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 2016  marzo 27 Domenica calendario

REGENI, DUE MESI DI PAROLE: LA REALPOLITIK BATTE I PROCLAMI

Sono due le espressioni che tornano più spesso tra le “dure prese di posizione” del governo sul caso Regeni, dal giorno in cui è stato ritrovato il cadavere del ricercatore ucciso in Egitto: “Niente verità di comodo” e “pretendiamo collaborazione”. Quasi come un mantra, quasi a voler ripetere ossessivamente ciò che – è ormai chiaro – non potrà mai realizzarsi. In questi due mesi dalla scomparsa (25 gennaio) e poco meno dal ritrovamento del corpo (3 febbraio), a dispetto dei proclami, degli annunci, dell’“ira” delle autorità italiane, troppe “verità di comodo” sono invece arrivate, nel goffo tentativo di depistare le indagini e l’opinione pubblica italiana e internazionale.
Un mantra, perché il governo sa benissimo di non poter fare altro, di non poter chiedere di più al governo di Al Sisi. Troppi interessi economici (l’Eni su tutti), troppe paure (il fronte dell’Isis), troppe cautele diplomatiche da mantenere. Poco hanno potuto, finora, i nostri investigatori inviati là a “collaborare” con i colleghi egiziani, che invece tutto hanno tirato fuori (persino i cinque morti dell’altro giorno, colpevoli di una “rapina” finita male) tranne che la “verità”. Nulla ha potuto il fronte diplomatico: nessun atto di forza, nessuno strappo. E nulla ha potuto, e potrà, la politica, le mani legate da troppi lacci. E infatti Matteo Renzi, che ha chiaro il quadro fin dall’inizio e che ieri ha affidato alla sua E-news l’ennesima richiesta di chiarezza, la maggior parte delle volte ha mandato avanti, a mo’ di ariete ma di gomma, il suo ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni.
“Chiediamo fermamente all’Egitto che le autorità italiane possano collaborare alle indagini, perché vogliamo che la verità emerga fino in fondo”, auspicava il titolare della Farnesina il 4 febbraio, all’indomani della scoperta di quel corpo martoriato. “Abbiamo un solo obiettivo: la verità – gli faceva eco il ministro Alfano, il giorno dopo – sono convinto che Al Sisi non si sottrarrà alla collaborazione”. Eppure già qualche ora dopo si andava delineando quello che sarebbe stato: un muro di gomma. “Siamo lontani dalla verità”, sempre Gentiloni il 6 febbraio, giorno del rientro della salma di Giulio, attesa a Fiumicino dalla famiglia e dal ministro Orlando. Non da Renzi.
La voce di Gentiloni in quei giorni sembrava un’arma spuntata. “Non ci accontenteremo di verità presunte” (8 febbraio); “Contiamo sulla possibilità che ai nostri investigatori sia consentito di collaborare pienamente” (9 febbraio); “Abbiamo reagito immediatamente con fermezza con il governo amico egiziano” (10 febbraio, davanti alle commissioni Esteri-Politiche Ue di Camera e Senato).
Renzi si è fatto sentire per la prima volta il 12 febbraio a Radio Anch’io, nove giorni dopo il ritrovamento, per quella che poteva sembrare una velata minaccia: “L’amicizia è un bene prezioso ed è possibile solo nella verità”. Quindi un’azione forte, il richiamo del nostro ambasciatore al Cairo? Assolutamente no: un simile atto avrebbe avuto conseguenze disastrose. E allora, di nuovo, Alfano e Gentiloni nei giorni successivi a ribadire la necessità della “cooperazione” e a sbattere i pugni su un tavolo inesistente: “Non accetteremo ricostruzioni facili o verità di comodo”. Lo stesso tavolo al quale, durante l’assemblea del Pd (21 febbraio) si è risieduto il premier – “Non c’è business o realpolitik che tenga, non è un optional la verità per Giulio” –, che però ha dovuto ammettere: “L’Egitto è strategico per contrastare l’Isis ed è un hub economico fondamentale”. Tradotto: chiediamo la verità, ma di più non possiamo fare.
Il 9 marzo i genitori di Regeni sono stati ricevuti al Quirinale e anche lì si sono sentiti ripetere che l’Italia farà di tutto per fare luce. L’unica cosa ottenuta in quei giorni è stato l’assenso all’invio in Egitto del procuratore capo di Roma, Pignatone, trasferta che sembrava andare nel segno di quella “collaborazione” tanto auspicata. È sotto gli occhi di tutti che non è così, o almeno finora non lo è stato, contrariamente a quanto “assicurato” dallo stesso presidente Al Sisi nelle due interviste concesse a Repubblica il 16 e 17 marzo: “Non ci fermeremo finché non sarà stata raggiunta la verità” anche se – per Al Sisi – “l’obiettivo è colpire l’economia egiziana e isolare il Paese”. Le relazioni vanno mantenute a livello bilaterale: siamo importanti per l’Egitto anche più di quanto l’Egitto lo sia per noi.
Il tormentone governativo, dicevamo, è tornato ieri: “L’Italia non si accontenterà di nessuna verità di comodo – ha scritto Renzi sulla E-news –. Consideriamo un passo in avanti importante il fatto che le autorità egiziane abbiano accettato di collaborare e che i magistrati locali siano in coordinamento con i nostri, guidati da una figura autorevolissima come il procuratore di Roma Pignatone”.
La parola mantra nasce dall’unione dei termini sanscriti manas cioè mente e trayati che vuol dire liberare. Ecco: liberare la mente serve anche a non cercare “verità” scomode.
Silvia D’Onghia, il Fatto Quotidiano 27/3/2016