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 2016  marzo 26 Sabato calendario

OMBRE DI SANGUE SU ROMA NORD

Si può cogliere l’anima di un secolo osservando gli avvenimenti che accadono in un solo anno, scoprire, per esempio, che nel 1975 erano all’opera, tutte insieme, energie sociali e stili di vita nati nell’arco dell’intero Novecento. Allo stesso modo, è possibile rintracciare il carattere di quell’anno cruciale – con «esplosioni misteriose, stragi, delitti e rappresaglie» – in una sola pagina di cronaca: il delitto del Circeo. Gli autori di quel massacro, inoltre, erano cresciuti a Roma, all’ombra del quartiere Trieste, la cui sintesi, a sua volta, era l’istituto di preti San Leone Magno. Nel suo ultimo libro, La scuola cattolica (Rizzoli, pp. 1294, euro 22), Edoardo Albinati ragiona per anelli concentrici spingendo la narrazione tra le consuetudini private di alcune famiglie borghesi e gli anni di violenza politica, tessendo tra loro dettagli di urbanistica e abissi di crudeltà adolescenziale.
Se questo romanzo avesse una tesi sarebbe quella esposta a pagina 685. Nel quartiere Trieste – «discreto, silenzioso, né bello né brutto, privo dell’incanto estetico del centro di Roma come della retorica incandescente delle sue borgate» – crebbero assassini, si verificarono inseguimenti, agguati e omicidi: «arrivo a dire che i poveri morti ammazzati», scrive Albinati, «non sarebbero mai stati uccisi, mai in quel modo, davanti al Colosseo o a piazza Navona, ma nemmeno al Mandrione o a Tor Lupara». Quel ring di Roma nord, dunque, viene qui percorso e letto come lo specchio in cui vedere i perversi moventi della violenza del Circeo e brandelli della carta d’identità del ceto medio italiano.
Albinati però non propone una tesi. Indaga, esamina, rimugina, ricostruisce ambienti, riporta linguaggi e atteggiamenti perché ogni piega del reale sveli doppiezze, ogni personaggio mostri ombre e ogni gesto romantico nasconda una coltellata: «La storia centrale di questo libro confermerà che si può essere bravi studenti di giorno e rapinare e violentare minorenni la notte».
L’intuizione di partenza è che le epoche e i valori che le innervano siano incarnate in forme, materiali, cibi: il linoleum delle palestre, l’orlo dei jeans (la salopette che «non tornerà più di moda, grazie al cielo»), il Galbanino a cena, i polpettoni di carne nei ritiri spirituali. Se la morale domestica è l’essenza stessa della famiglia, «non vi è altro modo per descrivere la vita familiare che attraverso le regole che la scandiscono. Stereotipi, rituali, formule, locuzioni, interiezioni, minuziose liste di cose che si fanno e non si devono fare». Per Albinati tutto conta, tutto parla, persino «il luogo dove si ripongono gli oggetti, le pinze, il passaporto, la ginocchiera, il borotalco».
Per fornire una cornice a ciò che spinse i suoi compagni del San Leone Magno a violentare e uccidere nella villa del Circeo, Albinati ha bisogno di 1300 pagine («L’ho presa un bel po’ alla larga? Avete ragione: ma era la natura stessa del delitto a richiedere che se ne raccontassero i preliminari», scrive in uno dei tanti appelli al lettore). Snocciola gli anni di liceo, disegna professori mitici, riesuma piccole torture tra compagni e come in uno stagno osserva l’ipocrisia delle loro famiglie: «Anche gli assassini il cui delitto mi appresto a raccontare tornano a cena dai genitori. Per non farli preoccupare».
Non resta dunque che riempire le pagine letterarie di sgabuzzini (proprio questi sono l’emblema dell’inclinazione borghese: tutto un rimuovere dallo sguardo verità sgradevoli). Il delitto però squarciò quel mondo, gettò il sospetto tra i lampadari a gocce e le strade assolate, innescò il coprifuoco: «una volta entrata serpeggiando nel quartiere, quell’ombra non ne uscì più».
Albinati ha costruito un romanzo-mondo, un affresco che restituisce un panorama socioculturale vasto quanto tutta l’Italia, compiendo il miracolo di non spostare mai lo sguardo da pochi metri di vie, «palazzine, alberelli, giardinetti, balconcini, cagnolini, motorini, baretti, pensionati, impiegati».
Sesso, paura, mascolinità, violenza, denaro, desiderio di vendetta, solitudine. Non conta molto la trama in La scuola cattolica, l’attenzione è assorbita dal flusso dei pensieri che sviscerano tanti temi; non servono colpi di scena perché è il ritmo di frasi e paragrafi a tenere inchiodati i lettori (Albinati si affida ai suoni dai sui primi libri, come Maggio selvaggio). Tutto dunque monta. Vicende intime, cronaca nera e digressioni urbanistiche danno vita a un grande romanzo che individua il paradigma di un carattere universale nell’ineffabile spirito di Roma nord – una balena bianca già avvistata da molti scrittori. I confini di Roma nord sono quelli già tracciati da tanti scrittori: gli ombreggiati Parioli di Giorgio Montefoschi («un quartiere isolato e tranquillo, composto di vecchie case signorili con il giardino, strade alberate e un parco»), i benestanti Parioli di Francesco Pacifico (i suoi protagonisti si affacciavano da piazzale delle Muse vedendo i campi sportivi, il viadotto di corso Francia «la tangenziale est e tutta Roma nord»), l’Olgiata elitaria di Alessandro Piperno (la villa dei Ruben è gonfia d’edera, immersa nel «fiabesco isolamento di pini e cerri nel più britannico lotto di Roma nord»). Ma la Roma nord di Albinati è un microcosmo a sé: «Gli stessi autori del delitto di cui tratta questo libro sono sempre stati rubricati come “pariolini” malgrado nessuno di loro abitasse o provenisse dai Parioli, strano, no? e invece vivevano nel QT e collimavano piuttosto con l’identikit di quel quartiere». Il quartiere Trieste si spinge fino al quartiere Africano, dove si nascondevano gli ex fidanzati della protagonista del romanzo di Michele Mari, Rondini sul filo, strade che il narratore odia ed evita in tutti i modi: «I luoghi e le date sono come le parole, uccidono... Roma nord è per cui molto a nord, direi più a nord di Milano, è degno di nota sto fatto», per Michele Mari il quartiere Africano è «il nord magnetico», «l’acmé di ogni male».
La scuola cattolica sovrappone definitivamente la topografia alla psicologia. Qui Roma nord non è solo un luogo dello spirito, ma una zona dell’inconscio; è l’area del cervello dove risiedono onestà e ipocrisia, eleganza e frustrazione, decoro e spacconeria. È qui che i giovani terroristi di destra «pervasi dal mito dell’eroe uccidevano e si facevano uccidere o finivano all’ergastolo per difendere il futuro diritto delle signore di collina Fleming a parcheggiare in seconda fila. Hanno messo bombe nelle piazze per permettere a quelle finte bionde di fare aquagym».
Nel panorama letterario italiano l’uscita di La scuola cattolica è un evento eccezionale. La lunghezza del testo è una scommessa sulla forma romanzo; la lingua che sostiene il libro (cristallina e muscolare, con il passo e la cadenza misurate sul respiro di chi legge) è costruita su un vocabolario in cui non incombe né la tradizione né i linguaggi extraletterari e che spalanca mondi a ogni paragrafo: «C’è un tipo di casa le cui pareti sono costellate di maschere africane o nei cui angoli, profondi e tenebrosi come giungle, traboccano felci e ficus dal profumo appiccicoso. Le proprietarie sono spesso belle signore gravide di rimpianto per i paesaggi esotici da cui quegli oggetti sono stati prelevati, in omaggio alla legge estetica del dislocamento. La vita sembra stare loro stretta, e gli occhi quasi sempre azzurri o verdi, che spiccano luminosi nell’abbronzatura anche invernale, guardano oltre l’Italia, scavalcano catene montuose e oceani. La vera vita sarebbe altrove e quelle belle case lussureggianti di begonie sono in qualche misura la compensazione per avervi rinunciato. Non esiste un essere più ascetico della signora benestante. Le ipotesi alternative all’esistenza che effettivamente conducono, lussuosa ma tanto, tanto noiosa, si irradiano attorno al loro viso come un’aureola conferendogli talvolta un magico splendore. Se gli uomini della medesima classe usano comparare tra loro i successi ottenuti, le loro mogli invece vivono comparando le rispettive rinunce».