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 2016  marzo 27 Domenica calendario

ALL’ARTE SERVE UN PO’ DARWIN

Un grande albero in bronzo accoglie il visitatore del Mart. Colpisce subito il dialogo con l’architettura di Mario Botta, come se quell’albero fosse nato insieme alle pietre e ai mattoni del museo. E in effetti, la mostra di Giuseppe Penone, uno degli artisti più celebrati al mondo, rappresenta a suo modo una rinascita anche per il Mart: è infatti la prima grande esposizione d’arte contemporanea pensata, progettata e curata dal nuovo direttore Gianfranco Maraniello, a Rovereto da giugno. Così, l’albero che ha il titolo Spazio di luce (2008) ripensato per questo luogo — con i rami che vivono nell’aria, con le sei sezioni che creano un vortice ascensionale denso di foglie d’oro — appare come il miglior incipit di una mostra che ci accompagna nel cuore della scultura come racconto poetico del potere salvifico della natura.
Giuseppe Penone si muove lentamente tra le sue opere. I lavori sono stati collocati in un rivoluzionario open space . Qui, sono stati aperti per la prima volta anche i lucernai per offrire una visione naturale delle scritture. Così le opere prendono vita in un dialogo tra grandi carte disegnate a carboncino come Le radici del verde del bosco (1987) , le sculture che ritraggono i figli Ruggero e Caterina su cui permane il segno primario del tocco del padre, la monumentale ed emozionante installazione in marmo Sigillo (2012) o la celebre opera del 1979, Soffio di foglie , nella quale si coglie l’impronta dell’artista (e del suo respiro) su un cumulo di foglie secche.
Penone ha il carattere schivo dell’uomo di montagna. Viene dalle colline di Garessio, sopra Cuneo, e dai boschi dove — benché abbia un atelier di migliaia di metri quadri a Torino — tuttora crea e installa alcune opere, come se la natura fosse sì, fonte di pensiero, suggestione, esortazione, ma soprattutto naturale beneficiaria di un dialogo tra arte e vita. Penone appare, anche per questo, come un artista tra i più intimi, poetici e spirituali del sistema dell’arte internazionale, sicuramente tra i meno mediatici. Lo si coglie dal suo pudore, dal suo sottrarsi, dal suo parlare quasi sottovoce ma anche dal rigore, dalla risolutezza e tenacia con la quale difende le sue convinzioni d’artista in un mondo dove lo spettacolo e il mercato sembrano essere lo scopo primario di ogni azione.
È diretto, senza lasciar spazio a snobismi: ricorda un albero ben radicato al terreno, con la corteccia dura, impenetrabile, eppure anche aperto, visionario, generoso. Un albero con i rami che toccano le nuvole. In qualche modo, la sua filosofia è racchiusa già nel titolo della mostra: una sola parola, semplice, perentoria, quasi fosse un manifesto ideologico contro le mode del nostro tempo: Scultura .
Se ne parla con lui, ritagliando il tempo di un pranzo, con la moglie Dina e Gianfranco Maraniello. Non esita ad affrontare i temi del mercato, dei vizi del sistema dell’arte, condanna il provincialismo dei musei, ricorda il periodo dell’Arte Povera, sferza le mode di artisti e curatori: «Troppo spesso vediamo titoli di mostre e poi lavori che illustrano quel titolo. È un’abitudine di molti artisti ma che appartiene anche ai curatori. Questo è il tempo in cui spesso gli artisti non fanno direttamente il lavoro. Talvolta producono opere senza toccare la materia. La figura dell’artista si confonde a volte con quella del curatore: il curatore ha un’idea, un titolo, appunto, e poi sceglie come illustrare quella sua idea. La sola parola Scultura è per affermare la necessità del gesto. Per sottolineare il rapporto con la materia, indipendentemente dall’immagine».
Penone in tutta la sua vita ha posto l’attenzione all’importanza dell’esperienza. A un’esperienza fisica, concreta, materica. Per lui l’arte non si esaurisce in qualche cosa di facilmente traducibile ma si manifesta per la sua essenza. Non a caso Maraniello nel bel volume (Electa) sottolinea come il lavoro di Penone sia «arcaico, ossia incarna l’ archè , l’origine e l’essenza del fatto scultoreo, ne costituisce una possibile ontologia non condizionata da cronache o tendenze dell’attualità».
La mostra, sofisticato e poetico atlante della memoria, avvolge lo spettatore in un percorso potente, a tratti emozionante, quasi Penone diventasse una sorta di sciamano. Rivelatrice una sua scultura: una mano avvolge il fusto di un albero che sembra impedire, là dove la mano è fissata, la crescita della pianta. È un trittico. E qui i titoli diventano parte integrante del lavoro: Trattenere 6 anni di crescita (continuerà a crescere tranne che in quel punto ) . La seconda scultura è intitolata Trattenere 8 anni… la terza Trattenere 12 anni… e di volta in volta nel punto della mano si coglie la densità della forza tra la mano dell’uomo e quella della natura. Come a dimostrare che l’uomo non è testimone o attore: è egli stesso natura.
Ma allora, la natura è politica? Penone risponde sussurrando: «Direi che la coscienza di essere natura è politica». E poi aggiunge: «Quando fai un lavoro in dialogo con un pezzo di carta, con la terra o una pietra, molti credono si abbia a che fare con una materia inanimata. Ma non è così. Basta entrare nella materia per scoprire che ha una vitalità, e appartiene alla storia dell’arte da sempre. Fare una scultura è rivitalizzare la materia. Ma è necessario che l’opera abbia questa vitalità. Se l’opera non ha vita potrà essere tantissime cose, ma non riuscirà a sopravvivere nel tempo. In questo senso ci si può collegare a quest’idea dello sciamano. Ma il punto importante è dare dignità alla materia». Poi, con poche parole rivela la sua visione poetica: «Un albero lo percepiamo come qualcosa di statico, di solido solo perché a differenza del nostro corpo ha un differente respiro».
Un percorso partito da quando Germano Celant lo coinvolse nel gruppo storico dell’Arte Povera: «Il ruolo di Germano fu di intercettare un clima culturale. E ha cominciato a raccogliere materiali. Tutto è cominciato nel 1967 a Genova alla galleria La Bertesca. Io sono arrivato per ultimo. Avevo solo vent’anni nel ’67. La società stava cambiando e l’arte proponeva nuove idee. Non era un discorso di denuncia ma di proposta. Volevamo creare un nuovo linguaggio. Non c’era rivalità, lavoravamo a costruire un modo diverso di sentire».
E oggi, che cosa è rimasto di quel dialogo tra voi artisti? «Abbiamo lavorato per lo stesso progetto culturale e gli amici di allora sono rimasti gli amici di oggi». Penone si ferma e sembra avvolto da un velo di nostalgia: «C’era un senso di appartenenza». E ora? Si sente di appartenere ancora a qualcosa? «Ho fatto il lavoro che ho fatto. Spero che mi faccia appartenere a un certo modo di pensare all’arte che non è quello dello spettacolo e di un’arte che si basa su una retorica del sociale. La luce di un colore è per me molto più interessante della luce effimera di una proiezione video». Ride: «Comunque, qualche anno di crisi e tutto si metterà a posto. È il darwinismo dell’arte».
Ancora: «Come nascono le mie opere? Possono venire da un’idea, da un’intuizione o dalla pratica. E per pratica intendo il fare le cose. È molto importante il fare. Significa avere il rapporto con il materiale che ti dà delle conoscenze, delle intuizioni che tu non puoi avere se ragioni soltanto in termini di immagini. Perché ci sono cose che avvengono nel processo di lavoro, anche soltanto una goccia d’acqua che cade su un foglio di carta. Solo questa pratica restituisce una verità del lavoro».
«Vorrei aggiungere una cosa su un tema che mi sta a cuore: nelle programmazioni dei musei, in una visione molto provinciale, si pensa che allestendo mostre con artisti stranieri si facciano mostre a livello internazionale. L’esasperazione di questo concetto diventa un vizio tutto italiano. Ho conosciuto bene Giulio Einaudi. Era una casa editrice di Torino. Gli scrittori, agli esordi, erano tutti dell’area, compreso Calvino che era ligure. C’era Pavese, Fenoglio, Lalla Romano... Einaudi ha dato loro la possibilità di emergere e diventare grandi autori. Senza cadere in una visione autarchica, è quello che dovrebbero fare anche i musei italiani. Ma non lo fanno e per questo gli artisti italiani sono costretti ad affermarsi altrove».
Le responsabilità? «È un fatto atavico, legato alla debolezza del pensiero, della politica, magari anche a una mentalità cattolica o di un’umiltà ipocrita. Se alcuni direttori di musei stranieri vengono in Italia e vedono una sala con soli artisti italiani, mica dicono: guarda come sono provinciali questi italiani! Se non ci crediamo noi, perché dovrebbero crederci gli altri?».
Nel momento in cui Penone ha cominciato a lavorare negli anni Sessanta «c’era un azzeramento della cultura. Si scopriva la possibilità di entrare in contatto con culture diverse. Ma tra gli artisti di quegli anni non c’era la necessità di muoversi. Per noi non è stato necessario andare a New York. I rapporti con l’America ovviamente c’erano. Ma il fatto di scegliere di non vivere a New York significava affermare dei valori diversi. Come ho detto, io lavoro con la materia in un modo che è anche la mia identità. Se vado a New York mi è impossibile continuare lo stesso tipo di lavoro, sono costretto a lavorare con i mezzi tecnici, le logiche e la cultura di New York, perdo la mia identità. E che cosa è più importante nell’arte se non le identità?».
Penone ha partecipato alla mostra Information al Moma quando aveva 23 anni. E allora, quale consiglio per un giovane artista oggi? Davvero un giovane non deve andare a New York, considerata la capitale mondiale dell’arte? «Qui c’è un problema: perché New York e non l’Africa? Il valore di una persona o di una pietra è uguale dovunque. Se vai a New York sorge il dubbio che non sia per l’arte ma per il mercato, per la carriera. L’arte è un’altra cosa».