varie 26/3/2016, 26 marzo 2016
ARTICOLI IN MORTE DI PAOLO POLI
MAURIZIO PORRO, IL CORRIERE DELLA SERA –
Difficile credere che non ci sia più Paolo Poli, morto ieri sera a 86 anni (fiorentinissimo, vi era nato il 23 maggio 1929) in un ospedale di Roma, dove era stato ricoverato qualche tempo fa in seguito a un ictus che l’ha spento poco a poco.
L’estate scorsa su Rai3 ci aveva deliziato raccontandoci, complice Boccaccio, i peccati capitali con un perfetto Massimo Recalcati nella parte di Freud-Lacan. Difficile immaginare Paoli Poli spegnersi, senza ribattere, senza protestare, senza una poesia, una battuta, un verso, una mossa vintage, una filastrocca, una boccaccia, una sfrontatezza, un sorriso, una malizia. Tutto quel repertorio che l’aveva reso insomma Paolo Poli, inconfrontabile pezzo unico: un uomo intelligente e colto, straordinario nell’impastare cultura alta e bassa, figlio di carabiniere e di una maestra, laureato con una tesi su Henry Becque.
Aveva iniziato facendo il supplente a scuola, quasi coevo dei ragazzi, poi la comparsa per caso (lo aiutò l’amico Zeffirelli), pure un fotoromanzo, la radio, lo sciancato nelle Due orfanelle al cinema e infine la scalata al teatro. Che non era ancora il «suo» teatro, da cui si era ufficialmente ritirato un anno fa senza fare annunci, dopo decenni vagabondi in cui non mancò una recita né un travestimento, puntuale, rigoroso: era la Borsa di Arlecchino di Aldo Trionfo che lo lanciò. Spese la vita in teatro, disse di no perfino a 8?di Fellini . Ma per fondare una compagnia ci vogliono soldi ed arriva la fata di un liquoroso Carosello con cui Poli corona il sogno e inizia il suo infinito girovagare per l’Italia riscoprendo, divulgando e finemente ironizzando sulle opere e i giorni dei letterati, capovolgendo i banchi di scuola.
Fu il primo, solo se richiesto, a dichiararsi omosessuale senza tralasciare aneddoti anche conto terzi, a scherzare con tutti al femminile, primo a recitare en travesti , a far la burletta: Paolo fu una nessuna e centomila sante ed eroine, madri devote o sfacciate peccatrici, sciantose o zitelle, non per far ridere ma per quell’estremo kitsch con cui agguantava la contemporaneità e l’eternità del «corpo» teatrale.
Ogni cosa allora era scandalo, sia che mettesse in locandina Marinetti, Swift o Gozzano, ma quando portava ancora lo smoking e gli abiti maschili il suo bellissimo volto diventò popolarissimo in tv, nel regno di bambini cui raccontava fiabe con delizia, in trasmissioni cult di gran spirito, con Umberto Eco, con l’amica Laura Betti, una «Canzonissima» con la Mondaini, operette, una riduzione dei Moschettieri (con la sorella Lucia, la Vukotich, Marco Messeri), un Viaggio a Goldonia con Gregoretti, sempre andata e ritorno nella Italietta a cavallo tra 800 e 900, colpendo al cuore il piccolo borghese in ogni sua meschinità e ipocrisia.
In teatro, solo o molto ben accompagnato da cinque fedelissimi e dai fondalini magnifici di Lele Luzzati che erano ormai uno specchio, Poli si divertì pazzamente a rovistare nel passato, a rievocare tempi del tabarin, a ironizzare sulla vita di Santa Rita da Cascia: fu fra i pochi a subire la censura che proibì lo spettacolo per oltraggio alla religione, all’Odeon di Milano, laggiù nel ’67. Ma prima recitò Il candelaio , Il diavolo con la Monti (e la regìa occulta di Pippo Crivelli che lo seguiva dal Novellino), fu irresistibile mamma nei panni edipici della Nemica di Niccodemi, raccogliendo sotto titoli ghiotti come Vispa Teresa , Carolina Invernizio , Mezzacoda , L’asino d’oro , I viaggi di Gulliver quegli scampoli di cultura che per primo rese trasversali con la musica, le canzoni e la danza, con collaboratrici come Jacqueline Perrotin, Claudia Lawrence, Ida Omboni, Pino Strabioli e la sorella quasi gemella Lucia con cui fece ditta per qualche stagione di «femminilità». Il marchio era il bricolage, star sempre l’amata canzonetta, anche sanremese, ma amava i francesi e per un anno si dedicò a Raymond Queneau; poi negli ultimi tempi, sempre ricalcando uno schema, allestì show sugli scritti della Ortese e l’ultimo fu su Pascoli, preda perfetta dei suoi strali. Filippo Crivelli lo voleva come ospite d’onore del nuovo Gerolamo che si riapre a Milano, dove lui era stato un principe. Ci prometta almeno una poesia e non ci venga a raccontare dall’aldilà che non aveva calcolato di morire proprio la sera del venerdì Santo.
Maurizio Porro
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ANNA BANDETTINI, LA REPUBBLICA –
Diceva che ormai gli piaceva passare le giornate a casa, a leggere. «Alla mia età non vedo l’ora di morire», aveva dichiarato in un’intervista lo scorso inverno. Ma non era per disperazione che parlava: la sua era ironia, segno che il suo temperamento intelligente, caustico, intransigente era sempre quello. «Il fumo uccide? Ho ricominciato a fumare. Non ho nessuna paura della morte: quando arriva non ci sono più io, come sentenziavano i greci che avevano capito tutto».
Paolo Poli è morto ieri a 86 anni, e con lui se n’è andato uno degli attori più colti, intelligenti e unici. La sua salute non era più così ferma, ma perfino lo scorso gennaio quando a Firenze la città dove era nato nel ’29 aveva riaperto il Teatro Niccolini lui era lì, bello dritto, alto, elegante come sempre a ironizzare sui giochi d’infanzia e fare battute al veleno sui colleghi, come era nel suo spirito libero, illuminista.
Da un paio di stagioni aveva lasciato il teatro che era stato il luogo della sua arte, dove aveva più lavorato e dove più si era espresso e dove ha lasciato spettacoli memorabili: col gusto del teatro all’antica, dei travestimenti, dei fondalini di carta (spesso disegnati dall’amico Emanuele Luzzati) ma con testi che erano un misto di ironia e melò mescolati con un gusto della cultura e dell’arte unici: storie lacrimose e stantie diventavano con lui autentici capolavori grazie alla sua eleganza e alla verve comica. Aldino mi cali un filino, il bellissimo e feroce ritratto di Caterina De’ Medici, L’asino d’oro, I viaggi di Gulliver, La leggenda di San Gregorio, Il coturno e la ciabatta, La nemica di Dario Niccodemi che fu un grande successo ma mai quanto il suo capolavoro Rita da Cascia, che girando in modo irriverente e birichina la storia della santa si procurò le ire della chiesa e una reprimenda di Oscar Luigi Scalfaro che fece un’interrogazione parlamentare. Tra i lavori recenti ci fu il divertente Sillabario dal libro di Parise e Aquiloni di fatto l’ultimo spettacolo, quello con cui nella stagione 21014-2015 si fermò. «Non ci sono più soldi, io ho crediti in molti teatri, finché non arrivano i soldi chi me lo fa fare?». Ma aveva registrato per una serie di audiolibri le ricette dell’Artusi che con la sua voce diventano una piccola opera d’arte.
Pochi attori come Paolo Poli conoscevano a memoria una vastità di poesie, pezzi di romanzi. «La mia dote migliore? È la memoria ». Una cultura enorme che riversava nel lavoro e nei racconti di vita spesso esagerati, romanzati ma molti anche veri. Poli veniva da una famiglia fiorentina modesta, con tanti figli (Lucia sua sorella quella che più gli assomiglia è anche lei attrice): «La famiglia va presa a piccole dosi» era uno dei suoi motti. Paolo, si dice, fosse il più bello. Sveglio, appassionato di letture fin da piccolo, si laurea in letteratura francese (con una tesi su Henry Becque) e si trasferisce a Roma grazie alla conoscenza di Zeffirelli prima e Bolognini poi. Ma il cinema non gli piace («Lì anche se sei Lassie puoi recitare», scherzava) e infatti non ne fa molto. Inizia subito nel teatro, forse anche perché nell’Italietta del dopoguerra non è facile essere troppo esposti se si è artisti e omosessuali. Il teatro è lo spazio della libertà, e conosciuto Aldo Trionfo, Poli va a recitare alla Borsa di Arlecchino di Genova, piccolo teatro d’avanguardia, dove presenta i suoi sketch surreali, animati di calembour, salti logici...
Negli anni Sessanta la Rai gli apre le porte: legge favole per bambini tratte da Esopo (letture rimaste leggendarie): «Le favole sono spaventose e devono far paura». Ma anche l’esperienza in Rai ha breve durata: una censura non detta lo tiene lontano dal piccolo schermo, poco dopo il divertente sceneggiato I tre moschettieri (con Marco Messeri, Milena Vukotic e Lucia Poli) e poi una partecipazione a Canzonissima. C’era ritornato lo scorso giugno con E lasciatemi divertire dove con Pino Strabioli aveva ripercorso il suo repertorio.
Il lavoro non gli mancava: «Non ho la decadenza dolorosa come ha avuto Gassmann – diceva – e il palcoscenico non mi manca. Non ci vado nemmeno da spettatore a teatro. Che vado a vedere? Un Malato immaginario magari con la pistola e gli stivaletti da cowboy? Per carità». Diceva di sé di essere un uomo che preferiva il peccato alla bontà. E il gay center lo ha ricordato ieri «come un simbolo di libertà, uno spirito libero anche quando l’omosessualità era considerata tabù». Specie negli ultimi anni parlava molto liberamente della sua omosessualità. «Non l’ho mai nascosta io, mentre i miei compagni di scuola sono tutti sposati ma poi li vedi alla stazione in cerca di ragazzi », ironizzava, dando ragione a quelli che lo definivano “un lupo in pelle di agnello”, secondo le parole della cara amica Ginzburg. Di molti Poli diceva: «Gli amici? Mi vogliono bene, tutti, perché mi faccio vedere poco».
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ROBERTO INCERTI, LA REPUBBLICA –
Era nato nel 1929 ed era cresciuto nella zona dell’ospedale di Careggi. Assieme alle sorelle Lucia, Laura e Ave teneva spettacoli in casa, colte parodie shakespeariane. Il successo arriva negli anni Sessanta, ma fin dai primi passi Paoli Poli s’inventa un genere tutto suo: riscrivere i testi in chiave ironica. Fu il primo in Italia a fare un teatro en travesti.
Ma con Firenze ha sempre avuto un rapporto di amore e odio: abitava a Roma, in via del Governo Vecchio, in una casa bellissima, piena di scenografie di Lele Luzzati. Ma i legami con Firenze non li ruppe mai: negli anni Ottanta faceva spettacoli al Rondò di Bacco, un teatrino nell’ala destra di Palazzo Pitti. Due titoli per tutti: Giallo e Rita da Cascia.
Quest’ultimo ebbe censure, fu considerato uno spettacolo scandalo. E lui spiegava: «Io non volevo creare uno scandalo, volevo rendere omaggio ad una forma d’arte che era il teatro parrocchiale». A Firenze la sua seconda casa è stata per tutti gli anni Novanta il teatro Niccolini: qui è stato protagonista di spettacoli memorabili come Paradosso e Cane e gatto, assieme alla sorella Lucia. Una volta durante Mezza coda al Niccolini ci fu un black-out e lui continuò a recitare come se niente fosse: dopo venti minuti, tornata la luce, disse solo al pubblico: «Se non lo avete capito, non era un trucco teatrale». L’ultima apparizione a Firenze e l’ultimo spettacolo della sua carriera è stato l’8 gennaio scorso, inaugurando la nuova vita del “suo” Niccolini, raccontando gli aneddotti della sua vita di attore. Dopo lo spettacolo, a cena, l’attore ne raccontò uno che coinvolgeva Riccardo Muti: «Eravamo a tavola e gli chiesi: “Perché uno bello come te, si tinge i capelli?”. Muti si alzò in piedi, si tirò giù i pantaloni e disse: “Guarda, non me li tingo”». Questo era Paolo Poli, il più grande attore italiano a saper contaminare la cultura alta con quella bassa: Landolfi con Carolina Invernizio, il melodramma con Landolfi.
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RODOLFO DI GIAMMARCO, LA REPUBBLICA –
Franca Valeri è stata sempre l’artista più vicina allo spirito, alla verve, all’anticonformismo di Paolo Poli.
Qual è la sua reazione alla scomparsa di un collega così familiare?
«È impossibile, questa notizia. Sono sconvolta. Mi sembra incredibile che di colpo non ci sia più quella vitalità di Paolo di cui abbiamo goduto tutti. Lui era una vera gioia, una gioia che spesso manca nel teatro».
In che consisteva la vostra affinità?
«Nei suoi spettacoli e in molti dei miei non c’è mai stato verismo, realismo. Vedevamo tutto sarcasticamente, ma poi abbiamo sempre fatto humour con un certo amore. Creavamo figure ridicole ma adorate, cui si voleva bene».
E lui, Poli, in cosa s’è soprattutto distinto?
«Ma lui è stato unico. Non ci sarà mai più un altro Poli. Ha sempre portato alla grande le sue origini fiorentine sulla scena, con una voce unica, una fisionomia invariabilmente uguale, giovane».
Vi incontravate, vi frequentavate?
«Pensi che l’ho conosciuto fin da quando cominciai a fare il teatro delle mie origini, all’inizio dei Cinquanta, e Paolo era un bel ragazzone all’incirca ventenne. Poi ci siamo incrociati tante volte. Il suo genere m’attraeva sempre e comunque. E io avevo la fortuna della sua ammirazione ».
Anche se il vostro repertorio non era esattamente lo stesso...
«Ma certo. Lui creava più clamore, non aveva freni. Io ero e sono una donna... Ma la spinta dell’ironia, con qualche naturale differenza, si faceva sentire e come. Che dolore, perdere un amico così».
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MASOLINO D’AMICO, LA STAMPA –
E allora non ci chiederemo più come sarà Paolo Poli da vecchio. Di Giannino Stoppani era possibile immaginarsi, prima o poi, il raggiungimento dell’età della ragione e del conformismo; persino su quel mito fondamentale del tempo moderno, Peter Pan, si possono avanzare delle riserve (nell’adolescenza protratta a ogni costo c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato. È innaturale).
Ma malgrado il suo fisico rimasto agile e asciutto, Paolo Poli, nato nel 1929, in arte dagli Anni Cinquanta, non era un ragazzino rimasto tale a dispetto dell’anagrafe. Era stato semmai da subito un adulto precocissimo, che proprio per questo non si sarebbe poi mai nemmeno avvicinato al tramonto.
Nato «imparato»
Personalmente colto, artisticamente preparato, attore nel pieno possesso dei suoi mezzi fino dagli esordi - non c’è bisogno di dirlo - nacque, per un ulteriore verso, «imparato». Ossia trovò immediatamente una sua personalissima cifra espressiva che non ebbe mai più bisogno di cambiare, e che lo avrebbe accompagnato durante una carriera dalla durata leggendaria, deliziando più generazioni di spettatori. Fu dall’inizio un innovatore; ma a differenza di tanti altri innovatori, che aspettano a lungo prima di essere compresi, coniugò sempre la sua carica innovativa e provocatrice con una giocosità leggera e irresistibilmente piacevole.
Fu il discolo che dissacra le convinzioni di mamma e papà, e che sbeffeggia i santini venerati dalla zia; ma lo fece sempre con una grazia così contagiosa, da non trovare opposizione se non da parte degli spiriti più impervi all’umorismo, quelli per definizione destinati a fare la parte, perdente, del guastafeste. Meraviglioso quando si travestiva da donna, Paolo Poli non prendeva in giro la donna in quanto tale, ma la superdiva, la fatalona, ossia la femmina divoratrice inventata ad uso e consumo dell’altro sesso (e naturalmente deliziata del proprio personaggio). Quando metteva in burletta Santa Rita da Cascia, scandalizzando il futuro Presidente Scalfaro, non ce l’aveva con la religione, ma con la sua banalizzazione, con la sua riduzione a ingenua superstizione piccoloborghese.
Rispettando un appuntamento annuale con spettatori fedelissimi, alla testa di una compagnia di ragazzi dalle facce patibolari che vestiva da ballerine o da monache, si ripresentò stagione dopo stagione con spettacoli di cui era autore, regista e coreografo - spesso avvalendosi delle geniali, spiritosissime scenografie dipinte da Lele Luzzati - nei quali dissacrava metodicamente tutta la falsa retorica della nostra Italietta melodrammatica - Carolina Invernizio, la vispa Teresa, «Rosmunda» dell’Alfieri, Giovanni Pascoli, e chi più ne ha più ne metta. Appena meno convincente era quando, invece di prendere sacrosantamente in giro un falso mito, si convinceva di segnalare qualcosa di congeniale - Palazzeschi, Parise, la Ortese, Diderot.
Funzionava, ma lui era soprattutto demolitore - delicato quanto malignetto. La sua verve, la sua eleganza, il suo charme restavano comunque invariati, e il suo caso di attore-autore-manager di se stesso rimane senza confronti, e non solo in Italia. Della quale Italia Paolo Poli, certo anche in virtù del suo essere fiorentino, e quindi di appartenere a una genia che non si sente mai seconda a nessuno, fu dunque durante più di mezzo secolo uno degli artisti che sarebbe più difficile definire provinciale. Nel suo imporsi dei limiti precisi, fu sempre serenamente in anticipo su tutto, compresa la cosiddetta emancipazione sessuale, e mai con l’aria di sfidare qualcuno o di combattere una battaglia.
Aveva la sorridente naturalezza di chi «sa» di essere dalla parte giusta, ossia, alla fine, di quella del buonsenso; e la sua era l’allegria insopprimibile del discolo che ride dell’imperatore nudo, ben sapendo che quello non gli può rispondere.
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GOFFREDO FOFI, IL SOLE 24 ORE –
Scompare con Paolo Poli uno dei grandi nomi dello spettacolo italiano, non noto e non celebrato in vita quanto avrebbe meritato, la cui bravura e la cui importanza (anche nella storia del costume) andranno considerate oltre il non piccolo numero dei suoi ammiratori. Autore attore regista dei propri spettacoli, mai smanioso di successo, si fece conoscere nel vivace mondo del cabaret e dei teatrini degli anni sessanta, dalla sua Firenze a Milano e a Roma, recuperando un repertorio di canzonette degli anni del fascismo che, debitamente straniate e smontate dal di dentro, rivelate nella loro stupidità, erano in realtà delle letture critiche delle mitologie piccolo-borghesi, così come i suoi testi teatrali (memorabile la sua Rita da Cascia, ma anche la sua personale versione di un fumettone, La nemica, che aveva fatto piangere migliaia di italiani ed era ancora rappresentata con successo strappando lacrime e applausi negli anni del secondo dopoguerra) ne aggredivano le retoriche mammiste e nazionaliste. I suoi riferimenti erano chiari: la rivista, i fini dicitori, gli umoristi alla Novello, e il teatro, che fece in tempo ad ammirare, dell’ultima compagnia di grandi guitti di tradizione ottocentesca, la D’Origlia-Palmi amatissima anche da Carmelo Bene. Erano gli anni d’oro del teatro di rivista, quando ne nacque anche una versione più povera e intellettuale di cui furono protagonisti, non lontani da lui, Fo, Durano e Franco Parenti con il loro Dito nell’occhio.
Estraneo ad ambizioni di critica sociale come alla satira immediatamente politica, Poli coltivò una sua originalità e una sua libertà (talvolta affiancato dalla sorella Lucia, brava quanto lui), sapendo accortamente dove fermarsi, senza mai ambire a diventare famoso alla pari dei suoi coetanei del teatro e del cinema comico, i Gassman e i Sordi, i Tognazzi e, appunto, i Fo. Tranquillamente contento del proprio spazio e del proprio pubblico, evitò le grandi sale e i grandi numeri sapendo di aver bisogno di una complicità e di una vicinanza di pochi per la sua comicità allusiva, coinvolgente, spiritosa, sottilmente provocatoria ma allo stesso tempo rispettosa, perché piuttosto sussurrata che gridata.
Non era adatto alla commedia all’italiana, ma neanche alla tv, e fu piuttosto la radio che, quando essa osò servirsene, si rivelò un mezzo adatto alla sua misura. Campione di un laicismo di fatto, non dimenticò le sue origini toscane, praticandone quel tanto di tradizione popolare anche talora bassa, da pievano Arlotto o da Bertoldo e Bertoldino, senza mai eccedere, ma spesso con una sotterranea e latente cattiveria e spavalderia infantili, da Lucignolo più che da Pinocchio.
Ha lasciato qualche libro e qualche disco, qualche registrazione di spettacoli frequentati da un pubblico affezionato che aveva saputo far diventare suo complice, come un genietto molto malizioso, più asessuato che definito, che si fosse assunto il compito di divertirlo ricordandogli con una provocatoria sottigliezza, mai plateale, i rischi del conformismo, sempre in agguato, e del pregiudizio sociale, religioso, culturale. Mai dannunziano e mai tribunesco, mai rozzo ma neanche cacciatore del sublime, sempre vitalmente, genialmente maestro di humour, ci ha mostrato il risibile di una cultura che, pur modificandosi e fingendosi libera, rimaneva irrimediabilmente bigotta, e oggi solo diversamente bigotta.
Goffredo Fofi
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LEONARDO JATTARELLI, IL MESSAGGERO –
Non è irriverente scrivere “C’era una volta...” Paolo Poli. Perché il grande attore multiscenico e multiculturale, multiforme, leggiadro e spaventato, cattivo, pungente e garbato, se n’è andato ieri sera nella sua casa romana lasciando in tutti noi un’ultima pagina mancante nelle favole che tanto amava e ci ha fatto amare. Chi ricorda le sue fiabe narrate in radio e sul vinile negli anni Sessanta aveva già capito tutto della sua grande arte, sempre lieve e allo stesso tempo profondamente impegnata, istrionicamente altalenante tra Beckett e Genet, Nicolaj e Palazzeschi, Satie e Niccodemi, Diderot e Parise. Avrebbe compiuto 87 anni a maggio. «Con Paolo Poli scompare un grande della cultura italiana» lo ha ricordato così il premier Matteo Renzi mentre il sindaco di Firenze, Nardella ha twittato: «Un’artista versatile e libero».
CARRIERA
Una lunga, straordinaria carriera quella di Paolo Poli, non solo per la scena ma anche per cinema e televisione. Nato a Firenze il 23 maggio del 1929, laureato in Letteratura francese, cominciò a lavorare in teatro negli anni ’50. Nel ’49 partecipa ad alcune trasmissioni della Rai di Firenze e dà voce a dame e cavalieri, a pricipesse e nani malefici con la sua voce indefinibile, bambina e orca. Maestro di lazzi e sberleffi, brillante con malinconia e malinconicamente adulto, Paolo Poli con la sua vocina stridula che regalò anche a Pinocchio è stato giocoso nei suoi famosi en travestì, surreale e sentimentale. Da giovanissimo entrò a far parte, a Genova, della “Borsa di Arlecchino” fondata da Aldo Trionfo. Il suo primo momento di vera gloria con “Santa Rita da Cascia” nel 1967: scandalizzò e venne accusato di vilipendio alla religione.
Non nasconde la sua omosessualità Paolo Poli, e questo gli dà modo di esprimersi liberamente nei numerosi testi scritti in compagnia di Ida Ombroni passando da Carolina Invernizio a la Vispa Teresa a Savinio e Queneau. Nel ’69 propone La nemica di Niccodemi con una compagnia en travestì di soli uomini. E mentre continua a lavorare anche per la televisione (famosi i suoi Tre moschettieri recitati con sua sorella, Lucia Poli e con Marco Messeri), Poli porta in scena Fogazzaro e le Farfalle di Gozzano, l’Asino d’oro di Apuleio negli anni Novanta e ancora Caterina De Medici dalla Reine Margot di Dumas. Nel giungo scorso in tv tornò su Raitre con E lasciatemi divertire, otto puntate insieme all’amico attore Pino Strabioli, sui vizi capitali rivisitati a modo suo: «Il mio peccato preferito? La superbia. Quello che non sopporto, invece, è l’accidia». Annunciò poi il suo addio alle scene a modo suo, con aria tristemente sorridente: «Sono felice di non fare nulla - disse - La vecchiaia è bella per questo. Ci si raccoglie, ci si chiude nella tana, nelle proprie letture». Ma il 7 gennaio scorso si esibì nella sua Firenze per l’inaugurazione, dopo il restauro, del Teatro Niccolini. Fu una grande festa. E a chi gli chiese se quella serata segnasse un suo ritorno a casa, rispose: «Ma quale ritorno a casa. Spero di morire all’estero, come Dante Alighieri».
Una girandola di slanci e silenzi l’arte di Poli che tornava sempre, immancabilmente all’infanzia, soprattutto quando parlava della vita e della sua vita: «Senza peccato si muore di sbadigli e non accade niente. La storia in fondo è iniziata così. Basti pensare a Pinocchio. Quel genio di Collodi mise in ogni capitolo uno spavento, un cattivone, un consiglio morale e delle risate». Aveva detto bene di lui Natalia Ginzburg: «Fra i molteplici volti nascosti di Poli c’è essenzialmente quello di un soave, ben educato e diabolico genio del male: è un lupo in pelli d’agnello».
Leonardo Jattarelli