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 2016  marzo 27 Domenica calendario

VORREI LEGGERE GOGOL’ DENTRO LA STUFA

Lenin diceva che anche i silenzi di Tolstoj sono «eloquenti», e forse non c’è omaggio più profondo che si possa concepire per un grande scrittore. Dopo aver letto le sue appassionanti Storie di libri perduti (Laterza), sono sicuro che Giorgio van Straten condivida pienamente questa prospettiva, anche se i silenzi di Tolstoj sono tutto sommato volontari, mentre la scomparsa dei libri di cui si occupa lo scrittore fiorentino dipende dalle cause più varie, dal desiderio degli eredi di salvare la reputazione del defunto (o la loro) all’incendio che riduce tutto in cenere.
Si potrebbe muovere a van Straten la più ovvia delle riserve: nessuno di noi, anche se campasse mille anni, sarebbe in grado di leggere tutti i libri che, per una ragione o per l’altra, amerebbe leggere. Perché accanirsi a pensare anche a quelli perduti? Non sarebbe meglio abbandonarli al loro destino di fantasmi, tutti dotati di un titolo al quale non corrisponde più nulla? Ma sarebbe come chiedere a un astrofisico di rinunciare a ogni curiosità sui buchi neri, dal momento che nel cosmo ci sono fin troppa materia e fin troppa gravità. Il fatto è che l’opera perduta continua — in una maniera che ha più del magico che del razionale — a irradiare i suoi significati anche dal buio della sua sparizione. È un’immagine del destino e insieme un emblema del pericolo della scrittura. Quel pericolo che sfida ogni condizione avversa perché quello che è scritto è scritto, come meditava Montale in una bellissima poesia senile in cui racconta della sparizione degli spartiti di un parente musicista, durante l’alluvione dell’Arno nel 1966.
Sembra far eco, il poeta, a quel sibillino monito del Maestro e Margherita di Mikhail Bulgakov: «I manoscritti non bruciano». A pronunciare la difficile verità è il diavolo in persona, molto esperto in questo genere di sottili paradossi. E visto che il ragionamento mi ha portato in Russia, dirò che uno dei più bei casi degli otto di cui si occupa van Straten (con la preziosa consulenza di Serena Vitale) è quello celeberrimo di Nikolaj Gogol’ che, la notte fra l’11 e il 12 febbraio 1852, dieci giorni prima di morire, ospite di una aristocratica dimora moscovita, ficca nella stufa accesa, foglio dopo foglio, le quasi cinquecento pagine delle Anime morte . Testimone e assistente dell’autodafé è un servo di appena tredici anni di nome Semyon, che tenta di dissuadere il maestro: «Cosa fa? Si fermi!». Ma lui, inflessibile: «Non è cosa che ti riguardi. Prega, piuttosto!». Ora, se leggiamo la monografia che il crudele Vladimir Nabokov ha dedicato a Gogol’, l’idea consolante che ne possiamo trarre è che, fra crisi mistiche e accessi di follia non facilmente distinguibili, la mente di Gogol’ si fosse così guastata che il sacrificio di questa seconda parte delle Anime morte non va annoverata tra le grandi perdite dell’umanità. Ma nemmeno Nabokov, che qualche buona ragione indiziaria ce l’ha, può sottrarsi del tutto alla tentazione di dialogare con quelle ceneri.
Da parte sua, van Straten vorrebbe leggerle, quelle pagine finite nella stufa, prima di emettere giudizi in contumacia. E non c’è caso che affronti in cui non si chieda se, in un modo o nell’altro, i fantasmi dei libri di cui ci racconta potrebbero tornare tra i vivi. In fin dei conti, hanno rischiato di diventare dei libri perduti anche due dei massimi capolavori italiani del secondo Novecento, Petrolio di Pier Paolo Pasolini e L’odore del sangue di Goffredo Parise. Per convincere Giosetta Fioroni, la vedova di Parise, a pubblicare L’odore del sangue , Cesare Garboli le disse che non poteva sottrarre un capolavoro all’umanità. E lei si convinse, a differenza di quanto ha fatto la vedova di Romano Bilenchi con Il viale , l’unico romanzo composto dall’autore nel lungo silenzio che si interpone tra i capolavori degli anni Trenta e gli ultimi libri pubblicati in vecchiaia. In questo caso il racconto di van Straten si carica di un pathos testimoniale assente negli altri capitoli, perché lui quel libro distrutto lo ha letto negli anni Ottanta, assieme ad altri giovani amici di Bilenchi. Aveva promesso a Maria Bilenchi di non fare fotocopie ed è stato leale; ora si pente della sua onestà, perché ricorda un romanzo bellissimo. Ma è un ricordo incerto, inaffidabile.
Qui van Straten tocca un punto molto importante, perché il ricordo che possono avere dei libri perduti coloro stessi che li hanno scritti non è molto più affidabile di quello dei lettori. La scrittura letteraria non equivale semplicemente a tradurre in parole un’idea o un’esperienza che lo scrittore ha nella testa, come se si trattasse di copiare un modello interiore. È la scrittura semmai, che modella le idee e assegna il loro reale valore alle esperienze, così che, in assenza di un testo, non si può ricorrere a nulla che lo precede. Ci si può riprovare ancora, se se ne hanno le energie, ma è come se fosse la prima volta, si riparte da zero.
Un caso davvero interessante è Malcolm Lowry. Questo artista immenso, l’autore di Ultramarina e Sotto il vulcano , trascorse una parte molto consistente della sua vita in stato di ubriachezza e non si curò di nulla che gli appartenesse, manoscritti o vestiti che fossero. Dopo gli anni del Messico, assieme alla seconda moglie si rifugiò a vivere in una capanna di pescatori sulla costa canadese della British Columbia. Si dedicò alla composizione della sua opera più ambiziosa, intitolata In Ballast to the White Sea , che doveva essere una specie di nuova Divina Commedia . Nel 1944 il capanno di legno andò a fuoco. Del manoscritto rimangono dei bellissimi frammenti di poche righe, come i pensieri di Blaise Pascal, semidivorati dalle fiamme. In realtà un libro che si intitola In Ballast to the White Sea risulta in commercio, ma si tratta dei capitoli di una versione precedente iniziata in California e dimenticata lì al momento di partire. Non c’è nessuno al mondo, conclude giustamente van Straten, che sia in grado «di scrivere lo stesso romanzo per la terza volta».
Al di là dell’interesse intrinseco all’argomento, non ho potuto fare a meno di chiedermi perché van Straten se ne sia occupato con tanta tenacia, prima in un programma radiofonico e poi in questo libro. E sono arrivato alla conclusione che per uno scrittore questo dei libri perduti è un simbolo potente, capace di catturare l’immaginazione. Più uno ci pensa, più è costretto ad ammettere che i libri perduti sono tutt’altro che un’eccezione. Perché ogni libro, anche quello più facilmente reperibile in una libreria, è un organismo complesso, metà visibile e metà invisibile. Ogni libro che teniamo saldamente per le mani, che è stato salvato dalle fiamme e dagli eredi, dalle polizie e dalle alluvioni, proietta l’ombra di un libro perduto. È il libro che non si è stati capaci di scrivere, che non si è voluto scrivere, che si ha avuto paura di scrivere. Nessuno potrà mai leggerli questi libri. Stanno lì come malinconici pipistrelli appollaiati tra le righe dei libri che tutti leggono. Ma è facile e benefico avvertirne la presenza: ci ricordano che niente di ciò che fanno gli uomini è perfetto, e l’arte è un grande rimpianto.