Francesco Cardinali, Mente&Cervello 4/2016, 30 marzo 2016
SPOT DA SUPER BOWL
Avete presente quei giorni che, per un concatenarsi di motivi tutto sommato futili, andrebbero comunque archiviati in un’immaginaria cartella dal titolo «giornate da dimenticare»? Bene, lo scorso 7 febbraio, per quanto mi riguarda, è stato uno di quelli. Non vi annoierò con dettagli personali ma diciamo pure che, comodamente seduto davanti alla TV e con l’orologio che segnava la mezzanotte, contavo molto sull’annuale appuntamento con il Super Bowl per riabilitare una domenica – appunto – da dimenticare. Con un evento atteso e che mi piace vedere in diretta, anche a costo di una dolorosa sveglia il lunedì seguente.
Perché il Super Bowl è molto più di una finale del campionato di football americano, è l’evento sociale e di intrattenimento consumistico per eccellenza negli Stati Uniti. Un grande spettacolo, sempre più globale, che catalizza tanti spettatori ed enormi interessi, rappresentando anche la vetrina pubblicitaria più costosa e prestigiosa del pianeta.
Trasmettere un spot durante la partita costa caro: fino a 5 milioni di dollari per 30 secondi, in questo 2016 che vede il Super Bowl arrivare alla sua cinquantesima edizione. In cambio però si hanno diversi vantaggi, per primo la certezza che lo spot sarà visto simultaneamente da circa 200 milioni di spettatori, fra dirette TV e live streaming vari (quest’anno in onda anche su Apple TV, costosissimi spot inclusi). Gli altri vantaggi risiedono poi nell’esclusività e nell’attenzione mediatica: non tutti i brand hanno la forza di esserci, e il pubblico attende gli spot perché sa che i brand fanno a gara nel proporre commercial divertenti ed emozionanti per conquistare la mente degli spettatori. Tutta l’informazione online e offline ne parlerà e, infine, i più bravi saranno premiati da un’esposizione sul social web sancita dal numero di condivisioni e interazioni che il pubblico gli vorrà regalare.
In altre parole, spettacolo sportivo a parte, quella degli spot al Super Bowl è una competizione nella competizione alla quale vale la pena di assistere perché è probabile scovarvi campagne e idee di comunicazione memorabili.
Edizione numero 50
Purtroppo, però, la sfida di quest’anno fra i Carolina Panthers e i Denver Broncos non è stata granché spettacolare sul piano sportivo. E – devo dirlo – anche gli spot di questa edizione numero 50 non mi hanno dato l’impressione di saper trasmettere particolari emozioni. Certo, ci sono stati buoni commercial, ci mancherebbe... Per esempio quello di Audi, dove un triste e anziano astronauta rivive le sue emozioni da pilota spaziale e ritrova il sorriso nell’abitacolo della nuova R8 del figlio.
Bel lavoro anche per il brand Pantene che, per comunicare la sua tagline «Strong is beatiful», ha puntato direttamente su famosi giocatori di football intenti a prendersi cura delle loro bambine, comunicando l’importanza di un rapporto forte fra genitori e figli. Si è visto anche Christopher Walken che appare in una cabina armadio e, utilizzando due calzini, si produce in un originale discorso motivazionale per convincerci all’acquisto della nuova berlina Kia Optima.
Apprezzabili anche i messaggi di responsabilità sociale lanciati da Colgate contro lo spreco di acqua e da Budweiser sulla guida in stato di ebbrezza, attraverso un monologo al bar affidato al talento e alla classe regale dell’attrice Hellen Mirren. Abbastanza scialbo il resto e quasi irritanti due spot in particolare – evidentemente creati con l’intento (fallito) di far ridere – come quello di Snickers con un improbabile William Dafoe travestito da Marilyn Monroe e quello della bevanda gassata Mountain Dew (un brand della PepsiCo.) che, forse con l’intenzione di creare un nuovo meme, propone un’assurda – e disturbante – creatura ibrida, metà bimbo e metà scimmia, con la faccia di un cucciolo di cane carlino. Ecco, dopo #PuppyMonkeyBaby (questo è il nome della creatura che è diventata trend topic su Twitter) non mi sembra il caso di aggiungere altro sul Super Bowl 50. La serata si è conclusa alle quattro di notte circa e quella domenica, almeno per me, è rimasta da dimenticare.
Spot da (social) touchdown
Qualche giorno dopo, vagando sul web in cerca di conferme o smentite alla mia piccola delusione per gli spot di quest’anno, mi sono imbattuto in un interessante articolo su «Business Insider» e mi è tornato il sorriso. Il tema era un’indagine condotta dalla teck company Unruly che ha stilato una classifica rigorosa degli spot del Super Bowl più amati del social web, basandosi sul criterio del numero di condivisioni. E allora, proprio come accade nei bar di provincia, dopo aver sparlato del presente, userò lo spazio rimasto di questa rubrica per qualche piacevole ricordo del passato.
Limitandoci alle sole prime cinque posizioni, gli spot dei Super Bowl più condivisi di sempre vedono protagonisti due soli brand. Il primo è quello della birra Budweiser, da sempre ospite fisso dell’evento, che monopolizza tutte le posizioni dal quinto al secondo posto, con quattro spot che hanno fatto stragi di click e sono (in ordine crescente): Puppy Love (2014), Lost Dog (2015), Brotherhood (2013) e il commemorativo 9/11 (2002). Sono spot ad alto tasso di retorica americana. Ma sono anche storie magistralmente costruite per scatenare le emozioni e i valori più profondi di quel target. Vedono protagonisti gli iconici cavalli da lavoro scozzesi Budweiser Clydesdales insieme a un tenero cucciolo di labrador e hanno fatto impazzire gli americani. In prima posizione c’è invece il celebre spot Volkswagen The Force, quello del bambino con il costume da Darth Vader: un divertente capolavoro che è stato condiviso da quasi 6 milioni di persone su blog e piattaforme social nel mondo intero. Vedeteli o rivedeteli, ne vale sempre la pena...
Vecchie glorie
Un’ultima nota: per sua natura questa classifica è riferita all’era del social web, ma per fortuna il mondo esisteva anche prima. E non potrei davvero finire questa rubrica senza citare almeno due vecchie glorie, fra gli spot da Super Bowl divenuti famosi in un mondo senza like e condivisioni. Sto parlando, ancora una volta, di Budweiser e del suo celebre spot Wassup, che è poi divenuto un tormentone-meme e, come tale, ha continuato a propagarsi anche al tempo del web. E sto parlando di Apple e del suo epocale spot 1984, diretto da Ridley Scott e ambientato in un mondo omologato e distopico che viene salvato dall’arrivo sul mercato del personal computer Macintosh. Una pietra miliare della cinematografia pubblicitaria che, fedele allo spirito della spot competition del Super Bowl, fu trasmesso una sola volta in TV, il 22 gennaio 1984.
Detto questo, posso davvero salutarvi. Anche ora mentre scrivo è domenica, ma stavolta è stata una bella giornata di spot, da ricordare.