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 2016  marzo 30 Mercoledì calendario

INTERVISTA ALLE FIGLIE DI JESSE OWENS

«L’hanno trattato malissimo, ma lui sapeva che quanto era riuscito a fare lo avrebbe potuto fare solo in America e non ha mai perso la speranza che un giorno il suo Paese sarebbe cambiato. Credeva in un’America migliore e ci ha insegnato a fare lo stesso».
A parlare è Marlene, una delle tre figlie (con Gloria e Beverly) di Jesse Owens, il campione afro-americano che segnò l’Olimpiade di Berlino del 1936, l’ultima prima della Seconda guerra mondiale. L’immagine di Jesse Owens (scomparso nel 1980 a 66 anni) che vince un oro dietro l’altro – nei 100, nei 200, nella staffetta, nel lungo – sotto lo sguardo furioso di Hitler, è entrata nei libri di storia, a rappresentare il trionfo di una società libera contro quella immaginata dal nazismo, ma racconta anche di segregazione razziale e di un’America dove un olimpionico capace di vincere quattro medaglie era costretto a entrare alla festa in suo onore dall’ingresso sul retro, passando dalle cucine, come appena 80 anni fa era consuetudine nell’America dei bianchi ben separati dai neri.
Adesso questa storia unica viene raccontata nel film Race, che significa corsa ma anche razza, un doppio senso non casuale per la vicenda del giovane James, partito dall’Alabama, dove il razzismo era ed è molto radicato, per toccare Cleveland (Ohio) e vivere un percorso costellato di ostacoli, rappresentando un Paese che in parte, incredibilmente, lo ripudiava. Il film, con Stephan James (già in Selma: la strada per la libertà) nei panni di Owens, racconta gli inizi dell’atleta e la sua discussa partecipazione ai Giochi di Berlino. I produttori si sono avvalsi della consulenza delle figlie, ormai anziane, ma eleganti in abiti quasi sgargianti, come la domenica in chiesa ad Harlem. Gentili, emozionate, si commuovono pensando al padre e alle sue sofferenze, ma non celano la rabbia.

Come definireste vostro padre in un aggettivo?
«Passionale. Ma un solo aggettivo è poco, possiamo usarne altri?».
Certamente.
«Umano, devoto alla famiglia e al Paese».
Dopo tutto quello che aveva passato?
«L’America non gli ha reso i giusti onori. Se fosse stato bianco dopo quei successi gli avrebbero trovato casa, lavoro e gli avrebbero garantito una stabilità economica, invece si è trovato a gareggiare contro i cavalli per 50 dollari a corsa. Eppure era grato all’America per l’opportunità che gli era stata data, anche se limitata, come esigevano i tempi».
Era consapevole del grande valore simbolico delle sue vittorie?
«Era andato per correre e aveva corso. Non capiva la politica. Anche se poi grazie all’amicizia nata con Luz Long (il campione tedesco che Owens batté a Berlino nel salto in lungo e che sarebbe morto in guerra nel 1943, ndr) ha avuto una consapevolezza più chiara. Lo intuiva dalla gente, che in lui vedeva la possibilità di emergere. Con umiltà, ma gli faceva piacere essere considerato».
Parlava mai di quel periodo?
«Solo se qualcuno glielo chiedeva. La sua preoccupazione era sostenere la famiglia in ogni modo possibile e a casa era semplicemente daddy, il nostro papà. Noi eravamo protette dalla sua “fama”, non abbiamo saputo delle sue gesta fino a quando siamo diventate adolescenti. Eravamo una famiglia molto normale e di quel periodo non si parlava quasi mai. Credo lo facesse soffrire».
Ma quando lo avete scoperto, vi siete arrabbiate per il trattamento che aveva subìto?
«Molto. Non capivamo perché in Europa fosse visto come un eroe e qui lo avessero trattato a pesci in faccia. Mia madre, quando correva coi cavalli, ha sofferto molto. Lui non accettava compromessi, se decideva di fare una cosa la faceva. Però aveva un modo di rendere tutto più leggero. Sulle corse con i cavalli scherzava e diceva: vinco perché quando danno il via con la pistola i cavalli si spaventano e io approfitto del vantaggio».
Lui e quatto donne sotto lo stesso tetto...
«Lo sovrastavamo in numero e forze, ma comandava lui. Erano tempi diversi e aveva una concezione della donna un po’ all’antica. Noi abbiamo dovuto frequentare lezioni di buone maniere, danza e tutte quelle cose che ai tempi ti rendevano una “donna”».
Il film potrà aiutare le nuove generazioni di afroamericani che lottano per l’eguaglianza?
«Vorremmo tanto che il suo coraggio, la sua forza, fossero di ispirazione ai giovani per rendere l’America migliore di quella che era ieri e che è oggi. Suo nonno in Alabama era uno schiavo, ma tutte quelle sofferenze e l’amore della famiglia gli hanno dato la forza e il coraggio di provare a emergere, di lottare».
Strada ne è stata fatta molta, no? Anche il Presidente americano è di colore.
Le sorelle scoppiano in una risata.
«Che cosa straordinaria, eh? Obama è molto amato in Europa, in America non è visto di buon occhio. Il razzismo qui è strisciante, mascherato. Ogni tanto mette la testa fuori e si vede in tutta la sua ferocia. Ma come ci ha insegnato nostro padre, crediamo nella promessa dell’America, dove un giorno saremo tutti uguali, trattati tutti allo stesso modo, con le stesse opportunità. L’intolleranza deve scomparire, e ci sono stati molti progressi. Ma ci sono tante altre cose da cambiare e siamo sicure che cambieranno, magari quando noi non ci saremo più».
Che effetto vi ha fatto vedere il film?
«Come essere spettatori della propria vita. E ci ha fatto capire ancora di più quanta pressione avessero messo sulle spalle a quel giovane atleta e quanta fatica abbia fatto a mantenerci e farci crescere».
Le avete voi le sue medaglie?
«No, sono in una stanza dell’università dell’Ohio, per la quale correva».
La sua amicizia con Luz Long diventò il simbolo dello sport che affratella. Ma è vera?
«Sì, e si sono scritti per alcuni anni dopo l’Olimpiade, erano grandi amici. E poi è accaduta una cosa strana, che si spiega solo col destino: un nostro nipote è sposato con una nipote di Long. Si sono conosciuti per caso in Germania, si sono presentati e dai cognomi hanno scoperto di essere legati da una storia e che i loro nonni avevano cambiato il mondo. Si sono innamorati, e hanno un bambino. Bisogna sempre credere nella promessa di un mondo migliore».