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 2016  marzo 27 Domenica calendario

I GRAMMAR NAZI

Nei giorni scorsi circolava in rete la notizia che a Berlino si era tenuto il primo raduno di grammar nazi . La notizia si è poi rivelata una bufala: il sito da cui proveniva era quello di una rivista satirica irlandese. Ma ha contribuito a diffondere anche da noi una definizione che in ambito anglosassone è usata da oltre vent’anni. Già nel 1996, David Foster Wallace — che al rapporto tra Autorità e uso della lingua ha dedicato un lungo saggio — si lamentava di essere chiamato così dai suoi studenti: «L’unico motivo per cui sono noto nello stato dell’Illinois è per essere un grammar nazi ». Ed è vero che lui insegnava nel dipartimento di Inglese della Illinois State University; però è difficile non pensare (che anche lui abbia pensato) alla celeberrima battuta del film Blues Brothers : «Io li odio i nazisti dell’Illinois», dice John Belushi a Dan Aykroyd quando i due s’imbattono in una ridicola parata neonazista.
Appunto: basta farsi un giro in rete — tra svastiche a forma di G e grottesche mascherate in divisa da SS — per capire quanto l’etichetta sia ambigua, oltre che di pessimo gusto. Ambigua tanto più in un Paese come il nostro, che durante il ventennio fascista ha conosciuto il purismo di Stato. E dunque tende a tacciare di fascismo qualunque tipo di attenzione per la lingua, ogni riferimento — anche il più blando — a forme di politica linguistica.
Logodedali e scrutinaparole
Eppure, nell’Ottocento ci sono stati anche puristi di fede giacobina. Come il frusinate Luigi Angeloni, sostenitore con la stessa intransigenza delle idee repubblicane (che lo costrinsero a una vita da esule) e di un modello linguistico basato sugli «eccellenti scrittori» del Trecento. Una scelta criticata da Mazzini, che non condivideva quel suo modo di rivestire il pensiero «della lingua de’ morti e d’uno stile pedantesco»: il rischio era indebolire il messaggio rivoluzionario, esponendosi al ludibrio degli avversari.
La satira del pedante, d’altronde, era un pezzo forte già nella commedia cinquecentesca e non ha mai smesso di essere alla moda. Gli appassionati sostenitori della buona lingua potevano essere definiti parolai , logodedali o scrutinaparole . «Messi in croce», si lamentava Antonio Cesari, «e chiamati per istrazio Linguisti e Puristi» (fino a tutto l’Ottocento, le due definizioni erano sovrapponibili; ma Cesari — considerato il padre del purismo — se ne sentì dire di molto peggio: Vincenzo Monti arrivò a evocarlo con l’epiteto di «grammuffastronzolo»).
A forza di prendere in giro le «grammaticherie» e le «grammaticaggini», l’ossessione «grammatichevole» e il futile «grammatizzare», anche l’appellativo di grammatico ha finito con l’essere piegato a usi poco lusinghieri. «Era titolo d’onore, come letterato», notava Tommaseo nel suo Dizionario morale : «Scaduti ambedue, come il masnadiere e la cortigiana». Già nel 1798 (quando Angeloni era tribuno della Repubblica romana), il Dizionario universale critico enciclopedico della lingua italiana riportava che grammatico era «sovente nome di disprezzo», specie se «accompagnato ad epiteto avvilitivo». E passi pure che qualcuno lo usi ancora come sinonimo di retore, saccente, erudito, pignolo, sofista. Ma nazista no.
La grammatica è un diritto
Perché la grammatica non è né di destra né di sinistra. La grammatica cambia nel tempo, certo, visto che anche la lingua della migliore lana non è mai né pura né vergine. Quindi l’atteggiamento dei puristi non è condivisibile. Questo, però, non vuol dire che non esista una norma linguistica. «In ogni linguaggio» — scriveva Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere — esiste «di fatto, cioè anche se non scritta, una “grammatica normativa” costituita dal controllo reciproco, dall’insegnamento reciproco, dalla “censura” reciproca».
Più che un dovere, la grammatica è un diritto. Perché non è un insieme astratto di regole polverose ma uno strumento sociale: un mezzo dinamico, decisivo per l’appartenenza a una comunità e per la costruzione di una cittadinanza consapevole. È evidente che, oggi più che mai, chi non possiede strumenti linguistici adeguati rimane un individuo a cittadinanza limitata. Nel progetto Ocse sulla cosiddetta literacy , la «competenza di lettura» è definita come la capacità di interagire con l’informazione scritta per poter sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità e svolgere nella società un ruolo attivo. Un ruolo che, allo stato attuale, appare fuori portata per molti dei nostri ragazzi. Proprio i dati Ocse, infatti, ci dicono che un terzo di loro non è in grado di capire fino in fondo che cosa c’è scritto in un articolo di giornale.
Partigiani della lingua
E allora la questione non è rimpiangere il passato, perché un’età dell’oro in cui tutti scrivevano (o parlavano) bene non c’è mai stata. La questione è un’altra: cosa si è fatto negli ultimi anni per risolvere questa situazione? Troppo poco. E non parliamo soltanto dei tagli all’istruzione e alla ricerca. Parliamo di quell’atteggiamento per cui, invece di lavorare sull’innalzamento delle competenze linguistiche degli italiani, si è preferito abbassare il livello — linguistico e non solo — di tutto il resto. Del dibattito politico, della televisione, dell’intrattenimento.
È il paradigma del rispecchiamento: «parlo come te» (urlo parolacce, scrivo post sgrammaticati, uso luoghi comuni, rifiuto la complessità) «dunque ti piaccio». Questo ricalco espressivo domina ormai il mondo della comunicazione, gratificando il narcisismo di chi ama riflettersi piuttosto che riflettere. Il risultato è un circolo vizioso che nel migliore dei casi congela l’esistente, nel peggiore innesca una corsa al ribasso. Così, quello che un tempo chiamavamo «italiano popolare» sta diventando un italiano populista. Chi ama e cura la propria lingua — chi si batte per insegnarla, promuoverla, diffonderla — prova a spezzare questo circolo vizioso. È senz’altro di parte, ma proprio per questo andrebbe definito partigiano: partigiano della lingua italiana.