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 2016  marzo 30 Mercoledì calendario

MOLENBEEK

Bruxelles, marzo
La frontiera passa qui davanti, sul canale Charleroi, aperto a Bruxelles nel 1832, due anni dopo l’indipendenza del Belgio dall’Olanda. La frontiera fra le due civiltà, cristiana e islamica, che si fronteggiano oggi come 1.300 anni fa a Poitiers e 300 anni fa a Vienna assediata dagli Ottomani.
Più modestamente, il canale ora separa il centro di Bruxelles dal quartiere di Molenbeek («molino sul torrente»): la capitale d’Europa contro la capitale dei terroristi islamici che hanno ammazzato 34 persone il 22 marzo (questo il bilancio al momento in cui andiamo in stampa) e 130 a Parigi il 13 novembre.
Da qui venivano quasi tutti i fanatici dei due commandos. Qui, in rue Quatre-Vents 79, è stato arrestato Salah Abdeslam dopo quattro mesi di tranquilla latitanza fra un attentato e l’altro. Qui, dicono i pessimisti, si è creata una generazione di simpatizzanti dell’Isis che copre gli estremisti. Gli ottimisti come Youssef Choukri, invece, sostengono: «È buon segno che i terroristi di Bruxelles siano gli stessi di Parigi. Vuol dire che magari c’era un solo gruppo. E che ora sono stati eliminati».
Youssef, ventenne, aiuta il padre immigrato marocchino in un deposito di via Delaunoy (dove al numero 47 c’era un altro covo islamista). Ha partecipato alla manifestazione permanente per le vittime in piazza della Borsa. Saranno 400 metri dal canale Charleroi. Ma sono due mondi differenti. Di qua i profumi di kebab, pollo, cacao caldo e caffè dei 100 mila immigrati di Molenbeek. Di là, il centro di Bruxelles con i suoi edifici alti e abbastanza tristi. La Grand Place, le birrerie, i parchi dei palazzi reali (dove vive anche la 78enne Regina madre Paola di Liegi) e il quartiere europeo: Parlamento, Commissione, Consiglio, serviti dalla stazione metro Maelbeek insanguinata dai kamikaze.
Il vulcano, però, sta qui a ovest. Così, arrivando in città, decido di venire nell’unico albergo di Molenbeek: il Meininger, solo 50 euro a notte. Una specie di ostello pulito e con velleità artistiche, ricavato nell’ex fabbrica della birra Bellevue. Sull’orlo del cratere islamico.
A oggi, venerdì 25, l’aereoporto di Zaventem è ancora chiuso dopo la strage. Atterro a Charleroi, dove i soldati perquisiscono tutti i viaggiatori in partenza provocando code chilometriche di auto. Molti passeggeri decidono così di camminare anche un chilometro, trascinando i trolley verso l’aerostazione.
Benvenuti nella nuova normalità dei viaggi post-22 marzo: tempi raddoppiati e controlli ai raggi X all’ingresso, ben prima dei check-in violati dai terroristi.
Il bus navetta arriva alla Gare du Midi. Anche qui code snervanti per entrare nell’unico ingresso lasciato aperto: quello di fronte alla statua di Paul-Henri Spaak, padre belga sia dell’Europa unita, sia dell’attrice Catherine.
Salgo sul tram 82 pieno di donne arabe con velo e passeggini: non ci si può sbagliare, è la direzione giusta verso il ghetto maomettano. Dove fino al 1965 di arabi non ce n’erano: «I primi marocchini cominciarono ad arrivare per sostituire gli immigrati italiani, spagnoli e portoghesi emancipatisi dalle miniere», mi spiega Giorgio, trentenne italiano che gestisce l’unico museo di Molenbeek: il Mima (Millennium iconoclastic museum of art) che avrebbe dovuto inaugurarsi il 24 marzo, ma la cui vernice è stata annullata per gli eventi assassini.
Scendo alla Gare de l’Est. Qui subisco un’ispezione addirittura corporale da parte di un giovane soldato che, con i commilitoni disposti a pettine, filtra i passeggeri. Tutti accettano di buon grado i controlli, anche giovani maghrebini con aspetto bellicoso, ma docili come agnelli. Il militare palpando tocca la scatoletta delle mentine nella tasca della mia giacca: la tiro fuori e lui quasi si scusa, imbarazzato. Un ufficiale poi mi confida: «Il difficile per noi è sveltire i controlli sugli insospettabili, ma senza sembrare razzisti verso religioni ed etnie sospette. Il cosiddetto racial profiling (cioè sospettare solo di persone appartenenti a una determinata etnia, ndr) infatti ci è severamente proibito».
Le strade di Molenbeek da quattro mesi sono setacciate da giornalisti di tutto il mondo. Per questo qualche abitante mostra insofferenza quando vede telecamere e macchine fotografiche. Il quartiere è ben tenuto, pulito, con rastrelliere per bici in affitto e ragazzi pakistani che giocano a cricket di fronte all’unica chiesa cattolica Saint Jean.
La sera di Giovedì santo partecipo alla messa della lavanda dei piedi. I tre preti concelebranti sono africani e nera è la stragrande maggioranza dei pochi fedeli. Gli unici bianchi sono immigrati polacchi e qualche portoghese sopravvissuto all’ondata musulmana. I sacerdoti faticano a trovare 12 volontari che si facciano lavare i piedi.
Ma davvero qui, nel Belgistan di Bruxelles, abbondano i simpatizzanti dell’Isis? «Se ce n’è ancora qualcuno non lo conosco», mi dice Youssef, «e comunque sarebbero gli ultimi a mostrare esteriormente segni di arruolamento. I suicidi del 22 marzo non li vedevamo in giro. Quelli molto religiosi ci sono, ma si sfogano facendo crescere barbe incolte e mostrando sulla fronte il bernoccolo tipico di chi ogni giorno si china a terra a pregare».
I negozi sono quasi tutti arabi. Stanno aperti fino a tardi e danno al quartiere il tipico tocco di suk arabo, con la mercanzia che deborda sui marciapiedi e i materassi cellophanati in strada. Nella vetrina di un centro sociale comunale, un avviso: «Corsi di francese e lingua araba (sul Corano) per sole donne». Apartheid nel cuore dell’Europa con soldi pubblici e laici, Corano imposto alle ragazze di seconda generazione che riscoprono le proprie radici. Un altro cartello, blu come le bandiere dell’Unione europea, annuncia un cofinanziamento di 5,7 milioni per restaurare un palazzo: «Noi paghiamo e quelli ricambiano uccidendoci», commenta amaro un belga.
Lo choc per la metropolitana fatta saltare alla fermata dove scendevano segretarie e impiegati è alto. Politici e superburocrati non rischiano: loro vanno al lavoro in auto (blu).
«È questa la grande sconfitta dei suicidi islamisti», conclude Youssef. «Noi arabi siamo persone concrete, e invece che cosa hanno ottenuto questi pazzi? Solo morte, per sé e per gli altri. Niente. Nichilisti. Perché anche fra noi c’è chi protesta contro le guerre d’invasione occidentale in Iraq, contro Usa e Israele. Ma farsi esplodere a casaccio in mezzo a innocenti non colpisce i colpevoli di quelle ingiustizie. Serve solo ad attirare qui giornalisti come lei, scusi tanto, neanche fossimo uno zoo. E a far chiamare “vulcano” un quartiere abbastanza tranquillo, com’era Molenbeek fino a novembre».