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 2016  marzo 28 Lunedì calendario

PANE PER SETTE

Secondo Coldiretti, con il crollo del 3% degli acquisti nel 2015, i consumi di pane degli italiani negli ultimi 10 anni si sono dimezzati raggiungendo il minimo storico di 85 grammi a testa al giorno (repubblica.it).

Gli italiani continuano a preferire il pane artigianale che rappresenta l’88% del mercato, ma la pezzatura è diventata più piccola calando in dieci anni da 1,5 chili a un solo chilo. A crescere sono invece i prodotti sostitutivi del pane (grissini, crackers, pani morbidi) (ibidem).

Cinque pani della tradizione popolare italiana riconosciuti dall’Unione europea: la Coppia ferrarese, la pagnotta del Dittaino, il pane casareccio di Genzano, il pane di Altamura e il pane di Matera (ibidem).

Nel 1861, anno dell’Unità d’Italia, mangiavamo 1,1 chili di pane a persona al giorno. Nel 1980 mangiavamo intorno agli 230 grammi a testa al giorno, nel 1990 197 grammi, nel 2000 180 grammi, nel 2010 120 grammi, nel 2012 a 106 grammi per arrivare a meno di 100 grammi nel 2013.
Nel 1861 un chilo di pane costava 0,44 lire.

L’Italia è diciannovesima nella classifica dei Paesi mangiatori di pane nel mondo.

La Turchia è il paese con il più alto consumo pro-capite di pane: ogni turco mangia ogni anno circa 104 chili di pane. Al secondo posto il Cile, con 96 chili a testa.

Ogni ventiquattro ore l’umanità mangia una fetta di pane grande quanto tre Empire State Building (dal libro The world in one day, 1997).

Secondo Coldiretti il prezzo del pane varia moltissimo in Italia da regione a regione: a Napoli il pane costa 1,90 euro al chilo, a Bologna 3,98 euro, a Milano 3,57, a Torino 2,67, a Palermo 2,72 euro, a Roma 2,50, a Bari 2,81.

Secondo i dati Istat in Italia le imprese nel settore della panificazione nel 2007 erano 44.406, nel 2014 erano diventate 41.298. Il numero di occupati nel comparto sfiora oggi i 180mila, la maggior parte dei quali (più di 105mila) lavora nella produzione dei prodotti di panetteria freschi (24mila imprese in totale).

Oltre 16 milioni di italiani almeno qualche volta preparano il pane in casa, secondo il rapporto Coldiretti/Censis 2014.

Per fare un chilo di pane in casa si spendono 0,45 euro, dal panettiere 3,20 (Tessa Gelisio, Risparmiare in cucina, FiveStore, Milano 2011).

Caldo, il pane pesa il due per cento in più.

«Pane fresco caldo» (insegna fuori da un panificio a Napoli).



Secondo un sondaggio condotto sul sito Coldiretti a luglio 2015, il 46% degli italiani mangia il pane del giorno prima senza buttarlo, il 18% pur di conservarlo lo surgela, il 15% ne fa mangime per animali e il 12% lo grattugia.

Secondo Assipan (l’Associazione italiana panificatori) ogni giorno in Italia vengono sfornati 72mila quintali di pane.

Ogni giorno, in Italia, il valore del pane che finisce nei cassonetti è di 120mila euro: in un anno, sono 43 milioni di euro. Una buona fetta di spreco arriva dalla grande distribuzione. Secondo Assipan ogni giorno finiscono nella spazzatura 13mila quintali di pane messo in vendita dai supermercati.


Aleksandr Solgenitsyn confidò una volta a Predrag Matvejevic che anche dopo l’uscita dal Gulag per anni tenne sotto al cuscino un filoncino di pane.



«Lo scrittore Giuseppe Bonaviri, l’autore del Sarto della stradalunga, mi ricordava sempre la sua infanzia siciliana poverissima, in quel di Mineo, quando i suoi gli mettevano in mano due pezzetti di pane. Pippino, questo è il pane, gli dicevano, e quest’altro pezzetto è il formaggio. È da lì che aveva imparato a sognare ad occhi aperti» (Paolo Mauri).

«Amate il pane, cuore della casa, profumo della mensa, gioia dei focolari / Onorate il pane, gloria dei campi, fragranza della terra, festa della vita / Rispettate il panen sudore della fronte, orgoglio del lavoro, poema del sacrificio / Non sciupate il pane, ricchezza della patria, il più santo premio alla fatica umana» (poesia di Benito Mussolini).

«Si rispetta il pane, sempre. Si insegna ai bambini che non bisogna buttarne via neanche un pezzetto o, se fosse caduto in terra, bisogna baciarne l’angolino pulito prima di liberarsene. Non si spengono le sigarette nel panino, come fanno certe Americane a tavola. Non si spezza il pane prima di servirlo, ma lo si taglia, in cucina, con l’apposito coltello. Invece a tavola il pane non si taglia mai, lo si spezza con le dita» (Il dizionario di Irene Brin, Il Giornale, 6 agosto 2006).


«Avevo tredici anni nel 1944. Dopo quattro anni di guerra l’Italia era ridotta alla fame. Da Milano, eravamo sfollati a Treviglio, a casa di mia nonna. Nel cortile c’era una bottega di prestinaio. Il pane era scarso e tesserato. Molte panetterie erano chiuse. Il figlio del fornaio era mio amico e così cominciai a dare una mano a fare il pane. Il mio primo lavoro è stato il panettiere. Si cominciava a mezzanotte e si finiva a mezzogiorno. Per dodici ore di lavoro mi davano un chilo di pane. Dirlo adesso sembra una miseria. Allora era una grazia della provvidenza: quel chilo di pane che portavo a casa aiutava la famiglia a campare e valeva assai di più di quanto costava in danaro. Ma non c’era nemmeno il pensiero di mettersi a fare paragoni: il pane messo sulla tavola era un atto sacro e si ringrazia Iddio per averlo ricevuto» (Ermanno Olmi).

Le vedove dei soldati piemontesi “medaglia d’oro al valor militare” caduti nella guerra di Crimea ricevevano dal governo “mezza giornata di pane al dì” invece dell’una concessa in genere alle vedove di guerra.


Giulio Andreotti come regalo di fidanzamento offrì a Livia Danese un anellino con brillante e rubino e una forma di pane casareccio, dono prezioso in tempo di guerra. Ad Andreotti la pagnotta era stata regalata da un amico cardinale.

Nel dopoguerra, il pane era «un impasto mostruoso di frumento, granturco, ceci, scorze d’olmo e foglie secche di gelso. Cambiava colore, oltretutto, da un giorno all’altro diventava bianco, poi nero, per tornare a un accettabile grigiore. Pietro Ingrao, una volta, vide in una vetrina di viale regina Margherita “una di quelle cose informi nominata pane. Sapevo benissimo che non era nulla di simile al pane. Ma ho detto: lo mangio lo stesso. Appena ho dato il primo morso, l’ho sputato”» (Filippo Ceccarelli, Lo stomaco della Repubblica).



Nel 1648 il medico-filosofo-matematico Ovidio Montalbani scriveva un discorso ai Senatori di Bologna, per elencare i surrogati del frumento con cui fare il pane nei momenti di emergenza annonaria (Il pane sovventivo spontenascente succedaneo intero del pane ordinario). Oltre a loglio, ghianda, gramigna, lupino, nocciola, sorba, fave, particolarmente consigliati i semi di papavero, già conosciuto dalla medicina galenica come ipnotico, sedativo della tosse stizzosa e del catarro.


Una volta, mentre Federico di Prussia passeggiava a cavallo, un soldato gli si parò dinnanzi, mostrandogli in segno di protesta una pagnotta ammuffita, che aveva ricevuto come rancio. Il re la prese, la mangiò sino all’ultima briciola e disse: «Hai ragione, fa schifo, però non è immangiabile».


Dopo la caduta di Saddam in Iraq i fornai impastavano farina e sabbia, per compensare gli scarsi rifornimenti e non ridurre i guadagni.


Sembra che il primo cereale convertito in pane sia stato l’orzo.

Il pane esisterebbe da circa 22.000 anni, cioè 12mila anni prima dell’agricoltura: in un insediamento sul mar della Galilea, in Israele, un gruppo di archeologi dello Smithsonian Institute di Washington ha trovato una pietra grossa e piatta usata per macinare e una lastra, sempre di pietra, che si ipotizza fosse usata per la cottura di un pane ottenuto dalla macinazione di semi di erbe selvatiche.


Un’alimentazione povera di pane e pasta aumenta i rischi di infarto e ictus. Una ricerca dell’università di Harvard, negli Stati Uniti, ha infatti rivelato che una dieta povera di carboidrati, nei topi, aumenta l’arterosclerosi (+15%), cioè l’accumulo di grasso nelle arterie, via maestra per infarti e ictus.

Eliminando pane e pasta dalla dieta si riduce la memoria e la capacità di concentrazione. È la conclusione di uno studio condotto dagli scienziati della "Tufts University” di Boston. La ricerca ha testato 19 donne tra i 22 e i 55 anni, divise in due gruppi: uno sottoposto a una dieta equilibrata, l’altra povera di carboidrati. Dopo una settimana, le dieci donne del secondo gruppo dimostravano uno stato mentale ben peggiore rispetto a quelle del primo gruppo: poca memoria, ridotta attenzione visiva e spaziale, tempi di reazione più lenti, e più difficoltà a riconoscere oggetti e volti. Secondo i ricercatori, il basso contenuto di carboidrati riduce la quantità di glucosio, cioè di zucchero, nel sangue, che viene trasportato al cervello e utilizzato dalle cellule nervose per l’energia. Privarsi di pane e pasta, in pratica, sottrae al cervello «carburante» indispensabile per alimentare i neuroni.



L’origine del pane si perde in quella dell’agricoltura e della coltivazione dei cereali. Il popolo che, secondo Erodoto, “fece ogni cosa in modo diverso dai comuni mortali” e diede un contributo enorme alla civiltà usando il grano in modo differente fu il popolo egiziano: mentre altri popoli temevano che il loro cibo si corrompesse, essi mettevano in disparte la loro pasta finché si alterava e osservavano con piacere il processo che avveniva. Era il processo della fermentazione.

In Egitto il pane era anche il cibo destinato alla vita ultraterrena: un architetto aveva sistemato nella tomba dell’amata moglie a Deir-elMedina cinquanta forme di pane che oggi si possono vedere al museo Egizio di Torino.


In Egitto si ricavava farina anche dal loto, come racconta Erodoto. Ma i mangiatori di pane di loto (i lotofagi) erano considerati più primitivi di coloro che usavano la farina di frumento.

Stupore di Erodoto perché gli Egizi impastavano l’argilla con le mani e la farina per il pane con i piedi.


I Greci usavano disegnare sui forni facce orribili di demoni per impedire ai curiosi di aprire le porte rovinando la lievitazione del pane.

Nell’antica Grecia si sfornavano settantadue tipi di pane. Dal semidelites, fatto con fior di farina di frumento, al daraton tessalico, che era senza lievito. Dalla bromite, fatta di sola avena selvatica alchondrites, ricercatissimo per il suo sapore di cruschella, dal candido zymites lievitato e fragrante, fino alla comunissima matza, la focaccia d’orzo che è arrivata fino ai nostri giorni.

Nell’Atene di Pericle i grandi fornai erano delle autentiche star, come gli chef di oggi. Primo fra tutti Tearione, che Platone definiva «mirabile terapeuta dei corpi» grazie alle virtù miracolose dei suoi prodotti da forno.


In epoca romana i primi panettieri furono soprattutto liberti o cittadini di umile condizione, in buona parte Greci. Essi avevano la protezione dell’amministrazione romana, che accordò loro privilegi e aiuti per impiantare l’attività. Questo era dovuto al fatto che a Roma serviva molto pane, perché ogni giorno ne venivano distribuite razioni gratis al popolo. Nei panifici (pistrina) si realizzavano numerose varietà di pane più o meno scadente a seconda della qualità della farina; la forma poteva essere allungata o rotonda.


Al tempo di Augusto a Roma si contavano trecentoventinove panetterie.

Plinio ci parla di vari tipi di pane. Per esempio del panis streptipcius, forse un antenato dell’odierna pizza (era composto da un impasto leggero di farina, acqua, latte, olio, strutto e pepe, e veniva cotto rapidamente a sfoglie sottili), dell’artologalum (una sorta di sfoglia che serviva da antipasto), del panis adipatus (condito con pezzi di lardo e pancetta), del panis testicius (antenato della piada romagnola) preparato e consumato dai legionari nei loro accampamenti. Ma i pani erano moltissimi. Ad esmepio alle offerte sacrificali era riservato l’ador, alle mense imperiali il palatius e a quelle dei ricchi il bianco e finissimo siligineus. Sulla tavola dei poveri compariva il nero panis plebeius, gladiatori ed atleti si cibavano del nutriente canfusaneus, la bisaccia dei soldati conteneva il castrensis, sulle navi si trovava il nautilus. Il gradilis veniva invece distribuito al popolo durante i giochi negli anfiteatri.

Le prostitute della Roma imperiale si facevano pagare in media 2 assi (il prezzo di una fetta di pane).


I "sitophylakes" (sorveglianti del grano), funzionari ateniesi cui spettava il compito di sorvegliare che il grano non lavorato fosse messo sul mercato al prezzo giusto, che i panettieri vendessero in proporzione ai costi e che i pani avessero il peso stabilito.

Nell’Europa del Medioevo, coloro che si macchiavano di delitti contro la comunità e contro l’umanità (ad esempio i profanatori di tombe) venivano esclusi dal consumo di pane.

Un tempo i fornai impedivano ai boia l’ingresso nella loro bottega. E quando in Francia Carlo VIII li obbligò ad accettare quei clienti così sgraditi, i panettieri gli rovesciavano la pagnotta sul banco in segno di disprezzo. Da questo antico uso deriva il nostro tabù del pane rovesciato, considerato un segno di cattivo augurio.

Secondo una diffusissima credenza popolare, capovolgendo il pane sulla tavola si commettono tre peccati: si volta la faccia a Gesù, si fa cadere la Madonna dalla sedia e si fa soffrire l’anima di un parente defunto in Purgatorio.

Dal pane derivano parole come compagno, dal latino cum panis, per indicare la reciprocità che lega coloro che condividono il nutrimento.

Un tempo in tutta Europa, durante le feste comandate, i poveri ricevevano pagnotte in dono. E ancora pani venivano scambiati come dono di fidanzamento o di nozze, riprendendo così l’antichissimo rituale romano della confarreatio, durante il quale gli sposi spezzavano una focaccia di farro in onore di Giove.

La preghiera dei cristiani che mette insieme il padre nostro e il pane quotidiano.


I russi mangiano preferibilmente pane nero, ossia il pane di segale lievitato. Il pane è l’alimento più importante in assoluto: accompagna ogni piatto e viene sempre servito in abbondanza. Non c’è banchetto che non sia accompagnato da una bella pila di fette di pane nero. Aleksndr Puskin diceva: «E’ dura la vita per un russo a Parigi; non ha nulla da mangiare, e non c’è pane nero». In Russia esistono tuttavia altri tipi di pane: i panini di farina di frumento si chiamano bulki, termine che deriva dal francese boulanger, ossia fornaio. L’altro tipo di pane bianco è il kalac, cioè il “pane con sale”, considerato un vera leccornia. Per dire che uno resiste a ogni tentazione i russi dicono: «Quello lì non lo incanti nemmeno con un kalac».


Durante la campagna di Russia le pagnotte rotonde occupavano troppo spazio negli zaini, sottraendolo agli indumenti pesanti necessari nel gelo della steppa. Bonaparte ordinò allora che si desse al pane una forma allungata, in modo che i soldati potessero infilarlo nei pantaloni (di qui l’origine della baguette).

L’Italia vanta circa 300 specialità regionali di pani: la pitta in Calabria, la rosetta nel Lazio, il pan de frizze nel Friuli, la coppia ferrarese e la piadina in Emilia-Romagna, il pane d’Altamura in Puglia, il pane carasau in Sardegna, il pane mica e i grissini torinesi in Piemonte, il pane forte in Sicilia, il pane sciocco, cioè senza sale, in Toscana, il pane cafone in Campania, ecc.

Nell’anno 37 a.C. e, nella V Satira del I libro, Orazio scrive a proposito del territorio murgiano: «Ma vi si trova un eccellente pane,/ Tal che in uso ha l’accorto viaggiante / Di caricarne il dorso». L’attività di panificazione di Altamura è poi confermata negli Statuti municipali della città, redatti nel 1527, in cui si legge dei “Dazi del Forno”. Nel paese, per la cottura del pane ci si serviva dei forni pubblici (uno dei più antichi, tuttora funzionante, è quello di Santa Chiara, la cui costruzione risale al 1423), dal momento che ai cittadini era fatto divieto di cuocere nelle proprie case, pena il pagamento di una multa pari a un terzo del valore complessivo della panificazione. Le donne, dunque, impastavano il pane a casa, preparavano pagnotte di grandi dimensioni, cinque o dieci chili ciascuna, cui davano la forma poi rimasta nella tradizione (detta “u sckuanète”), e andavano a cuocerlo presso i forni a legna pubblici. Per evitare confusioni, ogni pagnotta veniva marchiata con un timbro di ferro riportante le iniziali del capofamiglia proprietario del pane. Ciascuna famiglia altamurana aveva il proprio timbro. A cottura avvenuta, il fornaio provvedeva a distribuire le pagnotte casa per casa, trasportandole su un lungo asse di legno. Il suo compenso consisteva in un pezzetto di pasta cruda (il cosiddetto “cecì”) che, mescolato ad altri, sarebbe servito il giorno successivo per la preparazione di nuove pagnotte.

La preparazione del pane di Altamura è suddivisa in cinque fasi: impastatura, formatura, lievitazione, modellatura, cottura nel forno. Dal tradizionale metodo di panificazione deriva anche l’uso del lievito madre. In particolare, per 1 quintale di semola rimacinata di grano duro la ricetta prevede l’uso di 20 chili di lievito naturale, 2 chili di sale marino, 60 litri di acqua alla temperatura di 18 °C. Le pagnotte sono ancora oggi prodotte secondo due forme tradizionali: oltre alla “u sckuanète” – forma alta, con la pasta accavallata su se stessa e senza baciatura ai fianchi (la “cicatrice” delle pagnotte cotte in sequenze incollate) – c’è quella denominata “a cappidde de prèvete” (a cappello di prete): più bassa e senza baciature. Il peso delle pagnotte varia dai 500 grammi ai 2 chili. Lo spessore della crosta non deve essere inferiore a 3 millimetri.

Tutti i tipi di pane nel presepe napoletano: «Ammazzaruto (senza lievito o lievitato male), cocchiatella (composto da due pezzi), freselle (pane biscottato da inzuppare nel brodo o da mangiare ammollato nell’acqua e condito con pezzetti di pomodoro, origano e sale), francese (tenero, a focaccia), granorino (di granone, di granoturco), janco (bianco), niro (nero), panella (pane rotondo che si mangia raffermo), schiavonisco (da mangiare con il vino), spagnuolo (pan di Spagna), tortani (pane a forma di ciambella fatto con sugna, ciccioli, salame, pepe, ecc..), uorgio (pane d’orzo).

Gusti di gelato: a Firenze al pane toscano, a Lecce al pane di Altamura.


La pagnotta nel Guinness dei Primati: lunga più di un chilometro, impastata a Ragusa da 18 fornai usando 1.300 chili di farina.

I significati originari delle parole inglesi lord e lady sarebbero, rispettivamente, «guardiano della pagnotta» e «colei che fa il pane». Lord deriverebbe infatti dalla contrazione di loaf-ward. A battaglia conclusa (e vinta), il capo tagliava a fette di misure diverse il pane, e lo divideva con i cavalieri, dandone a ciascuno in proporzione al merito e al valore. La moglie del capo, naturalmente, aveva anche lei un ruolo in questa cerimonia: brava donna di casa, preparava il pane. Lady, infatti, sarebbe la contrazione di loaf-doing.

Il filosofo Jacques Maritain che a fine pasto lanciava palline di mollica di pane alla moglie Raïssa.

Un mese dopo la morte di Vermeer, avvenuta a quarantatré anni, la moglie fu costretta a vendere due suoi dipinti al panettiere, in cambio di una provvista di pane di tre anni.

Il pane al centro di un capitolo de I Promessi Sposi, con Renzo che assiste al “tumulto di San Martino”, la sommossa dell’11 novembre 1628 provocata da un inaccettabile rincaro del prezzo del grano. Ma le “rivolte del pane” furono innumerevoli: da quella di Fermo nel 1648, causata dal trasferimento delle riserve granarie a Roma, a quella di Fano nel settembre del 1791, quando le donne saccheggiarono un magazzino di grano per protesta verso un aumento immotivato dei prezzi e diedero avvio a una serie di tumulti che si propagarono nelle città vicine. A Milano, nel 1898, la “protesta dello stomaco” cominciò a causa del rincaro dei prezzi del pane e terminò nella sanguinosa repressione di Bava Beccaris; nel 1944, la “strage del pane” di Palermo fu un eccidio di donne e bambini che protestavano per la fame e invocavano “pane e lavoro”.

La frase che avrebbe pronunciato la regina Maria Antonietta vedendo davanti al palazzo reale una folla inferocita di parigini che chiedeva pane: «Se non hanno pane, dategli delle brioches».


«Pane e cicoria» si anagramma in «acre piacione» (Stefano Bartezzaghi).

«Durante la grande depressione del Ventinove, a Central Park i piccioni portavano briciole di pane ai passanti» (Groucho Marx).