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 2016  marzo 25 Venerdì calendario

INTERVISTA A EUGENIO BORGNA

E’ il cantore delle fragilità umane. Il paladino della debolezza adolescenziale. Il difensore strenuo del disagio mentale. Eugenio Borgna, 85 anni, psichiatra, mi accoglie con passo lento nella sua casa di Novara. Libri alle pareti, uno spartito originale di Ennio Morricone sul tavolo del salotto. Lui ha una lieve cadenza piemontese e modi gentili, accoglienti. Ha studiato per sessant’anni le ferite dell’anima, il dolore e le sofferenze dei suoi pazienti e non ha mai abbandonato la parte della barricata che oppone la parola all’uso dell’elettroshock o dei farmaci “un tanto al chilo”. Dice: «Non sono uno psichiatra robot che passa attraverso le fiamme della vita con tranquillità». Racconta con garbo un breve periodo di depressione: «Mi sono auto-curato». E si accende quando chiacchierando trova una formula sintetica per descrivere l’opera di Simone Weil su cui ha appena scritto il volume L’indicibile tenerezza (Feltrinelli): «È il ritrovare in un essere umano che racconta le proprie sofferenze, quelle di tutti».
Tra testi scientifici e divulgativi ha sfornato più di venti opere: adolescenza, malinconia, amore tragico… Spiega: «I pazienti considerati matti, i bipolari, gli schizofrenici… rappresentano circa l’1,5% della popolazione. Il 25%, invece, soffre di depressione, di diverse forme d’angoscia, di ansia o di malattie psicosomatiche». Chiedo: «Sono così frequenti i problemi mentali?». Replica secca: «Certo». Uno dei punti centrali del Borgna-pensiero è il tempo. Quello da usare per l’ascolto, da concedere a chi sta male, da dedicare all’educazione delle giovani generazioni.
Educazione. Per prepararli alla concorrenza globalizzata, oggi ai bambini sono richiesti voti ottimi sin da quando vanno alle elementari e performance eccellenti.
«E così si rischia di far danni. L’ho scritto. Lo dico nel deserto, inascoltato».
Danni?
«Certo. Molte delle défaillance scolastiche dei bambini nascono dalla timidezza e dalla fragilità, che in realtà sono grandi doti, ma finiscono per essere dilatate e drammatizzate da chi non le comprende. Una caratteristica positiva può essere trasformata in una drammatica auto-distruttività. Si prende in considerazione solo la performance, il bambino-ragazzo è da subito ipervalutato, ultrapremiato. L’insegnante e il maestro, quando esagerano, si trasformano in agenti patogeni, causano sofferenze evitabili».
Meno studio e meno esami per tutti?
«No. Ma di fronte alla fragilità di un bambino non posso imporre un significato della vita tutto incentrato sulla prestazione, sulla riuscita e sul successo. Anche perché quando poi arriva un insuccesso, una sconfitta, dovuta magari a un fattore esterno, si rischia il crollo. Quel che dovrebbe essere chiaro è che spesso le connessioni tra modelli sociali e ricadute psicologiche è strettissimo».
Mi fa un esempio?
«Negli Stati Uniti la paura delle conseguenze della iperattività e del deficit di attenzione ha portato alla diffusione dell’utilizzo del Ritalin per i ragazzi. Non è facile resistere alla pressione sociale e a quella pubblicitaria. Anche i medici sono in difficoltà. Il problema è sempre pensare che la semplice somministrazione del farmaco risolva tutti i problemi. Perché non fa perdere tempo: è più facile dare una pasticca a un bambino piuttosto che ascoltarlo e giocarci. Lo stesso discorso si può applicare ai malati psichiatrici».
Si preferisce impasticcarli piuttosto che ascoltarli?
«Esatto. Il tempo di cui il paziente ha bisogno per essere compreso, interpretato e curato, si scontra con il tempo dei medici e dei familiari. Loro pensano al farmaco come a un bisturi e cercano di sbrigare subito la faccenda. Come se l’ansia, la depressione e l’angoscia equivalessero a una appendice infiammata che il chirurgo asporta con un taglietto».
Lei non è un fan degli psicofarmaci.
«Sono indispensabili in alcuni casi, ma non in tutti come si tende a pensare oggi. Serve anche la parola che tolga le ombre, che sciolga le ansie. Serve per comprendere la sofferenza. Gli psicofarmaci non sono come gli antibiotici che agiscono indipendentemente dal consenso del paziente. Ed è un’illusione che il paziente guarisca più rapidamente ricevendo dosi maggiori o mix di farmaci».
Di nuovo il tempo, la fretta…
«Il tempo non dovrebbe essere percepito come moneta di scambio, ma come occasione per ascoltare. A proposito di tempo: ci sono cliniche universitarie in cui vengono ancora praticati gli elettroshock».
In Italia?
«Sì. In anestesia generale. Non costa, non c’è bisogno di assistenza, si fa in fretta… Io la considero una pratica intollerabile. Non l’ho mai usata e non ho mai permesso che un mio paziente vi fosse sottoposto».
Pratiche intollerabili. Sono state scovate strutture dove i malati psichici venivano legati e maltrattati.
«La formazione dei medici e degli infermieri oggi non è sempre adeguata. Si assumono quelli risoluti e tecnicamente più preparati».
Le pare sbagliato?
«Le persone migliori per un ospedale psichiatrico sono quelle fragili, che abbiano qualche insicurezza. Un medico che conosce la fragilità non aggredirà mai un paziente e cercherà di comprenderne i problemi».
Lei esalta le fragilità, il “tempo lento” e le debolezze umane. Ma siamo nell’era della velocità, dei tweet e del cinismo spinto. Non c’è spazio per questo buonismo mieloso.
«È vero. Oggi il tempo deve essere usato per produrre qualcosa, non per ascoltare. Il dialogo si è trasformato in rapido scambio di sms. Sguardi, pause, silenzi sono considerati superflui. La comunità è ferita. Travolta dalla corsa individualistica, narcisistica, egoistica. L’“altro”, soprattutto se debole viene messo ai margini, respinto o nascosto. Oggi persino la fragilità di Aldo Moro e di Enrico Berlinguer non verrebbero accettate. E così si perderebbero le altezze vertiginose del loro spessore politico e umano”.
Frequenta ancora i malati psichici?
«Sì. Avendo diretto per diciassette anni un ospedale psichiatrico femminile ho soprattutto pazienti donne».
C’è una differenza tra pazienti maschi e pazienti femmine?
«Le donne sentono più acuto il desiderio di capire qualcosa di sé. Una donna dopo aver tentato un suicidio di solito chiede aiuto, l’uomo anche per un motivo nobile come la vergogna, tende a non rivolgersi a un medico e ripete il tentativo».
Da quando ha cominciato, sessanta anni fa, le patologie psichiatriche sono cambiate?
«Le ferite dell’anima sono sempre le stesse. A causa di una tendenza esasperata degli americani si sono moltiplicate le denominazioni e le diagnosi. C’è chi sostiene che questo avvenga per rendere più giustificata l’applicazione di psicofarmaci selezionati».
Lei come si è avvicinato alla psichiatria?
«Mio padre era avvocato, ma non voleva che seguissi la sua carriera».
Perché?
«Pensava che ci sarebbe stata un’altra guerra e che un medico sarebbe stato più utile. Dopo sei anni di università sono entrato in una grande clinica neurologica a Milano per occuparmi di disturbi del cervello. Nel piccolo reparto di psichiatria uno degli assistenti era Gillo Dorfles».
Dorfles, il critico d’arte?
«Sì, lui. Capii presto che non eccellendo nelle discipline matematiche e tecnologiche non avrei combinato molto nel settore neurologico e in più la psichiatria mi sembrava una specialità medica non lontana dall’aspirazione originaria che era quella di fare l’avvocato».
Che cosa hanno in comune avvocati e psichiatri?
«La parola e l’ascolto. Quando se ne presentò l’occasione, nello stupore generale, lasciai Milano e tornai a Novara per entrare nell’ospedale psichiatrico».
A che cosa era dovuto lo stupore?
«Chi finiva a lavorare in manicomio era considerato un medico fallito. A Genova e a Milano c’erano migliaia di pazienti in condizioni disperate. Erano fosse di serpenti. A Novara, nel reparto femminile dove andai io, la situazione era meno drammatica».
Qual è l’errore più grande che ha fatto?
«Non aver accolto alcuni consigli di un collega. Se lo avessi ascoltato negli anni Ottanta non sarei stato bocciato a un concorso per la cattedra in Psichiatria».
Lei ha un clan di amici?
«A Milano e a Borgomanero. Ne cito due: Alberto, psichiatra, e Carlo, informatico».
Che cosa guarda in tv?
«Non guardo la tivù».
Il film preferito?
«Il posto delle fragole di Ingmar Bergman».
La canzone?
«Il mio compositore preferito è Franz Schubert».
Il libro?
«I quaderni di Malte Laurids Brigge di Rainer Maria Rilke».
Lei fa la spesa?
«No».
Conosce l’articolo 3 della Costituzione?
«No».
Sa quali sono i confini della Libia?
«Vagamente. L’Egitto…».
Scrive al computer, con la macchina per scrivere o a penna?
«A penna, con una stilografica, scrivo solo le lettere più personali. Per i libri uso il computer. In pratica senza mai correggere».
A cena col nemico?
«Con uno di quelli che non danno alla vita psichica deragliata alcuna significazione umana. Non faccio nomi, ma non sono pochi i medici psichiatrici che considerano la sofferenza umana un sintomo da estirpare come se fosse un meningioma. Sono quelli che hanno tutte le certezze in tasca».
È sbagliato che un medico abbia certezze?
«Guai. In psichiatria solo chi sta male e impazzisce detiene la chiave segreta del proprio dolore».