Francesca Basso, Corriere della Sera 26/3/2016, 26 marzo 2016
«IL MIO PAESE NON È FALLITO QUI C’È LA LIBERTÀ TOTALE PER QUESTO È FANTASTICO»
Elio Di Rupo difende il suo Belgio da chi, come lo storico Gilles Kepel, indica nella struttura statale debole una delle cause del proliferare del terrorismo: «Non è uno Stato fallito e non è un Paese debole. È un Paese di libertà totale, è fantastico. Rispetta la libertà delle donne, degli omosessuali, rispetta la libertà di pensiero. In Belgio si può essere blasfemi. Sono rispettate le scelte individuali. C’è l’aborto e c’è l’eutanasia». Di Rupo, 64 anni, è stato il primo ministro del Belgio dal 2011 al 2014, è presidente del Partito socialista belga e sindaco di Mons, città della Vallonia non distante dal confine francese. I suoi genitori erano immigrati, venivano dall’Abruzzo. Ha guidato il Paese nel momento difficile della crisi economica, portandolo fuori dalla recessione in due anni.
Gli ultimi attentati mostrano che il Belgio è uno snodo centrale dell’attività terroristica dell’Isis. C’è un problema di sicurezza?
«Non si può ridurre tutto al Belgio. Ci sono stati attentati anche in altri Paesi, in Europa e in Africa. Ci sono molti parametri da tenere in considerazione. C’è una dimensione religiosa. I terroristi hanno un’idea personale del Corano come la si ritrova nello Stato Islamico. Sono giovani che sono stati indottrinati perché deboli. C’è una dimensione sociale. Sono giovani che non vedono il loro futuro. È vero, molti vengono dal Belgio ma non perché siamo un Paese debole. Il sistema di sicurezza belga funziona ed è affidato al governo federale. C’è invece un problema di disoccupazione nella regione di Bruxelles più forte che in quella fiamminga o in Vallonia. Ed esiste discriminazione. Se hai la pelle nera o un nome che indica un’origine diversa è più difficile trovare lavoro. Ma non è il caos sociale, è una realtà più difficile che cerchiamo di affrontare. Abbiamo dei programmi per la lotta contro la discriminazione».
C’è quindi una questione immigrazione?
«Le terze generazioni vivono una situazione di disagio. Un tempo i migranti in Belgio avevano un lavoro e nel lavoro c’era solidarietà: le prime generazioni pensavano a costruirsi una famiglia e a conquistare una condizione di benessere. I loro figli hanno potuto vivere in quell’atmosfera ma già con qualche difficoltà. Per la terza generazione è tutto più complicato. Alcuni gruppi di immigrati hanno fatto vita di comunità, però la comunità è rimasta chiusa. Sono belgi e hanno potuto godere di tutte le libertà ma non si sentono belgi. Bisogna cercare di capire perché questi giovani sono attratti dalla jihad».
L’Europa mostra di essere in grande difficoltà.
«Il problema dell’Europa è la mancanza di solidarietà tra i Paesi. Le posizioni dell’Ungheria, della Polonia o della Slovacchia sull’immigrazione sono emblematiche. Se ci fosse una solidarietà europea a livello di ridistribuzione di richiedenti asilo avremmo 2-4 migranti per mille europei: non è vero che è impossibile integrarli. Ma serve la volontà politica. Invece Italia e Grecia sono lasciate sole a sopportare il peso più importante. Certo bisogna distinguere tra rifugiati e migranti economici: l’Europa non può prendere tutti. Ma è questa mancanza di solidarietà a creare i populismi in Europa. Ventotto Paesi intorno al tavolo sono troppi».
La Ue a 28 non funziona?
«È impossibile prendere decisioni difficili e coraggiose. Alla fine l’accordo è al minimo denominatore comune, come accaduto con l’intesa con la Turchia. Ha ragione il premier Renzi, si deve tornare al nucleo originario. Dobbiamo pensare a un’Europa a cerchi concentrici: un nucleo con sette-dodici Paesi con obiettivi comuni e gli altri uniti nel mercato unico. Se invece andiamo avanti così sarà difficile avere politici coraggiosi».
Il Pse ha sbagliato qualcosa nella sua azione politica?
«Non è un problema di famiglie politiche. In Europa ci sono troppi comportamenti nazionalistici. In tutti i gruppi politici, soprattutto i rappresentanti dei Paesi dell’Est, portano avanti istanze nazionali. Dunque assistiamo a una divisione per Paesi anche nelle famiglie politiche».
L’Europa è impreparata ad affrontare terrorismo e immigrazione?
«Attenzione, sono due cose diverse ma che avvengono nello stesso momento. Il problema maggiore è in Siria e in Iraq. Dieci anni fa lo Stato Islamico sarebbe stato impensabile. Oggi invece esiste: serve una coalizione internazionale sotto l’egida dell’Onu per combatterlo. Lo Stato Islamico sarà sempre una minaccia per gli Stati liberi».
Pensa anche a un’azione militare?
«Prima dell’intervento armato si deve percorrere la via della diplomazia e della politica coinvolgendo gli Stati Uniti, la Russia e i Paesi del Golfo, inclusa l’Arabia Saudita. L’Unione Europea deve trovare un accordo per ricostruire la pace. L’intervento militare deve essere l’ultima opzione e con la partecipazione delle Nazioni Unite».