Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 30 Mercoledì calendario

O. J. NON HA VINTO

Brentwood, dice il cartello blu incorniciato dalle palme di Los Angeles, e mentre lo supero penso che non molto è cambiato da allora. Ci sono ragazze bionde in leggings che tornano dalla palestra con il bicchiere del chai in mano, joggers che superano veloci le baby sitter messicane, un settantenne giovanile che apre la portiera della sua Bentley. Tutto sa di serenità: di solito la gente non viene ammazzata in un posto così.
Cerco i luoghi del delitto. La villa in stile Tudor di O.J. Simpson su Rockingham Avenue, quella col parco dove lui aveva eretto una statua di se stesso in tenuta da football, non c’è più: il nuovo proprietario l’ha demolita, perché col karma non si scherza. È diventata un caffè la pizzeria Mezzaluna dove Nicole Brown Simpson, che aveva divorziato due anni prima dal campione di football, cenò quella sera con i loro figli Sydney e Justin.
Le macchine si fermano invece ancora per un selfie davanti alla casa di South Bundy Drive dove Nicole venne trovata sgozzata insieme a Ron Goldman, il cameriere che le aveva riportato gli occhiali da sole. Le macchine frenano, fanno marcia indietro, vanno di nuovo avanti: trovare l’indirizzo non è facile, perché il nuovo proprietario ha cambiato il numero civico, e la sequenza della via ora fa così: 875, 879, 877. Un salto logico come tanti di questa storia iniziata la sera di domenica 12 giugno del 1994.
Per circa un anno e mezzo dopo quella sera l’America rimase ipnotizzata dal processo a Orenthal James Simpson, che a quel punto era non solo il più famoso giocatore di football della sua generazione ma anche attore e testimonial di spot di successo. Soprannominato «The Juice», non solo perché le inziali O.J. stanno per succo di arancia ma perché O.J. era l’essenza del successo, trasfigurazione di uno sportivo nero in un brand globale. Anche per questo la Cnn mise 70 giornalisti a seguire le udienze, che venivano trasmesse in diretta. Sui quotidiani l’omicidio eclissò il genocidio in Rwanda. Facevano più notizia i cambi di acconciatura di Marcia Clark, l’avvocato dell’accusa, di quel che faceva Bill Clinton alla Casa Bianca. Lance Ito, il giudice di origini giapponesi che presiedeva le udienze, era un personaggio fisso nelle gag di Saturday Night Live. E personaggi minori come Kato Kaelin, che viveva in una casetta nella villa di O.J., divennero celebrity che poi camparono tutta la vita su quella notorietà.
Kato e Faye Resnick, l’amica di Nicole che immediatamente vendette ai tabloid i segreti sulla sessualità dell’amica, sono ora di nuovo in Tv a commentare la serie Il caso O.J. Simp­son: American Crime Story, che ricostruisce la storia. Con Cuba Gooding Jr. nella parte di O.J. e John Travolta che interpreta l’avvocato della difesa Robert Shapiro. Vedere la serie fa un effetto strano. È un po’ come vivere per la prima volta qualcosa che hai già vissuto: aspetti la puntata successiva ma sai benissimo come andrà a finire.

I
I giurati non videro mai i risultati del test della verità a cui i suoi avvocati sottoposero O.J. Simpson, che fallì con il risultato più basso possibile. Ma conoscevano i suoi precedenti: la notte di Capodanno del 1989 Nicole Brown dovette essere ricoverata in ospedale dopo essere stata pestata da O.J., e non si trattò certo di un caso isolato. Durante il loro matrimonio il campione di football malmenò la moglie almeno cinquanta volte.
Tanya Brown, la sorella minore di Nicole, mi racconta della piccola chiave che trovò a casa sua quando andò a metterla a posto dopo l’omicidio: «Mia sorella Denise andò con la chiave alla banca di Nicole e scoprimmo la cassetta di sicurezza dove lei teneva la documentazione delle violenze subite, comprese le foto che si faceva dopo essere stata malmenata. Trovammo anche il diario in cui Nicole descriveva gli abusi: la prima pagina risale al 1978, due anni dopo il suo incontro con O.J. La sistematica violenza del marito era la ragione per cui Nicole chiese il divorzio: «Mia sorella era l’epitome della vittima della violenza domestica: viveva nella paura, ma nascondeva tutto, per imbarazzo e per orgoglio». In una delle pagine del diario, Nicole scrive: «Mi ha menato così tanto oggi a casa, mi ha strappato di dosso il golf azzurro e i pantaloni blu. All’ospedale ho detto che avevo avuto un incidente andando in bicicletta».

C
Nessuno seppe dov’era fino alle 6 di pomeriggio, quando la macchina fu finalmente avvistata in direzione sud sull’autostrada di Santa Ana, vicino al cimitero dove il giorno prima era stata sepolta Nicole.
Cominciò così «The chase». Ovvero la surreale parata di 12 macchine e sette elicotteri della polizia che seguivano la Ford Bronco su cui O.J. minacciava di spararsi parlando al telefono con polizia, amici, e anche col padre di Nicole che lo scongiurava di lasciare almeno un genitore ai suoi nipoti.
Quella sera ero fuori con amici a New York e ricordo che tutti erano fermi davanti alle televisioni dei bar. La finale di basket tra i Knicks e gli Houston Rockets venne ridotta a un quadratino nell’angolo dello schermo: tutta America per tre ore guardò la Ford Bronco inseguita dalle macchine della polizia, e tutti avevamo la sensazione che stesse accadendo qualcosa che non era mai successo prima.
Poi avremmo capito che in quel preciso momento nasceva la Tv verità, ma allora non sapevamo che la regina di questo genere, Kim Kardashian, seguì l’evento in un posto di prima fila perché O.J. era il suo padrino. Kim allora aveva 14 anni e per lei «zia» Nicole e «zio» O.J. erano come parenti acquisiti con cui aveva passato molte vacanze dopo che il campione di football aveva fatto da testimone al matrimonio tra mamma Kris Jenner e papà Robert Kardashian.
Quest’ultimo era il migliore amico di O.J., e avrebbe poi partecipato a difenderlo in aula. La sera dell’inseguimento lesse in diretta Tv una lettera in cui di O.J. minacciava di suicidarsi. Poco prima ospitandolo a casa sua lo aveva scongiurato: «Ti prego O.J., non ammazzarti nella stanza di mia figlia Kim».
Nella serie, i bambini Kim, Khloé, Kourtney e Rob, che hanno tutti ora i loro reality show, chiedono a papà Robert se veramente zio O.J. avrebbe potuto fare una cosa così brutta, e lo paragonano con il nuovo compagno della madre Bruce Jenner, che ora tutti conosciamo come Caitlyn, la transgender più famosa che ci sia. Sembra tutto inventato ma incredibilmente è tutto vero, e non credo sia lontana dalla realtà la frase che la serie Tv attribuisce a Robert Kardashian: «Ascoltatemi bambini: noi siamo Kardashian. E in questa famiglia essere una buona persona e un amico leale è più importante che essere famosi. La fama è effimera, non significa nulla senza un cuore virtuoso».
Per parafrasare Cindy Adams, la columnist che scriveva del processo per il New York Post: «Solo a L.A., gente. Solo a L.A.».

P
Anche per questo non la prese bene quando i suoi avvocati ridecorarono casa sua prima della visita dei giurati, per la maggior parte neri, ai luoghi focali del processo. In camera da letto la foto nuda di Paula Barbieri, la fidanzata all’epoca di O.J., fu sostituita da ritratti del campione con la sua mamma. Negli angoli spuntarono sculture africane. In salone venne appeso un quadro del 1963 di Norman Rockwell che mostra una scolaretta nera scortata a scuola dagli sceriffi, prestato per l’occasione dall’avvocato Johnnie Cochran.
Proprio per la sua fama di difensore dei diritti civili dei neri, oltre che di Michael Jackson nel processo in cui venne accusato di pedofilia, Cochran assunse il ruolo di leader degli 11 avvocati che regalarono a O.J. l’assoluzione. Dream team, lo chiamarono, e a ragione: era una squadra costosissima, e le spese legali portarono Simpson alla libertà, ma anche alla bancarotta. Sin dall’inizio, Cochran, Shapiro e gli altri cercarono di istillare dubbi nella giuria, che avevano accuratamente selezionato per l’empatia con O.J. Interrogando uno dei primi poliziotti sulla scena del delitto, Cochran all’improvviso chiese: «Sa cos’è la collana colombiana?». E poi si mise a spiegare che quel tipo di sgozzamento era tipico delle gang di narcotrafficanti che operavano a Los Angeles all’epoca. Non c’era nessuna ragione per pensare che i narcos avessero alcun interesse a uccidere Nicole e Ron, ma intanto il seme del dubbio era stato piantato. Il capolavoro della difesa ovviamente fu il colpo di scena del guanto.

A
Ma a fare decidere ai giurati di assolvere O.J. Simpson furono soprattutto le rivelazioni su Mark Fuhrman, il detective razzista che arrivò per primo sulla scena del delitto, e che trovò i guanti. Dopo avere testimoniato in aula di non avere mai usato il termine dispregiativo «nigger» nei dieci anni precedenti, Fuhrman venne ripetutamente sbugiardato. Prima da una teste che disse di avere sentito Fuhrman dire che i negri dovrebbero essere «radunati e bruciati tutti assieme». Poi da un’altra teste che ricordò un’altra conversazione col detective: «Gli unici negri buoni sono quelli morti». Infine dalla propria stessa voce, in una serie di conversazioni registrate per un libro: nei nastri Fuhrman parla 32 volte in modo dispregiativo di «negri». E quando infine gli venne chiesto se poteva escludere di avere manipolato prove sulla scena del delitto, Fuhrman si appellò al diritto di non rispondere previsto dal quinto emendamento della Costituzione.
Il processo fu il più grande circo mediatico del secolo scorso, e come fu starci in mezzo me lo racconta Tanya Brown: «La nostra vita fu sconvolta: trovavo reporter che volevano intervistarmi anche sulla tomba di mia sorella al cimitero, e per parlare tra noi andavamo sulla spiaggia perché davanti a casa cercavano di intercettare le nostre conversazioni. Ma c’erano anche cose belle: i figli di O.J. e Nicole stettero da noi, e giocavano coi loro cugini, in un’atmosfera di festa che io ero forse l’unica a essere incapace di godermi perché all’epoca i bambini non mi piacevano tanto».
Mentre la sorella Denise si faceva portavoce della famiglia, Tanya si teneva tutto dentro e dieci anni dopo il processo sprofondò in una depressione che la portò a tentare di uccidersi, come racconta nel suo libro Finding Peace Amid the Chaos (Trovare la pace nel caos). Finì in un ospedale psichiatrico, dove naturalmente trovò un giornalista che tentò di intervistarla: «Non era solo Nicole: avevo perso anche due dei miei migliori amici, e non mi ero data lo spazio per elaborare lo stress. Ora posso riguardare a quel periodo con più serenità, anche se quello che è successo rimarrà sempre nelle nostre vite».

O
Ora Tanya abita con la famiglia a Laguna Beach, tra Los Angeles e San Diego. Per ricordare Nicole ogni anno fa un picnic sulla spiaggia rievocandola con le sorelle e la mamma: «Accendiamo delle candele, parliamo di lei e poi buttiamo nell’oceano rose bianche, il suo fiore preferito».
Le chiedo come stanno i figli di O.J. e Nicole, che ora hanno 30 e 27 anni: «Benissimo, è incredibile quanto, dato quello che hanno vissuto: sono due bellissime persone». Le chiedo se è turbata dal fatto che l’anno prossimo O.J. potrebbe uscire dalla galera del Nevada dove è rinchiuso per furto a mano armata: «Non sapevo che dovesse uscire», mi dice.
Tanya dice di avere lottato per superare l’odio, e credo che ce l’abbia fatta, persino a perdonare: «Tutto accade per una ragione, ed è stato così anche stavolta, il karma prima o poi ristabilisce la verità». Come scrive nel libro: «O.J. non è più il mio problema. Credo che qualcuno con molto più potere di lui lo stia aspettando dall’altra parte della sua vita, e stavolta non ci sarà un team di avvocati costosissimi a rappresentarlo».