varie, 28 marzo 2016
DESERTO PER SETTE
Dal 2005 si parla di una piantagione grande un terzo dell’Italia, una cintura larga 15 chilometri e lunga 7.400, che dovrebbe fasciare l’Africa da un oceano all’altro, attraversando 11 Paesi da Dakar a Gibuti, studiata per frenare l’avanzata del Sahara verso Sud, ridurre la desertificazione del Sahel, ridare fiato a un polmone forestale che nel continente nero si riduce (dati Fao) dell’1% all’anno. Finora il governo del Senegal è stato l’unico a metterci mano, piantando una fila di 12 milioni di alberi per oltre 150 km. Ora però dovrebbero cominciare anche gli altri. Dopo la Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici, il «Great Green Wall» sembra aver fatto un decisivo passo avanti. Un recente comunicato dell’Unione Africana, madrina del progetto, fissa i paletti del «più grande piano di sviluppo rurale» mai concepito sul continente. I leader mondiali, guidati dal francese François Hollande, «si sono impegnati a versare 4 miliardi di dollari per i prossimi cinque anni». L’obiettivo da qui al 2025 è «rinverdire» e riconquistare 50 milioni di ettari. Quella barriera di miliardi di alberi dovrebbe ridurre l’erosione del suolo, frenare il vento del deserto che spinge la sabbia, favorire la permanenza dell’acqua piovana nel terreno. E dare una prospettiva economica: secondo le stime Onu due terzi della terra coltivabile in Africa potrebbero andare perduti nel giro di 10 anni, se continuasse il tasso di desertificazione attuale (Farina, Cds).
La desertificazione è una piaga che interessa 500 milioni di persone e il 40% di quella fascia di Africa che si estende sotto il Sahara (ibidem)
Secondo il Cnr, è a rischio desertificazione quasi il 21% del territorio italiano, il 41% del quale si trova al Sud. Mauro Centritto, direttore dell’Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree del Cnr: «In Sicilia le aree che potrebbero essere interesate da desertificazione sono il 70%, in Puglia il 57%, nel Molise il 58%, in Basilicata il 55%, mentre in Sardegna, Marche, Emilia Romagna, Umbria, Abruzzo e Campania sono comprese tra il 30 e il 50%».
Il deserto di sabbia più grande del mondo è il Sahara, che si estende per 8.600.000 km².
Albero Angela colleziona sabbie del deserto.
Milioni di anni fa il Sahara era una zona ricca di laghi e prati. A provarlo è la presenza di una falda acquifera sotto le sabbie della Libia e dell’Egitto scoperta da un gruppo internazionale di ricercatori. Gli scienziati, poi, attraverso una tecnica innovativa basata sullo studio di un rarissimo isotopo radioattivo, sono riusciti a determinare l’età della falda: da 200 mila a un milione di anni.
Negli ultimi 50 anni sono aumentate di dieci volte le tempeste di sabbia nel deserto del Sahara. Principali responsabili del fenomeno, secondo Andrew Goudie dell’Università di Oxford, le jeep usate per attraversare il deserto. A differenza dei più tradizionali cammelli, le automobili rovinano la superficie protettiva di alghe e licheni che impedisce ai venti di sollevare la sabbia del deserto.
I guerriglieri afghani che combattevano contro l’Armata Rossa, quando catturavano un soldato russo, lo torturavano in 100 modi diversi. A volte gli staccavano la pelle e poi lo coprivano con la sabbia calda del deserto.
Gli antichi egizi chiamavano il deserto ”scint” (necropoli) oppure ”deshert” (terra rossa) o ancora ”kashet” (regione montuosa).
Il racconto biblico degli ebrei che, in fuga dall’Egitto e ormai sfiniti dalla fame, s’imbattono nel deserto in un cibo misterioso, la manna, che sembra cadere dal cielo e che gli consente di nutrirsi e di sopravvivere. Secondo alcuni botanici si tratterebbe del lichene del Sahara, che vive senza fissarsi a un supporto e vagando qua e là sulle dune, spinto dal vento.
Contrariamente alle dune dei deserti di tutto il mondo, modellate dagli agenti meteorologici, quelle del deserto cinese del Badain Jaran, alte fino a 500 metri, resistono ad acqua e vento come fossero di roccia. Il mistero è stato chiarito da una ricerca svolta dall’Università del Queensland (Australia) e da quella di Pechino: sotto la superficie arida, la sabbia delle dune è fortemente compattata dalla presenza dell’acqua proveniente dal monte Qilian, che la rende resistente agli agenti atmosferici.
Al soffio del vento o per effetto del calpestio, le dune cantano: emettono suoni, diversi a seconda della dimensione dei granelli di sabbia. Lo rivela uno studio condotto dai ricercatori dell’Università Paris Diderot. Non tutte le dune cantano, ma tutte quelle che lo fanno sono composte da sabbia asciutta e ben ordinata. E in secondo luogo, il suono è generato spontaneamente quando la sabbia scivola verso il basso su un fianco della duna, a causa dell’azione del vento o del calpestio. Inoltre, mentre alcune dune hanno la capacità di emettere un suono fino a 110 decibel, a una frequenza ben definita, altre invece intonano più note contemporaneamente. Per capire a cosa sia dovuta questa differenza, il fisico Simon Dagois-Bohy ha registrato «in presa diretta» il canto di due dune: una vicino Tarfaya, città portuale nel sud-ovest del Marocco, e una nella città costiera di Al-Askharah nel sud-est dell’Oman. In Marocco, la sabbia canta in sol diesis, costantemente a 105 hertz circa. La duna dell’Oman, invece, «canta molto bene, ma è impossibile identificare una singola frequenza»: genera infatti una cacofonia, emettendo più suoni in ogni possibile frequenza tra 90 e 150 hertz, ovvero dal fa diesis al re. A quanto pare, il suono emesso, o meglio le caratteristiche spettrali molto diverse dipendono dalla dimensione dei granelli di sabbia. Una duna composta da granelli polidispersi produce uno spettro acustico molto ampio e rumoroso, mentre una duna di grani più omogenei produce una frequenza ben definita. La duna dell’Oman è formata infatti da granelli il cui diametro varia dai 150 ai 310 micron (milionesimi di metro): una gamma molto più ampia rispetto alle controparti marocchine, dalle dimensioni di 150-170 micron.
Charles Darwin, nei suoi racconti di viaggio in Cile, ha scritto che i cittadini della valle di Copiapó avevano soprannominato una collina di sabbia «El Bramador» per i gemiti che emetteva quando la sabbia scorreva lungo il pendio.
Le dune Mingsha, in Cina, alte circa 1.700 metri e larghe 20. Durante le belle giornate gli abitanti della vicina città di Dunhuang sentono come un grido provenire da queste gigantesche montagne di sabbia. Il motivo non è ancora chiaro e i ricercatori fanno solo delle ipotesi: per qualcuno sarebbe la particolare composizione della sabbia a farle riecheggiare per altri è solo il risultato di uno strano effetto di risonanza. Per ora di sicuro c’è solo una leggenda: un principe crudele in tempi molto antichi avrebbe, con la magia, spostato una duna per seppellire i devoti che durante le cerimonie religiose coi loro canti disturbavano il suo riposo. Oggi le loro anime rimaste sotto metri di sabbia piangono la loro sventura.
La Maratona delle Sabbie, una corsa di sette giorni nelle dune marocchine del deserto del Sahara, temperatura media di 40° C. Ogni anno centinaia di maratoneti partecipano a questa competizione, considerata la più difficile del mondo, portandosi sulle spalle le provviste e i vestiti necessari per tutta la settimana. Alla fine possono riposare in tende berbere, godendosi l’unico lusso concesso dagli organizzatori: la quotidiana razione di nove litri d’acqua.
Coober Pedy, una cittadina che si trova nel mezzo al deserto a circa 850 chilometri da Adelaide, nel Sud dell’Australia. A Coober Pedy gli abitanti vivono sotto terra, all’interno di ex miniere trasformate in comodi appartamenti. D’estate le temperature del deserto australiano toccano i 40°C, ma sotto terra sono molto più basse e costanti. Mentre in superficie il posto sembra piuttosto deserto, con poche case, qualche locanda e ristorante, la stazione di polizia, una scuola e l’ospedale, l’altra metà della città si sviluppa sotto terra: ampie grotte e gallerie chiamate rifugi, dove gli abitanti hanno costruito case, alberghi, bar, ristoranti e perfino una chiesa.
Pintupi, ultima tribù selvaggia scacciata dal deserto occidentale australiano dai bianchi. Fino alla fine degli anni Cinquanta, nudi sulle dune, avevano continuato a cacciare e a cercare cibo. Il governo dichiarò che voleva salvarli e li caricò su camion e li installò in campi a ovest di Alice Springs: cominciarono a bere, si accoltellarono con uomini di altre tribù, morirono falcidiati dalle epidemie.
Popolazioni che vivono nel deserto: gli uyguri del Taklimakan in Cina, i tuareg del Sahara, i beduini di Ramlat al-Wahiba, i nomadi dell’Afghanistan, i kashkai dell’Iran, i pastori del Karakum, gli indiani del Thar, i nomadi del Ladakh e quelli tibetani, gli aborigeni australiani, i navajo del Nuovo Messico, le popolazioni della Bolivia, i san del Kalahari in Botswana, gli himba del Namib. Sopportano altitudine estreme, escursioni termiche estreme, con un sole che batte implacabile tutto il giorno e il freddo che arriva improvviso la notte, poco cibo, niente acqua, spazi immensi, solitudine, comunicazioni scarse o nulle.
I Tuareg, popolazione seminomade che vive nelle regioni centrali del deserto del Sahara, anche detti «uomini blu» per via dei veli e degli abiti tinti con l’indaco che lasciano una traccia bluastra sulla loro pelle. Hanno come abitazione tradizionale una tenda poligonale e bassa, fatta di stuoie e pelli. Portati da uomini e donne, i gioielli tuareg sono d’argento, pietre e cuoio. Molto tipici, alcuni hanno forma di croce. Nella «cerimonia del tè» i tuareg ne offrono tre bicchieri: amaro come la vita, forte come l’amore, dolce come la morte.
«Un te senza schiuma è come un Tuareg senza turbante» (proverbio Tuareg).
Azalai. In lingua tuareg le enormi carovane di cammelli che ancora oggi durante i sei mesi invernali attraversano il deserto del Sahara con carichi di sale. Ognuno degli animali da soma - centinaia se non migliaia - porta di regola quattro pani di sale, cioè circa 140 chili. I cammellieri pagano un diritto di passaggio alle tribù di cui attraversano il territorio, ricevendone in cambio protezione contro i predoni.
La fauna desertica è altamente specializzata ed è costituita in gran parte da animali di piccola taglia o insetti che hanno adattato al luogo il loro organismo, il loro metabolismo e il loro corpo. Molti hanno sviluppato arti capaci di non farli affondare nella sabbia, come il gerbòa, un piccolo roditore. Vivono tutti prevalentemente di notte (è il momento in cui scorpioni e rettili escono dalle tane per cacciare), riservando ai rari periodi di pioggia la riproduzione e le altre attività che richiedono grande dispendio di energie.
Il fennec o volpe del deserto (fennecus zerda), che possiede robuste zampe con cui scava nelle dune delle gallerie lunghe anche una decina di metri dove la temperatura è più fresca (a un metro circa di profondità) e lì dorme durante il giorno. Riesce anche a raffreddare la temperatura corporea usando come radiatori le lunghe orecchie irrorate dai vasi sanguigni.
Il cammello e il dromedario hanno la capacità di attraversare i deserti senza soffrire il caldo. Resistono per lunghi periodi senza bere, grazie alle poche ghiandole sudoripare che limitano la dispersione dei liquidi. Durante i loro viaggi perdono anche il 30 per cento del loro peso senza morire. Si nutrono di piante molto succose ma anche di arbusti spinosi e possono dissetarsi con acqua salmastra senza disidratarsi.
Il dromedario può tollerare variazioni della propria temperatura interna da 34°C fino a 41°C, una differenza che ucciderebbe qualunque altro mammifero e che consente di limitare al minimo le perdite d’acqua. Inoltre può sopravvivere a un calo del 30% del peso corporeo (il 15% è letale per tutti gli altri mammiferi). Tuttavia è anche in grado di reidratarsi molto velocemente: infatti un adulto può bere fino a cento litri d’acqua in circa dieci minuti.
Per proteggersi dalla sabbia il dromedario ha sviluppato delle caratteristiche uniche: le orecchie sono piccole e rivestite di pelo, i grandi occhi sono protetti da due file di lunghe ciglia e schermati dai raggi del sole da sopracciglia folte e scure. Labbra e bocca sono dure per masticare le piante spinose del deserto. Le zampe sono larghe e piatte, dotate di un ampio cuscinetto calloso per camminare sulle dune di sabbia senza affondare.
Ata Allah, dono divino, così viene chiamato il dromedario dai beduini del deserto.
Abitante del deserto della Namibia, lo scarafaggio della nebbia riesce a catturare gocce d’acqua dalla nebbia costiera, sulle sue gambe posteriori, mettendosi a testa in giù nella sabbia.
Un gruppo di ricercatori dell’università di Haifa, in Israele, ha scoperto, nel deserto del Negev, una pianta grassa che è capace di annaffiarsi da sola, grazie alla struttura particolare e alla forma speciale delle foglie, che convogliano tutta la poca acqua piovana disponibile nel deserto verso la radice e sul terreno circostante. La pianta in questione si chiama Rheum palaestinum, in sostanza è un rabarbaro del deserto. Il principale segreto del rabarbaro del deserto è come ha sviluppato la forma delle sue grandi, larghe foglie. Ognuna sembra un territorio montuoso visto dall’alto, percorso da tante piccole valli. Quell’intrico di solchi sulla superficie superiore delle foglie del rabarbaro del deserto non è casuale: i solchi sono disposti in modo da far convergere e cadere l’acqua verso la base e la radice della pianta, ogni volta che cade qualche goccia.
La rosa di Gerico è in grado non solo di assorbire tutta la poca acqua dei territori desertici o semidesertici dove cresce, ma anche di restare in vita in lunghi periodi di siccità. Anche chiamata “rosa della Resurrezione”, in apparenza si secca del tutto. Invece non è così. È capace di restare viva ma quasi dormiente, come in un letargo da siccità, fino a dieci anni circa, e anche ricevendo acqua solo dopo tanto tempo improvvisamente ritorna vitale.
I viaggi nel deserto di Patty Pravo, che ama «il silenzio assoluto, solo il rumore del vento che passa sulla sabbia».
«Dio ha creato i luoghi ricchi d’acqua perché l’uomo possa vivere e ha creato il deserto perché possa trovare la propria anima» (antico proverbio tuareg).
«Il deserto: dove c’è Dio e non c’è l’uomo» (Victor Hugo).