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 2016  marzo 26 Sabato calendario

«SEMPRE ALL’ATTACCO: ERA IL PITAGORA CON I CALZONCINI»

Qualche anno fa, in Olanda, una popolare rivista sportiva pubblicò un lungo articolo, «L’Ajax non difende mai», in cui un giocatore della squadra del calcio totale, il serbo Velibor Vasovic, ricordava Johan Cruyff con lunghe, poetiche descrizioni: un po’ filosofo Zen un po’ leader carismatico di una setta, «il Pitagora in pantaloncini». Un articolo bellissimo: peccato che la rivista — per un equivoco sincero, o per una dimenticanza di redazione — non avesse mai menzionato che non si trattava di giornalismo, ma fiction. Opera di Jim Shepard, maestro americano del racconto breve («L’Ajax non difende mai» è pubblicato in Italia nella raccolta «Non c’è ritorno», editore 66th and 2nd). I lettori della rivista? La presero per vera.

Shepard, che «da un angolo sperduto dell’America» lo amava di un amore da ultrà dell’Ajax, sorride ricordando quell’episodio: «Cruyff trasformava l’impossibile in realtà: è quello che fanno gli scrittori». Era tanto strana quella squadra di liberi pensatori con i capelli lunghi, mai più vista nel calcio, che si poteva credere tranquillamente a tutto quello che c’è nel racconto come a un reportage: lo stopper ricorda che «quando coprivamo lo spazio nel modo giusto, tutto all’improvviso diventava tranquillo. Nessun rumore. Si sentiva solo il vento. E la palla: il suono che faceva a contatto con i piedi, il suono che indicava con chiarezza dove stava andando e con quanta forza, lenta o veloce».

Shepard pensa che non vedremo più un altro Cruyff perché «il paradosso dello sport è che — specialmente noi americani — ci aspettiamo di vedere campioni nei quali potersi immedesimare, ci piace assistere al trionfo di chi ha lottato contro le avversità. Ma quei campioni non devono essere politicizzati, non devono dividere. In realtà il tacito appoggio allo status quo è di per sé un atto profondamente politico, come sapevano i giocatori di quell’Ajax. La libertà di Cruyff, del suo approccio alla competizione, alla fama, alla ricchezza, fu così radicale che non poteva non avere ricadute anche al di fuori dello sport. Il calcio totale fu necessariamente anche politico: se Cruyff non cercò di fare proseliti al di fuori del calcio per la sua filosofia è perché dovette sembrargli implicito che quel che faceva avesse una valenza politica».

Shepard s’innamorò diciottenne degli Oranje, davanti alla tv durante i Mondiali del 1974: «Per emergere nello sport ci vuole una totale concentrazione su un unico fine: una simile enfasi assoluta, univoca, sull’affermazione di sé, produce sì campioni ma anche cittadini apolitici e privi di curiosità per quel che li circonda. Senza contare la pressione». La pressione mediatica? Dei tifosi? «No, degli sponsor. I campioni sportivi sono un’industria dal fatturato spaventoso. Esempio: la Nike è felice del fatto che Michael Jordan appaia come un uomo indipendente, che pensa con la propria testa. Sarebbero meno felici se Jordan si interessasse della realtà produttiva e del trattamento dei lavoratori che fanno le sue scarpe. La bellezza architettonica del gioco di Cruyff accompagnata da quel tipo di rilevanza al di fuori dello sport, dalla sua capacità di rappresentare il simbolo di un possibile cambiamento politico e filosofico? È teoricamente possibile che arrivi un altro come lui, certo. Ma non è più successo».