Sara Faillaci, Vanity Fair 30/3/2016, 30 marzo 2016
INTERVISTA AD ADRIANO GIANNINI
«La prima volta che la vidi avanzava verso di me in una calle stretta di Venezia, non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso. È la più bella, me ne innamorai all’istante. Tanto che alle mie compagne ho sempre detto: per lei mollerei tutto, sappilo».
Adriano Giannini ha una passione segreta che si chiama Cate Blanchett. La sua fortuna – o sfortuna – è stata lavorarci insieme in un film cult, Il talento di Mr. Ripley.
«Era un film difficile, io ero uno degli operatori. E sbagliai: girai sfocata una scena, tra l’altro lunga e complessa e gli attori dovettero ritornare sul set per rifarla. Di certo non mi sono messo sotto una buona luce».
Vi siete mai parlati?
«Certo e quando la rividi, in un’occasione successiva, le confessai che era stata colpa mia. Lei si ricordava e sorrise. Che donna. Altro che Gwyneth Paltrow, che vicino a lei scompariva».
Non è facile far parlare Adriano Giannini di donne. Per dieci anni ha avuto una compagna altrettanto discreta, una restauratrice genovese di nome Maria con cui viveva a Roma, e della coppia non esistono quasi immagini. Da due anni si sono lasciati (e anche sulle cause della separazione lui sarà molto misterioso) e oggi è single. Con una serie di svantaggi: «Ho avuto un’influenza bestiale e mi ha curato la maga del piano di sotto, che è anche erborista: mi ha detto di far bollire per mezz’ora chiodi di garofano, aghi di pino, di tutto e di più, e di metterci pure il brandy. L’ho bevuto e ho iniziato a sudare come mai nella vita».
E di vantaggi: «Tutto il mio tempo e le mie energie vanno nel lavoro». Al cinema dall’11 al 13 aprile sarà una delle voci narranti (interpreta brani delle Passeggiate romane di Stendhal) del film San Pietro e le Basiliche Papali di Roma 3D, un eccezionale documentario con immagini mai viste prima realizzato da Sky 3D e dal Centro Televisivo Vaticano per far conoscere i tesori di San Pietro, San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore e San Paolo fuori le Mura in occasione del Giubileo. A maggio torna in Tv, su Raiuno, nei panni di Boris Giuliano, il capo della Squadra Mobile di Palermo ucciso dalla mafia il 21 luglio 1979. Infine, non ha rinunciato a fare il regista: dopo il buon successo della sua opera prima Il Gioco, presentata nel 2009 alla Mostra di Venezia e premiata con il Nastro d’Argento come miglior cortometraggio, sta ultimando il suo secondo, un’opera difficile che lo ha impegnato per quasi quattro anni.
Ci può svelare di che cosa si tratta?
«È ambientato due milioni di anni fa, con l’homo erectus, una follia. Il soggetto è di un ragazzo che lavora ai Mercati Generali, lo lessi quando ero in giuria a un festival. Non lo selezionarono e io alla fine me lo comprai. La difficoltà maggiore l’abbiamo avuta con i trucchi e i costumi, praticamente non c’è parlato: alla base c’è l’idea che è stata la donna a fare la scoperta più importante della storia, quella del fuoco, ma non è capita e quindi viene uccisa».
Perché fa cortometraggi?
«Perché oggi vanno le cose brevi, dai 5 ai 12 minuti. In Italia siamo molto indietro dal punto di vista delle produzioni, io vedo quello che succede all’estero».
L’amore per la regia le viene da sua madre, Livia Giampalmo?
«Credo che, come ha fatto lei, sia importante diversificare: recitare, dirigere, doppiare. Io da piccolo non pensavo di fare il lavoro dei miei genitori, forse perché il cinema era la cosa che mi sottraeva mio padre (Giancarlo, ndr). Invece poi è successo, per caso: a 18 anni, dopo la morte di mio fratello (Lorenzo, stroncato a 20 anni da un aneurisma, ndr), ho chiesto a mamma di trovarmi un lavoro sul set dove stava lavorando, volevo guadagnare un po’ di soldi per andarmene in America. Invece è finita che mi fermai a fare l’operatore per dieci anni: una gavetta dura perché quando hai un cognome come il mio devi dimostrare il doppio, e perché ebbi la fortuna di entrare in una squadra che lavorava con il grande cinema americano».
E lì conobbe Cate Blanchett. Ma si è mai fatto avanti con lei?
«Scherza? A stento riuscivo a rivolgerle la parola, è una dea».
È sempre così timido con le donne?
«Non è questione di timidezza. Io l’amore non lo cerco, quando arriva, arriva. Anche perché so star bene anche da solo, con i miei cani».
Per questo è ancora single?
«Single lo si è per scelta, invece io sono solo per i fatti della vita, fosse per me sarei in coppia e anche con una nidiata di bambini».
È stato lasciato dalla sua fidanzata storica?
«Non proprio. La nostra storia è finita e ci sono dei motivi, ma li voglio tenere per me. Siamo comunque rimasti in buoni rapporti e ci saremo sempre l’uno per l’altro».
Avrà avuto qualche flirt in questi due anni.
«In maniera moderata. Non sono un santo, ma sono più normale di tanti avvocati».
Figlio di una regista e di un attore, che si sono separati quando era bambino, non è cresciuto con un modello di famiglia tradizionale.
«Per me la normalità è come sono cresciuto io. Tra artisti c’è una certa promiscuità, facilmente ci si annoia, ma devo dire che tra i miei c’è sempre stata una grande onestà. La famiglia tradizionale non è qualcosa che ho mai rincorso, il matrimonio non mi è mai interessato, per me l’importante è che ci sia il rispetto dell’altro. Da un po’ di tempo, poi, mi capita di stare di più con i miei genitori».
Siete sempre andati d’accordo?
«Molto, con entrambi. Ma, stranamente, da quando lavoro ogni tanto qualcuno mi chiede come va con papà e quando rispondo: “Bene”, replica: “No, perché ho saputo che avete avuto dei problemi”, e se io nego, insiste: “Eh lo so, non ne vuoi parlare”. Come se il fatto di avere un padre attore famoso implichi per forza che ci sia entrato in conflitto».
Forse perché lei non è competitivo?
«Può darsi. Ma con quella serenità c’entra anche l’educazione. Mia madre non è certo la mamma chioccia italiana, è sempre stata molto indipendente e tosta, anche se abbiamo avuto la nostra buona dose di sofferenze».
La sua voce ci farà riscoprire Stendhal e le bellezze delle quattro basiliche papali.
«Un grande onore. San Pietro è il cuore pulsante di Roma e il punto di riferimento per noi romani, che a volte diamo per scontato: guardarlo con gli occhi dello straniero è stato illuminante».
Ci racconta la storia di Boris Giuliano?
«Lui e la sua squadra hanno combattuto Cosa Nostra quando la mafia era fortissima in Sicilia: erano gli anni del “sacco” di Palermo, della guerra tra corleonesi e palermitani, eppure non ebbero alcun aiuto dallo Stato. Ed erano cinque poliziotti con due volanti e una radio scassata. Se pensa che il reato di associazione di tipo mafioso è stato introdotto solo nel 1982».
Che tipo era Giuliano?
«Aveva una testa diversa, aveva seguito anche corsi dell’Fbi. Aveva scoperto, per dire, che a Palermo, sotto l’aeroporto di Punta Raisi costruito sui terreni di Badalamenti, partivano tre jumbo al giorno carichi di eroina: prima arrivava raffinata da Marsiglia, poi i francesi insegnarono ai siciliani il procedimento, per cui Palermo in quegli anni era una grande raffineria di droga».
E come uomo?
«Ho imparato a conoscerlo soprattutto incontrando la moglie e le figlie. Boris era un uomo che si dedicava totalmente al lavoro, un’anima inquieta perché sapeva molto prima dove sarebbe finito. Perché la gente come lui purtroppo lo sa prima».
Le somigliava anche fisicamente?
«No, lui era più tondo di me, ma la somiglianza fisica non era importante per Ricky Tognazzi, il regista. La cosa strana è stata che il primo giorno di riprese – ero vestito anni Settanta con baffi e tutto – vidi un gruppetto di signori anziani che mi guardava. In un momento di pausa sono venuti verso di me, mi hanno fissato negli occhi, si sono messi sull’attenti e hanno detto: “Comandi capo”. Erano gli uomini della sua squadra e avevano tutti gli occhi lucidi. Loro sì che erano veri, mica come noi che facevamo la fiction. È stata una grande emozione».