Valentina Giannella e Lucia E. Maruzzelli, Sette 25/3/2016, 25 marzo 2016
NOI MIGRANTI ITALIANI CHE ABBIAMO FATTO GRANDE L’AUSTRALIA
Tra le strade di Melbourne, la città più vivibile al mondo secondo il settimanale The Economist, la lingua che si sente parlare maggiormente, oltre all’inglese, è l’italiano. Lo raccogli ai tavolini dei caffè sulla spiaggia di St. Kilda, il lungomare déco. Lo trovi tra i commenti di un gruppo di cinquantenni all’uscita di un teatro di South Yarra, a un passo dai giardini botanici. Questa contaminazione ha radici antiche, databili intorno al 1850 quando, all’apice della corsa all’oro, nella vasta area dello stato di Victoria si insedia la prima comunità italiana. Cercatori d’oro, certo, ma anche artisti e ingegneri, artigiani e manovali che costruiscono quella che all’epoca, grazie alle pepite nascoste a pochi centimetri di profondità nella terra sabbiosa, era già diventata la città più ricca al mondo.
La grande ondata di migranti dall’Italia arriva alla fine della Seconda guerra mondiale quando, archiviati con l’isteria del conflitto i casi di internamento di migliaia di connazionali accusati di appoggiare il fascismo, a metà degli anni 40 l’Australia si sveglia con un continente da costruire e l’impellente bisogno di braccia e cervelli per crescere. Comincia così la grande campagna di incentivazione alla migrazione straniera del secondo dopoguerra, per la quale il governo italiano fu uno dei principali partner: oltre 600 mila emigranti si stabilirono nel Nuovissimo Continente tra il 1945 e il 1971. Oggi, gli australiani di origine italiana sono quasi un milione.
Siamo andate a Melbourne per incontrare alcuni dei protagonisti di questa importante pagina ancora poco conosciuta della nostra storia e per consultare quasi un secolo di documentazione meticolosamente archiviata all’interno della Società Storica Italiana (vedi box a pag. 42). Ecco chi sono, ecco chi eravamo.
Nemici stranieri. Anche se il vero e proprio flusso migratorio cominciò dopo il 1945, con l’ascesa di Mussolini in Italia e durante la Seconda guerra mondiale i circa 40 mila italiani che erano già arrivati con i propri mezzi dall’inizio del secolo dovettero affrontare un nuovo scenario: la persecuzione politica.
Durante il conflitto, in Australia ne furono arrestati circa cinquemila già naturalizzati con l’accusa di simpatizzare per il nemico fascista. Quelli che non furono internati vennero etichettati comunque come “nemici stranieri” e le loro libertà di movimento, commercio e lavoro drasticamente limitate. Quasi tutti gli esercizi pubblici, dai negozi di alimentari ai ristoranti, tolsero dalle proprie insegne qualsiasi riferimento alla cultura tricolore. Il locale La Tosca di Melbourne divenne Hoddle Cafè e la chiusura di molti negozi di frutta e verdura, quasi tutti di proprietà italiana, crearono disagio nell’approvvigionamento di generi alimentari all’intera comunità. I “nemici stranieri” non potevano possedere alcun mezzo di comunicazione: niente radio, macchine fotografiche, automobili, aeroplani, barche e nemmeno carburante. Perfino i piccioni viaggiatori erano vietati.
Più tardi, a guerra finita, l’opinione pubblica scoprì che solo una piccolissima parte dei cittadini arrestati, per non menzionare quelli le cui libertà vennero limitate, era attivamente legata alla politica di Mussolini.
Giuseppe Cantamessa era stato naturalizzato come cittadino australiano sin dal 1913. Faceva parte attivamente della comunità locale: era consigliere laburista del comune di Hinchinbrook Shire e presidente dell’associazione di coltivatori di canna da zucchero dell’Herbert River. Venne arrestato un giorno dopo l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale: lo accusarono di attività e propaganda fascista. Giuseppe e i suoi familiari tentarono in ogni modo di dimostrare la sua totale estraneità alla politica italiana. Trascorse tre anni in un campo di internamento in Queensland e altri due agli arresti domiciliari. Una volta caduti il fascismo e le accuse nei suoi confronti, Giuseppe tornò a essere un uomo libero ma non si riprese mai dall’umiliazione. Morì poco dopo.
Nel suo necrologio sul quotidiano locale Herbert River Express, il 5 Aprile 1947 la famiglia scrisse: «Giuseppe ha sempre servito il suo Paese d’adozione, con lealtà e devozione».
Con i flussi incentivati dai governi le navi si attrezzarono per traghettare i migranti in condizioni migliori rispetto agli inizi del secolo. Il tragitto si ridusse da 90 a circa 30 giorni e il clima a bordo era carico di speranza, quasi gioioso nonostante l’abbandono della propria terra. Ma le aspettative di migliaia di aspiranti australiani si sarebbero presto trasformate in frustrazione e rabbia.
La maggior parte di quelli che arrivavano a Station Pier, la banchina di South Melbourne, veniva caricata su treni di legno a vapore e spedita a Bonegilla, un ex campo militare che poteva ospitare fino a cinquemila persone contemporaneamente: era il più grande campo per profughi e migranti di tutta l’Australia. Con le sue baracche in lamiera, le mosche a banchi, il cibo così lontano dai sapori che i suoi ospiti avevano lasciato, con il passare delle settimane Bonegilla per molti divenne una prigione in cui venivano rinchiusi senza informazioni in attesa che il governo li assegnasse ai campi di lavoro sparsi per tutto il continente, spesso separandoli dai propri familiari.
32 giorni in nave. È quello che successe a Mirella e Pino Bartolomè, nati a Fiume nel 1935, che partirono per l’Australia il 4 gennaio del 1952 insieme alla madre, al padre e alla sorella più piccola. Profughi giuliano dalmati, dopo la cessione della Istria e della Dalmazia alla Jugoslavia di Tito, avevano già sostato in dieci campi in tutta Europa prima di imbarcarsi dal porto di Bremerhaven sul transatlantico Nelly insieme ad altri 1.250 tra migranti e profughi europei.
«Ricordo la paura della guerra, l’incertezza che ti ruba il domani e poi tutta la speranza improvvisamente racchiusa in quella grande nave», ci racconta Mirella davanti a una tazza di vero caffè espresso a Carlton, la little Italy di Melbourne. Lei e la famiglia furono selezionati dopo un’intervista a Roma con il ministero dell’Immigrazione australiano. «Nella nostra città, a Fiume, non potevamo tornare. In Italia eravamo almeno liberi, ma eravamo too many, troppi. Non ci volevano. Non era colpa loro, i tempi del dopoguerra erano duri per tutti».
Mirella stringe tra le mani la sua foto preferita del lungo viaggio, 32 giorni in cui ha stretto amicizie che si è portata dietro fino a oggi, fino ai suoi 80 anni. Nella foto sorride e saluta lontano, arrampicata in cima al pennone della nave insieme alle amiche Elda e Maria. «L’ha scattata uno dei marinai mentre doppiavamo il Capo di Buona Speranza. È stato così gentile da stamparla e regalarcela prima dell’arrivo».
«Quando arrivammo in porto a Melbourne, vidi molta gente sulla banchina. Credo aspettassero di riabbracciare i propri cari. Vidi una donna sorridente, portava un cappotto ben tagliato e stringeva al petto un grande mazzo di fiori. Ricordo che nei miei 17 anni pensai: “deve essere bello qui”. Poi a noi rifugiati ci lasciarono una notte ancora sulla nave. La mattina dopo, fummo tutti caricati su un brutto treno rosso, fatto di legno. Dopo qualche ora ci diedero un sandwich, a sera arrivammo nel campo di Bonegilla». Il panorama «era misero: colline bruciate e baracche. Un canguro venne vicino al treno, come per salutarci. Come per confermarci che eravamo “via”, eravamo davvero lontani da casa».
«A Bonegilla», ricorda Pino, il fratello di Mirella, «c’erano talmente tante mosche che non si poteva nemmeno aprire la bocca per parlare. Lo avevamo soprannominato il posto senza speranza. Era enorme, isolato nella campagna australiana a 19 chilometri da Albury, il centro più vicino. E le baracche poi, di lamiera con le pareti interne di masonite: fredde d’inverno e calde come il fuoco d’estate». L’incognita di un futuro non ancora delineato, l’ozio, la lontananza dai paesi abitati causarono ansia, depressione e nervosismo tra molti migranti. «Per passare il tempo, con il mio amico Renato Sincich provammo a montare sul tetto di una baracca una specie di antenna fatta con un filo di rame, la collegammo a una radio galena con la cuffia che avevo portato con me dal campo di Bagnoli: erano le uniche cose preziose che possedevo, insieme con le mie scarpe e un unico abito». Pino e Renato riescono a stabilire un contatto con la stazione radio Abc che trasmetteva musica classica. «Ci radunavamo insieme a mia sorella e agli amici ad ascoltare quella dolce musica che usciva dalla cuffia».
Piccoli momenti di gioia non erano nulla, rispetto alla paura che molti provavano dopo pochi giorni di permanenza nel campo di Bonegilla, quando centinaia di famiglie venivano improvvisamente separate su base anagrafica. Secondo la legge australiana infatti, tutti gli emigrati maggiori di 16 anni avevano l’obbligo di accettare il lavoro che veniva loro offerto e lo sfruttamento di manodopera si fece massiccio, soprattutto tra i giovani.
Sei sterline la settimana. I Bartolomè non fecero eccezione: Mirella aveva quasi 17 anni e venne separata dalla intera famiglia. «Il dolore più grande per me non è stato lasciare la casa, che c’era la guerra e non ci volevano. Il dolore più grande l’ho provato quella mattina quando ho visto mia madre e i miei fratelli salire su un vecchio pullman, all’ingresso del campo. Non sapevo dove si dirigessero. Chiesi in italiano alle guardie cosa stesse succedendo, ma l’unica cosa che capii fu “tu no”. Ancora oggi se chiudo gli occhi vedo la polvere rossa che si solleva a sbuffi da sotto le ruote e provo quel dolore netto di vederli andare via. Di essere da sola, in un Paese e in un luogo sconosciuto». La ricostruzione della separazione ce la dà lo stesso Pino, con la sua cadenza veneta che si mescola all’inglese: «Nostro padre venne selezionato come raccoglitore di frutta a Woorinen, a 415 chilometri di distanza da Bonegilla. Dopo qualche giorno anche io, mia madre e mia sorella piccola venimmo trasferiti nel campo di Mildura, in mezzo al deserto, 260 chilometri da dove lavorava mio padre. È stato straziante, fino a quel momento avevamo combattuto le avversità uniti, nel bene e nel male. Ci stavano dividendo senza ragione».
«Per fortuna ero con le ragazze che erano con me sulla nave», sospira Mirella. «Ci mandarono in un campo vicino a lavorare 12 ore al giorno: dovevamo selezionare la frutta su un nastro per poi inscatolarla. Prendevamo sei sterline alla settimana e lavoravamo anche il sabato e la domenica. L’unico momento di svago era il venerdì sera, quando venivamo pagate e potevamo raggiungere il paese vicino per fare un po’ di spesa. Nel campo si mangiava male, l’unico cibo che ricordo con piacere e che mi era mancato in Europa era il latte fresco. Ne avevamo una brocca intera ogni mattina, per colazione».
Cappelli da chef. Il cibo è un elemento cruciale nello sviluppo della storia italiana in Australia (molte coltivazioni di frutta e verdura, per esempio, prima del nostro arrivo non esistevano). A Bonegilla, la tensione tra i migranti costretti a rimanere nel campo a lungo a causa dell’incertezza dettata dalla crisi economica in cui si trovava l’Australia, raggiunse l’apice nel 1952. Si preparavano vere e proprie rivolte tra le baracche e gli italiani non si fecero attendere. Il motivo scatenante? La pessima qualità del rancio. Gruppi di italiani occuparono le cucine e, indossati i cappelli da chef ottennero la prima vittoria verso la riconquista dei diritti civili: quello a ricevere un pasto degno. Cominciarono a coltivare veri e propri orti e furono ufficialmente assegnati alle cucine. Il clima, ricordano tutti, migliorò sostanzialmente. In seguito alle rivolte, l’opinione pubblica si fece consapevole dello stato detentivo in cui si trovavano gli emigrati e le cose piano piano cominciarono a cambiare. Molti australiani si offrirono di assumerli nelle città vicine. Quelli che venivano spostati sulla costa orientale, a Sydney o Wollongong, erano spesso impiegati in grandi opere pubbliche.
Dopo quattro anni di girovagare per ostelli e campi profughi Mirella, Pino e il padre riuscirono a trovare un lavoro a Melbourne, in fabbrica, e la famiglia Bartolomè affittò un bungalow nel sobborgo di Spotswood. «Era una casettina di legno isolata, in una via fangosa, poco distante dalla ferrovia», ricorda Pino . «Mio padre aveva comprato a rate un tavolo, quattro sedie, due letti singoli e uno doppio, più una piccola credenza. Era tutto quello che poteva permettersi con il suo magro salario. Ma per quanto modesta, questa casa tutta nostra a noi sembrò una reggia».
Rinnegare le radici. Ferdinando Colarossi era un bambino quando il suo paese ai piedi della Maiella abruzzese cominciò a svuotarsi. «Canada, Argentina, Australia. Alla fine della guerra tutti partivano». Mentre racconta, Ferdinando sposta con la mano il cestino di pane toscano che sta sul tavolo di questa trattoria storica italiana in Lygon Street, University Cafè, aperta per la prima volta nel 1952 e battezzata con un nome «che si adattasse meglio alla cultura locale».
Adattarsi alla cultura locale, rinnegare le proprie radici per lo meno in pubblico, è stata una strada quasi obbligata per le migliaia di emigrati che sono arrivati da questa parte del mondo. «Io ero uno di quelli», ricorda Ferdinando. Dagos, wags, spags, «eravamo diversi e a scuola ce lo ricordavano continuamente. Per evitare di essere presi di mira cercavamo di mimetizzarci: la lingua e il cibo italiano li lasciavamo dentro la porta di casa». Oggi lui, partito a dieci anni dai monti abruzzesi insieme ai due fratelli più piccoli alla volta di Napoli (dove, la sera prima dell’imbarco, «andammo per la prima volta al cinema. Davano un film western»), è un noto professore di storia e letteratura inglese, ma anche il direttore dell’Italian Language, Culture and Heritage Department del Co. As. It., il centro di studio e promozione della lingua italiana a Melbourne.
«Il viaggio fu una vera avventura. C’erano gli scali, questi mondi sconosciuti oltre la banchina. Mia madre non voleva che scendessimo per paura che la nave ripartisse e, in effetti, è proprio quello che successe l’unica volta che abbiamo messo piede sulla terraferma: a Perth ci hanno dovuto reimbarcare con un vaporetto perché la nave era già salpata e noi, che eravamo scesi per salutare alcuni parenti che vivevano lì, eravamo tornati in ritardo». La vita di Ferdinando e della sua famiglia in Australia scorre serena a Lilydale, circa 45 chilometri da Melbourne, dove i genitori lavoravano come operai durante la settimana e nelle fattorie il sabato e la domenica. «Noi bambini andavamo con loro. Passavamo molto tempo a leggere: giornali, libri della biblioteca. Tutto quello che trovavamo». La passione per i libri porta Ferdinando a vincere la borsa necessaria per continuare gli studi superiori con successo, fino ad arrivare all’insegnamento. La nostalgia della lingua madre si presenta a metà degli anni 70 quando Ferdinando si prende una pausa per tornare in Italia e frequentare per sei mesi un corso di italiano per stranieri a Perugia. Oggi, si occupa di tenere vivo lo studio dell’italiano nelle scuole attraverso la formazione di assistenti linguistici, figure che lavorano nelle classi a stretto contatto con gli insegnanti locali. «L’amore per l’Europa e per l’Italia lo teniamo vivo viaggiando spesso, con i miei figli. Ma è Australia il nostro Paese».
Amicizie e primi amori. Ha un bel sorriso Rosa, che ci accoglie nella sua Rosa’s Kitchen, un ristorante al 500 di Burke Street, la via dello shopping nel cuore di Melbourne. La cucina sta al primo piano di un grattacielo fitto di uffici legali.
Partita da Catania insieme alla madre con l’obiettivo di raggiungere il padre e gli zii, emigrati un paio di anni prima in cerca di fortuna, Rosa è arrivata a Melbourne nel 1962. «Ci siamo imbarcate insieme a un gruppo di donne siciliane che raggiungevano i mariti sposati per corrispondenza, come nel film con Claudia Cardinale e Alberto Sordi (Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata, di Luigi Zampa, 1971, ndr)», ci racconta mentre il sommelier intercetta il suo sguardo in cerca di un cenno sul vino da portare a tavola con le orecchiette al cavolfiore e zafferano, uno dei suoi piatti più famosi tra gli avvocati della city, che a quest’ora affollano il locale.
«A Melbourne la mia famiglia era già parte della comunità italiana locale e quando arrivammo per ricongiungerci a loro non ci sentimmo da subito troppo lontane da casa. Mantenevamo le tradizioni, quella della cucina soprattutto. Mi ricordo di aver imparato l’inglese solo a scuola, più tardi. Andavo in un istituto cattolico, ero così minuta rispetto agli altri che all’inizio mi misero nella classe dell’asilo nonostante i miei sette anni. Quando la suora si accorse che potevo scrivere le lettere dell’alfabeto si stupì non poco».
Rosa cresce, la comunità italiana rimane un punto fermo ma il suo carattere aperto e solare le permette di integrarsi e di cominciare la sua nuova vita di australiana a tutti gli effetti, tra amicizie e primi amori. Sposata con Mitchell, non scopre subito la sua vocazione per la ristorazione siciliana. «Ho fatto la parrucchiera quasi tutta la vita», confessa. «Ma la cucina è sempre stata la parte di me che ho amato e nutrito di più negli anni. Quando mi sono resa conto che la nostra cultura culinaria, la migliore al mondo, era sempre di più prerogativa di locali che spacciavano per ricette originali quello che noi chiamiamo “bastard italian food”, ho deciso di mettermi in gioco proponendo la vera essenza dei sapori della mia terra». Oggi Rosa ha aperto due dei migliori ristoranti in città, Rosa’s Kitchen e Rosa’s Canteen. Il secondo, strettamente siciliano. Perché la Sicilia, nonostante tutto, resta per lei “il posto più bello del mondo”.
La terza generazione. Sir James Gobbo, nato a Melbourne nel 1921 da genitori veneti «di Cittadella, in provincia di Treviso», è l’esempio più autorevole della cultura italiana che entra nelle istituzioni locali. «Sono nato a due passi da qui, all’ospedale Queen Mary», dice sorridendo seduto alla scrivania del suo ufficio di Carlton, dove ci riceve. «Mia madre raccontava che mio padre quando andava a trovarla arrivava sempre oltre l’orario delle visite e non lo facevano mai entrare. Allora lui la chiamava dal cortile: “Regina esci, ho portato le lasagne” (ride). Molti anni dopo, quando sono tornato all’ospedale in veste ufficiale di Governatore, ho raccontato questo episodio e fu una sorpresa per tutti: non sapevano che fossi nato lì! Sono stati gentili, mi hanno spedito a casa una lettera di ringraziamento insieme con il certificato di nascita. C’era scritto anche quanto pesavo».
Avvocato penalista, giudice della Suprema Corte e, dal 1997 al 2000, venticinquesimo Governatore dello Stato di Victoria, Gobbo mantiene un basso profilo sempre, anche quando racconta di avere vinto la Regata tra Oxford (dove ha studiato grazie a una borsa di studio) e Cambridge e motiva la sua carriera istituzionale dicendo: «Sono stato molto fortunato».
In realtà è stato uno dei principali promotori del multiculturalismo in un Paese dove, fino a una manciata di anni fa, essere italiani non era proprio semplice.
«Credo profondamente che l’affermazione di un popolo passi attraverso la partecipazione alla vita politica e sociale del Paese che lo ospita. Adesso essere italiani è cool, la nostra lingua è la più parlata dopo l’inglese, non dobbiamo più vergognarci delle nostre radici. Non è un caso che, durante l’ultimo censimento, alla domanda “quali sono le origini dei tuoi antenati” 930 mila australiani hanno risposto: italiane. Ma i miei genitori hanno dovuto sudare parecchio prima di trovare un posto nella società». Gli brillano gli occhi quando ricorda la sua famiglia, il padre Antonio e la madre Regina che «non solo era bella, era anche molto intelligente». Per non parlare della zia Savina che, «a 93 anni, ancora oggi gioca a bridge con gli australiani e li batte». Ed è convinto quando dice che «la sfida più grande che ci attende, qui in Australia, è rispondere al bisogno collettivo delle terze generazioni di ritrovare un collegamento con l’Italia e con le proprie radici».
Come presidente della Società Multiculturale Italiana dal 1989, James Gobbo sintetizza l’ideale di multiculturalismo in tre grandi aree: «l’identità culturale di tutti gli australiani, prima di tutto: la possibilità di esprimere e condividere il proprio patrimonio, comprese la lingua e la religione, entro ben delineati confini definiti dalle leggi dello Stato. Secondo, la giustizia sociale ovvero il diritto alla parità di trattamento e di opportunità senza barriere di razza, credo, genere o luogo di nascita. Infine l’efficienza economica, cioè il diritto di mantenere, sviluppare e utilizzare efficacemente le competenze e i talenti di tutti gli australiani a prescindere dalle loro origini».
Gobbo dice di amare molto questo Paese che ha accolto la sua famiglia e di sentire forte la responsabilità di avere la cittadinanza australiana. Ma quando gli si chiede quale è stato il periodo più felice della sua vita ritorna all’infanzia: «Quando avevo quattro anni siamo rientrati in Italia, qui non c’era lavoro, l’Australia era in recessione. Ho un ricordo meraviglioso di quei pochi anni passati a Cittadella. Fu un periodo di grandi amicizie, avevo tanti cugini. Ricordo la famiglia, quella vera. Sono stati quei quattro anni a prepararmi per il futuro. A darmi questo grande senso di orgoglio e di identità. E la voglia di giocare sempre al centro dell’azione».