Andrea Laffranchi, Corriere della Sera 27/3/2016, 27 marzo 2016
JAGGER IDOLO CUBANO
L’Avana «Impossibile, era impossibile». Una signora cubana corregge Mick Jagger. Lui sta dicendo che anni fa «era difficile» poter ascoltare la musica dei Rolling Stones a Cuba. Mick non sta facendo il furbetto, quello che dice e non dice. Non sta strizzando l’occhio al pubblico senza disturbare il regime castrista che continua, oggi come allora, a condannare la musica e la cultura anglo-americane come forme di devianza ideologica. Il discorso prosegue. «Ora siamo qui a suonare per voi. I tempi stanno cambiando».
Con poche parole, misurate ma significative, pronunciate in spagnolo davanti a centinaia di migliaia di persone, la rockstar ha reso il concerto degli Stones all’Avana ancora più storico di quanto non fosse già per il solo valore musicale. E la più longeva band della storia ha fatto un passo oltre l’essere solo l’emblema di sesso, droga e rock and roll.
Cubani e turisti, giovani i primi, un po’ meno i secondi; persone qualunque sul prato e divi come Leonardo DiCaprio, Richard Gere e Naomi Campbell in area riservata; fan che sanno tutto della linguaccia più famosa del rock e gente che causa censura non conosce nemmeno una canzone ed è qui solo per fare festa: si sono presentati in 3-400mila sul grande spiazzo della Ciudad Deportiva della capitale cubana.
Controlli rilassati e misure di sicurezza approssimative ma tutto fila liscio; attorno agli ingressi i baracchini con il cibo come da noi ma al posto del panino con la salamella qui va la granita; come da noi anche i venditori di magliette taroccate ma non i bagarini perché lo show è gratis (le spese per 7 milioni di dollari sono state coperte dagli sponsor). Gli Stones non sono la prima band a suonare a Cuba, in passato ci sono stati Audioslave, Manic Street Preachers, Diplo, Juanes, Jovanotti, Zucchero e altri, ma sono i primi a portare un vero spettacolo con materiale da riempire quei 61 container che si sono scarrozzati in giro per America latina nel tour «Olè», cominciato il 3 febbraio a Santiago, in Cile, e che si è chiuso proprio su questo enorme prato. Il rock e la revolución , quasi coetanei, si sono dati per la prima volta la mano. Nel confronto con la visita di Obama dei giorni scorsi la musica — non è la prima volta nella storia — si è mostrata più avanti della politica nel saper interpretare lo spirito del tempo.
L’orario di inizio di questo nuovo capitolo della storia cubana: le 20.30. La colonna sonora che lo accompagna: «Jumpin’ Jack Flash». Jagger è in giacca di paillettes, camicia porpora e pantaloni skinny, Keith Richards ha una fascia fra i capelli e un giubbino da college a stampa fantasia, Ron Wood è in blu elettrico e Charlie Watts compensa con una minimalissima t-shirt bianca.
Una carrellata di successi che dura ore e un quarto. «It’s Only Rock’n’Roll (But I Like It)» si porta dietro il saluto all’Avana di Mick che per tutta la sera si rivolge in spagnolo alla platea. «Angie», uno dei pochi momenti intimi, è dedicata «a tutti i cubani romantici». «Midnight Rambler» e «Miss You» in fila durano venti minuti e a dilatarne la durata sono passaggi strumentali e assoli. C’è un assolo anche per Jagger. Non tanto quello con l’armonica ma quello in cui il cantante riassume tutte le sue mossette e le sue pose iconiche. Keith, Ron e Charlie mostrano tutti gli anni (e gli stravizi) e anche qualcuno in più, lui che va verso i 73 ha solo le rughe e una preparazione fisica invidiabile. Il finale infila «Gimme Shelter», «Start Me Up», «Sympathy for the Devil», «Brown Sugar» e nei bis «You Can’t Always Get What You Want» con un coro cubano e «Satisfaction», che scatena i cubani in un festoso ballo collettivo.
Per chi si è perso il concerto è in arrivo un docu-film che sarà distribuito nelle sale cinematografiche e poi in dvd. L’anteprima è per il pubblico cubano che la prossima settimana lo vedrà in tv. Se i tempi sono veramente cambiati lo dimostrerà anche lo zelo delle forbici della censura castrista sulle parole di Mick.