Vittorio Zucconi, D, la Repubblica 26/3/2016, 26 marzo 2016
IN TAVOLA È TUTTO MADE IN ITALY. TRANNE LA PRONUNCIA
Di ritorno a Washington dal suo primo viaggio in Italia, a cena con i futuri suoceri e con il fidanzato italiano con l’aiuto del quale mi avrebbe regalato tre nipotini, mia nuora Lauren compulsò il menu del ristorante e ordinò per antipasto una bruschetta. «Miss», la corresse con aria paternalistica il cameriere, «guardi che si dice “bruscetta”». «Eh no, ecchccavolo!» ribattè subito lei, ma la traduzione edulcorata dell’originale inglese è mia. «Sono appena tornata dall’Italia, ho un fidanzato italiano, sono a cena con i miei suoceri italiani e la informo io che si dice “bruschetta”». Il cameriere si allontanò sospirando per l’ostinata ignoranza di quella ragazza.
La storpiatura dei nomi stranieri pronunciati da chi non conosce l’originale non è una caratteristica degli americani. Per sapere che nessuno è senza peccato basta ascoltare le cento maniere usate dalle tv italiane per non pronunciare correttamente il nome dell’attore Tom Cruise (Cruus) o il bowling (non bùling, attività riprovevole). O ricordare come un autorevole quotidiano informò i lettori che un capo di stato a un vertice aveva calato il suo Hatù, invece dell’atout, immagino fra la disgustata costernazione dei presenti. E nessun frequentatore italiano di friggitorie da fast food ordinerà mai un hamburger aspirando l’acca iniziale come si dovrebbe, ormai e per sempre un “amburgher”.
Ma il suono di parole straniere, come quelle italiane, usate soprattutto per il marketing di prodotti alimentari diventa, alle orecchie di chi parla quella lingua, involontariamente comico. Periodicamente vengono offerte novità che si aggiungono ai classici. La variazioni sul tema dell’espresso e del cappuccino, diventati popolarissimi grazie a una catena che ora sbarca in Italia dove espresso e cappuccino furono inventati, si arricchiscono ogni anno.
Ai classici frappuccino, che ha una bella eco monastica, al più severo mokaccino, al dunkaccino che sembra un insulto ma viene da dunk, pucciare, all’ormai ubiquo “latte”, che è la semplice abbreviazione di caffelatte, ora si è aggiunto il “culatte”, che a un italiano fa venire una leggera nausea ma è solo umile caffelatte servito cool, freddo.
Nei reparti dei surgelati, la storica collezione di pizze pronte che per prime fecero la fortuna di un emigrato, Gino Paolucci, prontamente ribattezzatosi Jeno per non sentirsi chiamare “Giaino”, si è arricchita con l’arrivo della “freschetta”, che dovrebbe suscitare immagini di freschezza, ma in Italia potrebbe creare equivoci.
Nei reparti pescheria di una sussiegosa catena di supermercati biologici, si vende il “bronzino”, che non è il grande pittore fiorentino del ’500, ma il gustoso branzino. E chi, come me, ha dovuto attraversare per anni gli Stati Uniti cercando ristoranti italiani all’immancabile attacco di astinenza da pasta, ricorda le infinite maniere per massacrare le parole “spaghetti” e “prosciutto”.
Gli spaghetti, nei finti Italian Restaurant, diventano spagetti, spighetti, spaghitti, spaggetti, e il prosciutto si trasforma in proschiutto, prosutto, presciutto, pesciutto, strafalcioni che garantiscono come quel salume, o quel semplice piatto di spaghetti, saranno martirizzati nelle cucine.
Non si tratta delle ormai universali truffe dei falsi prodotti italiani, dei pecorini, gorgonzola, asiago e parmigiano fatti in Wisconsin o dell’olio d’oliva extravergine italiano che nella composizione rivela la partecipazione di più nazioni di un torneo internazionale di calcio. È l’effetto comico della pronuncia sbagliata o dell’adattamento alla fonetica di lingue diverse, che prepotentemente si afferma. Come in Francia invariabilmente si dirà spaghetti, prosciutto, Mattarellà, Renzì, Berlusconì e Grillò.
Da qui, un antico dilemma: è giusto, per chi conosce la pronuncia corretta, ordinare un piatto di cucina straniera o pronunciare un cognome come si deve, oppure è affettazione inutile? Quando diventa italiana una parola inglese, come il catering divenuto “catterin” o definitivamente inglese una parola italiana come fettuccine, ormai per sempre “fettucini” nei menù americani?
Non ho una risposta, che lascio agli studiosi dell’evoluzione delle lingue, ma un cosa so: quella “bruscetta” faceva schifo.