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 2015  marzo 31 Martedì calendario

IL CORPO COME PROVA DEL MALE ASSOLUTO

Se io non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, e se non metto il mio dito nel segno dei chiodi, e se non metto la mia mano nel suo costato, io non crederò. Così, secondo Giovanni, dice ai suoi compagni Tommaso, detto Didimo. E il segno dei chiodi sembra essere ancora oggi l’ultima, ed estrema prova di un delitto — l’esercizio compiuto del “male del mondo”, come ha detto nella conferenza stampa di martedì la signora Regeni. La vittima, che non può più parlare, né difendersi, per ottenere ascolto è costretta a tornare fra noi come corpo, e volto, offeso, straziato, sanguinante.
Il corpo del nemico ucciso — mutilato, decapitato, impiccato, bruciato — lo espongono (per sfregio, per volontà di potenza, per intimidire e terrorizzare, per delirio di impunità) i suoi assassini, e lo rilanciano i mass media, che alternano, a seconda della convenienza e della posizione assunta nel conflitto, la pedagogia dell’orrore alla rimozione visuale della morte. Per un rovesciamento simmetrico, il corpo dell’amico ucciso lo espongono non i carnefici ma gli alleati. Le immagini dei martiri le mostravano i devoti, i cadaveri saponati degli ebrei sterminati nei campi di concentramento i cameramen al seguito degli eserciti liberatori. Per ragioni opposte: come testimonianza al di là di ogni ragionevole dubbio, contro ogni negazionismo e ogni futuro silenzio, come prova definitiva e indiscutibile che questo male è stato commesso, che tutto ciò è davvero accaduto. E l’ostensione dei corpi, ma per lo più dei volti, delle vittime non di guerra, o di guerre non convenzionali — laica, e però intrisa di una sacralità purissima — tocca atrocemente alle persone che più le hanno amate: madri, sorelle, padri. Essi soli ne conoscono davvero il prezzo, e hanno il diritto di gridarci, mostrando i figli e i fratelli distrutti, il loro ecce homo.
Da secoli ci si interroga sulla liceità della rappresentazione del dolore dell’altro, degli altri. Posti davanti alla scelta di mostrare o non mostrare “ il segno dei chiodi”, anche gli artisti hanno esitato. Qualcuno, come Grünewald ( o, in tempi più vicini, l’espressionista Corinth), ha dipinto la sofferenza del corpo, lo strazio fisico, la morte brutta e infame.
Gli italiani preferivano idealizzare, alludere: un rivolo di sangue, l’impercettibile contrazione di un muscolo, il pallore livido della carne. Perfino negli scorticamenti e nelle amputazioni barocche gli strumenti di tortura sono più realistici delle ferite, e gli occhi dei martiri si levano al cielo, beati e senza lacrime. Si credeva che per suscitare commozione non sarebbe servito altro. Ma commuovere non significa far piangere: significa muovere l’animo. Indurre ad agire, strapparsi all’inerzia, trovare coraggio, e scegliere. Una immagine, una fotografia, può ancora farlo. Paradossalmente, in un’epoca in cui ogni gesto, anche il più insignificante della persona più insignificante, è immortalato da uno scatto, e offerto alla condivisione della folla anonima, la fotografia non solo non ha perso il suo potere, ma lo ha amplificato. Se le fotografie — come scriveva già nel 1973 Susan Sontag — « non possono creare una posizione morale, possono rafforzarla». Per questo, nella nostra contemporanea debolezza di posizione morale, l’immagine indelebile delle vittime — delle nostre vittime, i nostri amici uccisi — assume una travolgente forza etica, e si è rivelata così spesso necessaria.
La madre di Giulio Regeni ha detto che forse dovrà mostrare a tutti il volto devastato e irriconoscibile del figlio. Tuttavia, come lei, come quelli che lo hanno conosciuto e amato, io spero che non sarà necessario, stavolta, e di poter ricordare di Giulio Regeni il sorriso maturo, il volto giovane e felice. Perché questo era — ed è — un uomo.