo primario sia sconfiggere i lontani Stati Uniti o l’Europa. Anche perché la "rinascita sciita" dei primi dieci anni del millennio, obbliga i sunniti a un sanguinoso confronto interconfessionale.
Nel martoriato Iraq, e perciò zona fertile per qualunque esperimento di un nuovo corso jihadista, cresce la stella di Abu Musab al-Zarqawi, un giordano che si intesta la filiale irachena di al-Qaeda ma coltiva le ambizioni del leader. Inaugura la stagione delle decapitazioni e della caccia indiscriminata agli sciiti. La sua stella nel firmamento estremista cessa di brillare il 7 giugno del 2006 quando non sopravvive a un bombardamento americano. Ha avuto il tempo, tuttavia, di gettare le basi per una nuova strategia e i semi dell’incubo dei giorni nostri: lo Stato islamico. Non più un califfato di là da venire e da far sorgere contemporaneamente dal Marocco all’Indonesia lungo tutta la dorsale musulmana, ma uno concreto, seppur più piccolo, da espandere a poco a poco. L’eredità di al-Zarqawi viene raccolta da Abu Ayub al-Masri che, nell’ottobre 2006 annuncia il cambio del nome del movimento in "Stato islamico in Iraq" e designa come leader Abu Omar al-Baghdadi. Mentre il mondo occidentale continua a dare la caccia a bin Laden, la nuova sigla lavora quasi al coperto. Vengono assoldati alla causa ex ufficiali dell’esercito di Saddam, nelle carceri americane tra il Tigri e l’Eufrate, in particolare a camp Bucca, si forma una nuova classe dirigente che ha come punto di riferimento l’imam Abu Bakr al Baghdadi, issato al comando nel 2010 dopo la morte sia di al-Masri che del suo quasi omonimo Abu Omar al-Baghdadi.

Primavere arabe
Le circostanze esterne sono indispensabili nei destini degli umani. E il futuro califfo ha la fortuna, poco dopo la nomina, di assistere a eventi epocali che agevolano il suo disegno. Le primavere arabe (inizio 2011) nascono nella speranza di un processo liberale in Paesi che non hanno mai conosciuto la democrazia: ben presto però prevalgono le formazioni islamiche che eleggono la Sharia a legge fondante. Con la (parziale) eccezione della Tunisia, nel Nord Africa e in Medio Oriente scoppia il caos. Con punte di anarchia assoluta nella Libia del dopo-Gheddafi, un altro despota rimosso e trucidato, e nella Siria di Bashar Assad, che resiste grazie all’aiuto di Mosca e alle divisioni nel fronte che lo combatte. Ma il 2011 è anche l’anno in cui finalmente gli americani scovano e eliminano bin Laden nel suo nascondiglio di Abbottabad (Pakistan) poco distante da una caserma dell’esercito di quel Paese in bilico tra alleanza con l’Occidente e tentazioni estremiste.
La morte dello sceicco fa esplodere la rivalità tra le due sigle del terrore. Il suo successore, il pediatra egiziano Ayman al-Zawahiri, non ha né la forza né il carisma per opporsi alla crescita veemente di quello che diventerà lo Stato islamico. Nel mondo la frattura produce una corsa all’attentato più reboante per decidere chi ha la faccia più truce. Si insanguinano le strade dell’Africa come dell’Asia. La campagna acquisti è più proficua per al-Baghdadi che vede assoggettarsi al suo comando varie sigle in Libia, soprattutto Boko Haram in Nigeria. Gli Shabaab somali oscillano e comunque si distinguono per ferocia (come all’università di Garissa, Kenya, 150 morti il 2 aprile 2015). Ma è soprattutto nell’area siro-irachena che si gioca la partita decisiva. Al-Baghdadi vuole che si sottometta ai suoi ordini anche il Fronte al Nursa, filiazione di al Qaeda. La risposta di al-Zawahiri è un no. Nella "madre di tutte le battaglie" la posta in gioco è la cancellazione dei confini del Medio Oriente tracciati un secolo fa dai diplomatici inglese e francese, Sykes e Picot. Al Baghdadi abbatte quelle frontiere anche fisicamente e il 29 giugno del 2014 proclama la nascita dello Stato islamico a cavallo tra Siria e Iraq, con due "capitali" di riferimento, Raqqa e Mosul. In quell’area, l’autoproclamato califfo impone le tasse, organizza il welfare e una larva di Stato per i musulmani che contempla il genocidio degli yazidi, la persecuzione dei cristiani, la decapitazione degli occidentali.

foreign fighters
L’effetto immediato è l’arrivo nello Stato islamico di migliaia di foreign fighters, attratti dal sogno di essere protagonisti nel "paradiso in terra dei musulmani". Vengono dalla Russia (Cecenia), dalla Francia, dal Belgio, dalla Gran Bretagna, dalla Tunisia... Alcune decine anche dall’Italia. Hanno accumulato un odio profondo verso i Paesi di provenienza dove si sentono cittadini di serie B. Un odio che viene incanalato dai capi verso azioni suicide. Dopo aver a lungo sottovalutato il pericolo, l’Occidente e alcuni partner arabi creano una coalizione anti-Is per contenerne l’espansione. Soprattutto dopo Charlie Hebdo (Parigi, 7-9 gennaio 2015, colpiti la sede del giornale satirico e un supermercato ebraico, firme in coabitazione Is-al Qaeda, sarà l’ultima volta per ora), l’offensiva erode i possedimenti del sedicente califfo. Che decide di bilanciare con l’attacco al cuore dell’Europa. A Parigi, il 13 novembre scorso, tra stadio e ristoranti, restano per terra 130 cadaveri. Sono figli di Francia e del Belgio gli autori. L’unico sopravvissuto è Salah Abdeslam. Si scatena una caccia all’uomo tra clamorosi errori dell’intelligence e coperture del suo clan a Molenbeek dove è cresciuto e dove termina la sua latitanza lo scorso 18 marzo.
Quattro giorni dopo, alcuni jihadisti della sua stessa cellula seminano la morte all’aeroporto e nella metropolitana della capitale dell’Unione europea (35 le vittime). Cinque giorni dopo è Pasqua per i cattolici: un kamikaze ammazza in un parco giochi di Lahore (Pakistan) 70 persone tra cui una trentina di bambini. Quasi a ricordarci che, mentre piangiamo i nostri morti, non dobbiamo dimenticare che il terrorismo miete assai più vittime altrove, in particolare in terre di Islam.
Questa storia non ha una conclusione, se non parziale. Nel tirare le somme del breve viaggio nel passato recente, si può solo notare che dopo l’11 settembre 2001, e a dispetto delle "guerre al terrorismo", lo stesso terrorismo ha causato circa 150 mila morti in tutto il mondo. Il numero degli attentati è decuplicato. Lo Stato islamico controlla una fetta di costa della Libia, sul braccio di mare prospiciente l’Italia. Nella sua culla mediorientale si rimpicciolisce mentre si annuncia per questa primavera il grande attacco per scacciare i suoi miliziani da Mosul, la piazza simbolo dell’espansione, che sarà difesa a costo di ingenti perdite. Il timore è che, anche se l’Is ne uscirà sconfitto, le schegge di una diaspora dei foreign fighters si spargeranno per ogni dove. Pure nell’Europa dove anche la pace kantiana fa parte del mondo "ex".