Paolo Dimalio, il Fatto Quotidiano 27/3/2016, 27 marzo 2016
“I MIEI OCCHI TRA VIP CAFONI, BIMBI SOLDATO E BERLINGUER”
[Intervista a Umberto Pizzi] –
Umberto Pizzi da Zagarolo, prima offre la frittata e il limoncello fatti in casa, poi si accomoda in salotto e racconta la sua vita. “Perché a stomaco vuoto si lavora male”, dice lui che la fame l’ha sofferta, nel dopoguerra degli anni 50. Se all’epoca gli avessero detto che il suo archivio fotografico sarebbe diventato un bene culturale nazionale, col timbro del ministero, lui non ci avrebbe mai creduto. Non poteva immaginare il suo destino, la scazzottata con Gerard Depardieu e le liti con Liz Taylor. Nel ‘55, disoccupato e squattrinato, cerca la sua strada come tutti i diciottenni. “A Zagarolo c’era fame e miseria, ma io sognavo di fare il pittore, il musicista o lo scrittore. Ero negato, così ho scoperto la fotografia. Fotografavo i bambini, il viso del mio anziano vicino, le sue rughe sembravano scolpite nel marmo”.
La carriera inizia in Medio Oriente.
Seguivo la Fao durante le campagne contro la fame nel mondo. Fotografavo poveri e derelitti, come i minatori di Zonguldak, in Turchia sul Mar Nero. Guadagnavano così poco che non riuscivano a mangiare. Sono stato in Turchia, Iran, Iraq, Giordania e Siria: c’era la fame nera.
Qual è il ricordo più forte?
I bambini guerriglieri mi scioccarono. Ma li trovai per caso. Ero ad Amman con la Fao, per immortalare il post-mortem di un cammello. Mi dissero che nei paraggi c’era un campo profughi di Al-Fatah. E lì incontrai Alì, un bimbo di 6 anni che si preparava alla guerra col kalashnikov. L’immagine di Alì la porto ancora dentro.
Poi c’è stata la Grecia dei Colonnelli, negli anni 60.
Fotografai un prigioniero politico, il musicista Mikis Theodorakis. La polizia mi inseguì, io e mia moglie li seminammo a bordo della mia Mini-Minor. Riparammo in Italia, ma i Colonnelli mi aspettarono al varco. Quando tornai in Grecia mi rinchiusero in uno scantinato di 4 mq, buio e umido, per una settimana. Dissero che ero una spia bulgara. Bah… mai stato in Bulgaria.
Il suo nome è stato accostato ai Servizi più volte.
Negli anni 90 il mio nome è finito nella lista della Mitrokhin, l’elenco degli italiani al soldo dei Servizi russi. Quando i giornali ne parlarono, temetti di non lavorare più. Invece le persone mi guardavano affascinate, manco fossi James Bond. Rosi Greco, l’ex di Alain Elkann, mi disse: ‘Non importa chi sei, per noi sei sempre Umberto Pizzi’. Qualcuno ha pensato sul serio che fossi stato reclutato dal Kgb, nome in codice Walter. Ma se fossi stato uno spione, due soldi li avrei messi da parte, o no?
Le prigioni greche non sono le uniche…
Sono stato in galera a Santa Lucia. Ero lì per fotografare Sophia Loren, lei non mi voleva tra i piedi, e il governatore dell’isola mi spedì in una gattabuia che puzzava di urina, senza cibo e solo rum da bere, per due giorni.
Come è stato il passaggio dal Medio Oriente alla dolce vita?
Grazie alla picture editor della Fao, la signorina Boots. Mi disse, ‘Umberto, sei bravo, perché non segui i paparazzi?’. Io mi buttai in quel mondo. C’era il terrorismo, gli scontri in piazza. Ma quando va male, gli italiani vogliono solo divertirsi…
Qual è il personaggio che ha fotografato più spesso?
Liz Taylor la seguivo ovunque. Mi chiamava rubber face, faccia di gomma, perché sembravo un amico ma con la macchina fotografica ero spietato. Più di una volta la beccai ubriaca fradicia. Una sera, al Brigadoon sull’Aurelia, mi chiese di ballare perché si era persa un brillocco che valeva una fortuna e io glielo avevo ritrovato. Rifiutai, ero lì per lavorare, mica per danzare con Liz Taylor.
Le liti più furiose?
Stesi Gerard Depardieu con un cazzotto. Lui era ubriaco dopo una serata al Jackie O’. Scattai una foto e lui provò a colpirmi ma mi mancò. Io invece lo presi bene. Mick Jagger invece mi ruppe la macchina fotografica, mi dovette risarcire con 1.700 sterline, con cui aprii il mio primo conto in banca.
Poi via Fani, il rapimento Moro…
Con lo scooter imboccai un paio di vie contromano e mi trovai a pochi passi dai cadaveri della scorta, camminavo sui proiettili, mentre gli altri fotografi erano lontanissimi, dietro il cordone della Polizia. Il colonnello Varisco era impazzito, ma ho sempre avuto il dono di infilarmi.
Quando inizia l’era del Cafonal?
Con Berlusconi nel ‘94. A Roma scesero i leghisti che venivano dalle montagne, urlanti, volgari, i veri cafoni. Una sera, al Gilda, un gruppo di leghisti e forzisti festeggiavano il compleanno di una collaboratrice. Tolgono la torta, la ragazza si sdraia sul tavolo e iniziano a versarle addosso lo champagne. Inizio a scattare, finisco la pellicola e dico: ‘Stop! fermate i giochi’. Cambio il rullino, batto il ciak e i politici ricominciano con lo champagne. Capii che quello era il mio lavoro: raccontare il cambiamento antropologico di una società, questo è il Cafonal.
La foto più pagata?
La scattai per caso, nella dimora veneziana dei Volpi di Misurata. Io non dovevo nemmeno esserci perché l’esclusiva ce l’aveva il fotografo americano Richard Avedon. Insultai Volpi e lui, in colpa, fece entrare me e Marcellino Radogna, detto ‘il Colonnello’ per i baffi all’insù. Alle 2 arriva Francesca Thyssen, sbronza, col fidanzato. Lui le solleva lo strascico dell’abito e lei, senza mutande, mostra il sedere. Io scattai, Avedon guardava me. Quella foto mi portò una barca di soldi…
La foto mai venduta?
Berlusconi che si tocca i suoi ‘giocattoli’ tra ministri e capi di Stato. La proposi a Franco Bechis, direttore del Tempo. Mi guardò e disse: ‘Ma che sei scemo?’.
La foto più amata?
Berlinguer tra gli operai in piazza Augusto Imperatore. Loro mangiavano il panino con l’Unità in testa a mo’ di cappello. Il segretario del Pci era piccolo, minuto, dal carisma enorme. Io amavo Berlinguer, quella foto non mi ha dato una lira, ma era la prova che quell’uomo meritava tutto il mio rispetto.
Paolo Dimalio, il Fatto Quotidiano 27/3/2016