Giovanni Sabato, Mente&Cervello 4/2016, 30 marzo 2016
CARNIVORI DI RITORNO
«Per quanto grande fosse il piatto di riso e fagioli, mi sembrava di avere sempre fame. Peggio, mi sembrava di non godermi il cibo come gli altri. Mangiare era un’incombenza, come raccogliere i panni o pagare le bollette, ma ancora più sgradevole perché se non l’avessi fatto sarei morta. Ero stufa di avere fame, non ne potevo più di riso e fagioli. Così all’età di 31 anni, dopo 17 che ero vegetariana, mi sono decisa: “Proverò a riprendere a mangiare carne”».
È una delle tante testimonianze raccolte da Hal Herzog, psicologo alla Western Carolina University, che indaga le più varie questioni etiche circa il rapporto fra noi umani e gli altri animali – inclusa la scelta del vegetarianismo e il suo abbandono – e autore del libro Amati, odiati, mangiati. Perché è così difficile agire bene con gli animali (Bollati Boringhieri, 2014). In realtà questa è stata una testimonianza un po’ particolare, perché chi parlava era sua figlia. Ma in ogni caso quella descritta è solo una delle tante ragioni per cui un ex vegetariano, nelle casistiche di Herzog come in altre, dichiara di aver deciso di tornare onnivoro.
La scelta è sorprendentemente comune, perché, al contrario di quanto spesso si pensi, per i più il vegetarianismo non è un cambio definitivo di stile di vita ma una fase transitoria, spesso breve.
Gli indizi erano arrivati da varie inchieste già in passato, ma di recente lo ha sancito con numeri inattesi un’indagine rigorosa e condotta da un organismo al di sopra di ogni sospetto: lo Humane Research Council statunitense (che da poco ha cambiato nome in Faunalytics), un centro studi animalista che promuove la ricerca e la diffusione delle conoscenze, incluse indagini d’opinione sui temi animalisti commissionate alle maggiori aziende del settore, per aiutare i sostenitori dei diritti animali a perorare con più efficacia le loro tesi.
Uno su sei ce la fa
Tra fine 2014 e metà 2015, Faunalytics ha pubblicato i risultati di una ricerca condotta per tre anni sui vegetariani e vegani negli Stati Uniti, sponsorizzata da varie organizzazioni animaliste e vegetariane e condotta da psicologi e sociologi esperti in materia, quali Kathryn Asher, della University of New Brunswick, in Canada, e Brock Bastian, dell’Università di Melbourne, in Australia, in collaborazione con l’agenzia di sondaggi Harris Interactive.
L’inchiesta ha reclutato oltre 11.000 statunitensi, rappresentativi della popolazione adulta per età, sesso, distribuzione geografica, istruzione e reddito. E, sottolineano gli artefici, «è il primo studio ad aver stimato su un campione rappresentativo non solo il numero dei vegetariani e vegani negli Stati Uniti, ma anche quello degli ex». Con un esito un po’ sconcertante, come si diceva: non solo i vegetariani sono sorprendentemente pochi, ma gli ex sono molti di più. L’88 per cento degli interpellati infatti non era mai stato vegetariano o vegano, mentre solo il 2 per cento lo era (1,5 per cento vegetariani e 0,5 per cento vegani), e ben il 10 per cento lo era stato in passato ma poi era tornato onnivoro (ex vegetariani il 9 per cento, ex vegani l’1,1 per cento). In pratica, cinque persone su sei che avevano intrapreso una dieta vegetariana o vegana la hanno abbandonata per tornare alla carne. Fra le due, la scelta vegana è meno comune ma un po’ più persistente, essendo stata abbandonata dal 70 per cento dei praticanti contro l’86 per cento dei vegetariani.
Qualcosa di simile era già emerso in passato da altre indagini, come un’inchiesta realizzata nel 2005 dalla rete televisiva CBS News, da cui risultava che gli ex veg sono il triplo dei praticanti. Ma questa ricerca non solo è di gran lunga la più vasta e rappresentativa mai condotta, ma soprattutto la più rigorosa nel metodo, inclusi i criteri stringenti nel definire chi segue o no una certa dieta, che spiegano anche le discrepanze con altre inchieste.
È infatti esperienza comune che a volte si definiscono vegetariane persone che mangiano il pesce, o che in genere evitano le carni ma di tanto in tanto ammettono strappi alla regola, magari in occasioni sociali. Faunalytics ha infatti trovato che in prima battuta si dichiarava vegetariano o vegano il doppio dei partecipanti che poi sono risultati esserlo davvero, senza deviazioni significative, rispondendo a una serie di domande specifiche sulle loro abitudini alimentari e sulle eccezioni che si concedevano.
«Lo studio mostra che molti abbandonano il vegetarianismo entro pochi mesi, quindi gli attivisti dovrebbero intervenire per motivarli a continuare, aiutandoli a superare le difficoltà. D’altra parte a molti ex (il 37 per cento) piacerebbe riprendere, quindi questo è un target su cui agire: se solo un quarto di loro tornasse sui suoi passi, raddoppieremmo i vegetariani negli Stati Uniti», commenta, dal suo punto di vista, Faunalytics.
Una pluralità di ragioni
Ma perché mantenere una dieta veg è così difficile? Le ragioni che hanno spinto i partecipanti a sperimentare il vegetarianismo, e le maggiori difficoltà denunciate nel perseguirlo giorno dopo giorno, sono state approfondite in un sottocampione di ex, interrogato a fondo sui motivi dell’abbandono. «Non emerge una ragione preminente: molti ne citano tante concomitanti, e quelli che ne dichiarano una sola menzionano comunque un ampio spettro di cause, dal gusto ai costi e agli impicci pratici, dalle complicazioni sociali alle questioni di salute. E lo stesso vale per le condizioni a cui tornerebbero veg», riassume Faunalytics.
Senz’altro contano le spinte familiari e sociali. Un terzo degli ex al momento dell’abbandono aveva un partner non veg, il che può complicare la vita domestica o quanto meno moltiplicare le tentazioni. Inoltre fra i motivi dell’abbandono spiccano difficoltà sociali come le scarse relazioni con gruppi e persone che la pensano allo stesso modo e il conseguente disagio nel sentirsi diversi. Difficoltà denunciate anche da chi persiste, ma più frequenti in chi abbandona.
D’altro canto sono le stesse motivazioni iniziali ad apparire non sempre solide. Fra gli ex la spinta di gran lunga predominante al vegetarianismo erano stati i benefici (veri o presunti) per la salute; una motivazione che peraltro lascia perplessi molti attivisti perché slegata dal benessere animale. Ma una ragione sola a quanto pare non dà una motivazione sufficiente: persistono molto di più quelli che ne citano parecchie e di diverso ordine, dalla salute alle preferenze di gusti, dalle convinzioni religiose o spirituali agli scrupoli per il benessere animale, per l’impatto ambientale degli allevamenti o per la giustizia sociale, visto che per produrre una caloria di carne si sottraggono al consumo umano molte calorie vegetali.
«Vegetariani e vegani sono pochissimi, e da vent’anni i numeri cambiano poco. E i tantissimi abbandoni segnalano quanto è difficile mantenere a lungo una dieta simile. Quindi probabilmente per abbattere i consumi di carne – quali che siano le motivazioni – sarebbe più utile persuadere il grosso dei consumatori a mangiarne meno, anziché puntare sui pochi disponibili a fare la scelta assolutista e mantenerla», ha commentato Herzog. Anche Faunalitycs propugna il cosiddetto incrementalismo, l’approccio che mira a ridurre gradualmente la carne, e il nuovo studio conferma quell’idea, sia che si punti all’eliminazione totale, visto che pare più efficace arrivarci gradualmente che di botto, sia che si miri solo a un consumo ridotto, considerato quanti dichiarano difficile attenersi alla dieta veg in modo ferreo.
Onnivori etici
Anche Herzog nei suoi studi ha messo in luce una pluralità di ragioni per la conversione al vegetarianismo e il suo abbandono. Nelle sue casistiche chi lo sceglie è animato prima di tutto da preoccupazioni per il trattamento degli animali, poi per la salute e per l’ambiente, e solo di rado dai gusti o dalle pressioni sociali. Anche l’abbandono è dovuto a vari ordini di motivi. Uno è la salute: gran parte dei veg sta benissimo, e magari si sente meglio di prima, ma parecchi altri denunciano disturbi, pur seguendo a volte diete varie e in teoria complete. «Nel nostro caso, meno di un terzo degli ex veg ha lamentato disturbi di salute nel periodo in cui non mangiava carne», precisa Faunalytics. «Questo comunque è uno dei punti da curare di più, perché per esempio molti non avevano mai fatto un controllo dei livelli di vitamina B12, che nei veg può scarseggiare e necessitare di supplementi».
Poi ci sono le pressioni sociali: da comuni seccature, come le difficoltà di trovare cibi buoni a prezzi ragionevoli e rapidi da preparare, alle difficoltà nelle relazioni con amici, colleghi e familiari, fino al vero e proprio stigma. Non è trascurabile neanche il problema del gusto, la tentazione irresistibile di riassaporare la carne che a volte colpisce anche dopo molti anni. Un ragazzo l’ha riassunta a Herzog in un’equazione: «Studente di college affamato + prima notte di nuovo a casa con la famiglia + una cinquantina di ali di pollo fritte ardenti in cucina = resa».
Molto di rado invece l’abbandono discendeva da un cambio della visione etica animalista, per chi era partito da quella. Non solo infatti molti ex vogliono tornare veg, ma tanti altri limitano comunque i consumi di carne, non tornando ai livelli precedenti, o pongono particolari attenzioni (i cosiddetti «onnivori etici»), cercando per esempio garanzie sulle condizioni degli allevamenti. Chi invece aveva smesso soprattutto per le pressioni sociali mangia più carne di chi lo aveva fatto per scrupoli animalisti o ambientalisti.
Dalle carote al fegato cruda
Il quadro è corroborato dai diversi vegetariani ed ex conosciuti da Herzog nei suoi studi, che gli hanno raccontato dal vivo le loro storie e le loro ragioni.
Ci sono le insoddisfazioni culinarie e sociali della figlia, che aveva abbandonato la carne a soli 13 anni dichiarando preoccupazioni per gli animali e per l’ambiente, ma da grande ha riconosciuto che in realtà voleva soprattutto sentirsi diversa, unica, come spesso accade agli adolescenti, e in una cittadina di provincia dove il vegetarianismo era pressoché sconosciuto ne aveva fatto il suo tratto distintivo. O il caso clamoroso di Staci Giani, che dopo 12 anni senza carne era arrivata a soffrire di anemia, sindrome da fatica cronica, mal di stomaco per due ore dopo ogni pasto, e si sentiva completamente debilitata, finché ha deciso di cambiare radicalmente strada, e gli ha raccontato che ora per colazione mangiava «due etti di fegato bovino crudo». Ma ha ammesso anche lei che il vero motivo per cui aveva iniziato non era quello dichiarato: «Il mio vegetarianismo era legato a un disturbo alimentare. A 17 anni, era un modo per esercitare una forma di controllo sul mio corpo».
«Le scelte alimentari sono sempre scelte di appartenenza culturale, soggette a un condizionamento forte di cui non sempre ci rendiamo conto», spiega Laura Dalla Ragione, direttore del Centro per i disturbi del comportamento alimentare di Todi. «Nel nostro centro per l’obesità abbiamo studiato come le persone scelgono gli alimenti e vediamo una forte determinazione della cultura, delle mode, di agenti esterni insomma. Questo vale per tutti, e quindi anche per i vegetariani. Una parte lo sceglie senza una motivazione forte, per condizionamenti culturali superficiali, e lo abbandona più facilmente di fronte alle difficoltà, che si pongono prima fra tutto a livello sociale: il cibo ha una valenza sociale enorme, è condivisione, e una scelta che complica questa socialità diventa difficile da mantenere. Altri, tipicamente a un livello culturale medio-alto, fanno la scelta con più cognizione di causa, con una motivazione più solida, ed è chiaro che la difendono con più forza».
Una quota delle scelte ha senz’altro una componente patologica, conferma Dalla Ragione. «Anche le nostre ricerche confermano che una pregressa fase vegetariana o vegana può predisporre ai disturbi alimentari, come accade in generale a tutti coloro che da giovani restringono le scelte alimentari, per esempio per malattie come la celiachia o il diabete, e si abituano a esercitare un controllo stretto sul cibo, fino a volte, per chi ha personalità più vulnerabili, a farne un’ossessione. Da noi infatti molti pazienti chiedono un menu vegetariano, e noi lo forniamo, ma verifichiamo anche che non sia un versante di un disturbo alimentare».