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 2016  marzo 28 Lunedì calendario

SPEZIE PER SETTE

Nello studio elaborato per il cluster Expo delle spezie dall’Università di Venezia si legge che le spezie conosciute sono 288. Altri numeri: il mercato delle spezie è cresciuto negli ultimi trent’anni del 177 per cento; oggi è l’India il Paese leader al mondo con poco meno della metà dell’intera produzione mondiale, al secondo posto la Cina, con circa il 10 per cento del totale, poi l’Indonesia con le sue Molucche; nel mondo ci sono 350 mila tonnellate di pepe contro 20 milioni di tonnellate di caffè (Saldutti, Cds, 13/10).

A settembre 2014, per il secondo anno consecutivo, i volumi delle vendite di spezie sono cresciuti in Italia dell’8,6 per cento muovendo un giro d’affari di 62,3 milioni di euro. In testa Toscana, Umbria, Marche, Lazio e Sardegna, mentre a valore è il Nord Ovest del Paese a primeggiare. Il Sud e le isole, invece, registrano bassi consumi.

Le spezie più utilizzate nella cucina italiana sono circa una trentina, tra cui pepe, zenzero, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, coriandolo, cumino e curcuma, zafferano, ginepro, peperoncino.

L’uso di spezie era già diffuso all’epoca dei romani, che pure ancora non conoscevano i chiodi di garofano e la noce moscata. Nell’antichissimo testo di cucina romana di Apicio, più dell’80 per cento delle ricette richiede l’uso del pepe. E nel I secolo dell’era cristiana Plinio il vecchio si rammarica dell’eccessivamente diffuso ricorso al pepe fino a definire questa abitudine «un segno della follia popolare».

Alarico, re dei Goti, nel 408 tolse l’assedio a Roma in cambio di 30mila libbre d’argento e 3mila libbre di pepe.

Il monaco benedettino Costantino l’Africano (1020-1087 dopo Cristo) nel trattato De coitu elencò diciotto prodotti– tra i quali zenzero, cannella e chiodi di garofano – come i più efficaci rimedi contro l’impotenza e per altri problemi sessuali.


Nell’Europa del Basso Medioevo, gli uomini più ricchi arrivavano a consumare due chili di spezie l’anno.

Vista la loro preziosità, l’uso di spezie e zucchero nelle ricette del 1300 è spesso quantificato con «più che puoi», «più che ti puoi permettere». Spezie e zucchero sono simbolo di ricchezza e di potere, esibiti il più possibile dall’ospite nei confronti dei suoi invitati.


Durata del banchetto di nozze di Bonifacio di Canossa e Beatrice di Lorena, XII secolo: tre mesi, durante i quali le spezie, anziché tritate al mortaio, furono macinate ai mulini.

Nel Rinascimento la doratura delle pietanze per i tavoli dei ricchi venivano fatte con vere scaglie d’oro, considerato un medicinale importante oltre che un grande segno di ricchezza e prestigio. I meno ricchi si accontentavano di dorare il cibo col rosso d’uovo o con lo zafferano.



Il riformatore inglese del Trecento John Wycliffe sostenne, in un libello sull’Anticristo, che le spezie e gli altri alimenti di gran lusso erano il simbolo di un livello di perversione apocalittico. Anche Dante mette le spezie nell’Inferno, per la precisione nel canto XXIX, dove si racconta della punizione degli alchimisti (Capocchio) e di quei senesi, come Niccolò dei Salimbeni, «che la costuma ricca del garofano (i chiodi di garofano, ndr ) prima discoperse».



Dal libro delle spese domestiche del conte di Oxford nel 1431-32 risulta che si poteva ottenere un maiale intero per quattro etti e mezzo di una delle spezie meno care, il pepe. Un consuntivo compilato dall’amministrazione della famiglia Talbot nello Shropshire mostra che la spesa mensile per le spezie corrispondeva quasi al millesimo a quella destinata alla compera di carni bovine e suine.


Gli storici che hanno studiato il bilancio giornaliero delle famiglie reali hanno mostrato che l’acquisto di spezie copriva una parte sostanziosa del bilancio complessivo destinato all’alimentazione dei re e del loro ampio entourage. Il loro costo era altissimo. John Munro, uno storico dell’Università di Toronto che ha calcolato i prezzi dei cibi in Inghilterra nel 1439, ha stabilito che mezzo chilo di chiodi di garofano costava ben quattro giorni e mezzo di lavoro, occorrevano tre giorni per la stessa quantità di cannella; per poco meno di mezzo chilo di zafferano ci voleva addirittura l’equivalente di un mese di lavoro. I re di Aragona-Catalogna hanno offerto e consumato fiumi di vino speziato, mentre nelle corti inglesi il veicolo favorito per la comparsa in tavola delle spezie erano le salse.



Nel 1506 l’ambasciatore Querini della Repubblica di Venezia nella sua relazione al Senato elencava le quotazioni del pepe: alla partenza dalle terre d’Oriente valeva tre, all’approdo a Lisbona il suo valore era già salito a 22. La noce moscata delle Molucche iniziava il suo lungo viaggio per mare valendo tre per essere venduta in Portogallo cento volte più cara (ibidem).


La Borsa di Anversa, nel 1541, per le forti oscillazioni delle quotazioni delle spezie, dovette vietare le «scommesse» (alle spezie si deve l’«invenzione» della speculazione finanziaria). Persino le tasse in qualche modo nascono con le spezie: gli Stati trattenevano il 30 per cento del valore.

Molti naviganti non sarebbero mai partiti se non fosse stato per cercare le spezie. Si deve al portoghese Antonio de Abreu nel 1511 l’arrivo alle isole Banda, duemila chilometri a est di Giava, per arrivare da dove provenivano noce moscata e chiodi di garofano.

Negli archivi del Porto di Venezia è stato ritrovato un progetto per Suez che risale al 1504: i veneziani volevano battere i portoghesi che portavano a Lisbona le spezie. Il progetto non venne mai realizzato.

In Europa il peperoncino arrivò con Cristoforo Colombo, che aveva solcato il mare alla ricerca di una via più breve per arrivare alle Indie, ove ci si approvvigionava di quelle preziose spezie la cui richiesta in Europa era considerevolmente aumentata. Poiché l’offerta non bastava a colmare l’aumento della domanda, bisognava trovare nuove strade per approvvigionarsi di pepe. Non era proprio quello che cercava, ma ad Haiti Colombo riuscì a trovare qualcosa di meglio, come riferì in una relazione di viaggio del 1493: «Inoltre c’è molto “axi”, che è il loro pepe, di quello che vale più del pepe e tutta la gente non mangia senza di esso, che lo trova molto sano». Colombo non si limitò al dare agli abitanti del nuovo mondo il nome di indiani, ossia abitanti dell’India, ma battezzò con il nome di pimiento, ossia pepe, il peperoncino: in entrambi i casi diede i nomi di quello che si aspettava di trovare. Creando non poca confusione nei secoli a venire.

Il gesuita Josè de Acosta a proposito del peperoncino nella sua Storia naturale e morale delle Indie Occidentali (1590): «Ha effetti deplorevoli, perché è di natura molto calda, volatile e penetrante, e il suo impiego ripetuto è pregiudizievole alla salute dei corpi dei giovani e ancor più alla loro anima, poiché incita alla sensualità».


Al tempo della Riforma, il poeta satirico tedesco Urlich von Hutten si espresse in modo assai aspro nei confronti della seduzione di mercanti stranieri che invogliavano i connazionali del poeta a spendere il proprio denaro per «quei maledetti pepe, cannella, zafferano, chiodi di garofano» e attribuì alla nefasta influenza delle spezie la decadenza morale del suo tempo. Tale condanna ebbe immediatamente un’eco nelle parole di Martin Lutero.


Nel 1648, quando la principessa francese Maria Luisa di Gonzaga si recò in Polonia per incontrare il re Giovanni II, suo promesso sposo, furono organizzati sontuosi banchetti, ma i piatti erano così carichi di spezie da risultare, riferisce un testimone, «immangiabili».

Nel 1665 il poeta francese Nicolas Boileau scrisse Il pasto ridicolo, pungente satira nei confronti di pepe, cannella e chiodi di garofano.

Se nel Trecento le spezie erano presenti nel 70 per cento delle ricette, nel Cuisinier roial et bourgeois, un testo culinario francese del 1691, si riducevano a un numero ridottissimo. E uno dei tratti distintivi della rivoluzione gastronomica francese del Settecento fu proprio il rifiuto delle spezie.

Nel 1667, Run, una minuscola isola produttrice di noci moscate dell’arcipelago Banda, fu scambiata dagli inglesi con l’insediamento olandese di Nuova Amsterdam, il futuro centro di New York.




La passione per le spezie tipica della cucina medioevale si affievolì con l’arrivo del Rinascimento. Il pepe nero rimase comunque una spezia di successo, ma la fama di cui godeva nelle cucine blasonate non si estese al peperoncino, che riscuoteva invece maggior fortuna fra i contadini e il popolino: lo si usava per insaporire pietanze povere, tristi e sciape, o per “disinfettare” sapori di carni o pesci poco freschi. Anche per questo motivo al peperoncino fu riservata scarsa attenzione nei più noti trattati gastronomici nazionali. Nel 1773 viene citato dal napoletano Vincenzo Corrado, in Il cuoco galante, quale ingrediente nella preparazione di salse; nel 1839, sempre a Napoli, anche Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino nel suo Cucina casarinola co la lengua napoletana, appendice alla seconda edizione di La Cucina Teorico Pratica, lo usa per insaporire la salsa di pomodori.

La sera dell’8 marzo 1931, Filippo Tommaso Marinetti inaugura la Taverna Santopalato a Torino; nel suo “antipasto intuitivo”, il peperoncino viene servito intero, ma all’interno cela bigliettini con motti quali «Vivi pericolosamente».

Una delle caratteristiche del peperoncino di Calabria è la sua elevata piccantezza. Per quantificarne il grado c’è un’apposita scala di misurazione, la Scala di Scoville, basata sul contenuto di capsaicina. Quello calabrese è al settimo gradino della scala, con una gradazione che varia da 15.000 ai 30.000 Shu (Scoville Heat Units).

Il peperoncino di Calabria appartiene alla specie del Capsicum annuum, la più diffusa con molte varietà e centinaia di cultivar. Le specie calabresi sono l’abbreviatum, l’acuminatum, il fasciculatum e il caerasiferum, che tradotti in calabrese, ovvero con denominazioni popolari e dialettali, si chiamano rispettivamente: Naso di cane, Guglia o Spingoletta, Sigaretta, Ceraso o Cerasella o Cerasiello. Il Naso di cane ha forma conica, il Guglia o Spingoletta è allungato e leggermente ricurvo, il Sigaretta è dritto e sottile, mentre gli altri sono tondi e simili a ciliegie.

La Calabria ha il primato di regione con il maggior numero di specialità gastronomiche piccanti. Una su tutte: la celeberrima ’nduja, il salame morbido tipico dell’altopiano del Poro in provincia di Vibo Valentia. È fatta con la carne di scarto del maiale, quella più grassa, macinata e mescolata con peperoncino rosso: 250 grammi ogni chilo di carne. L’impasto riposa in madie di legno per qualche giorno, poi viene insaccato nell’orba (il budello cieco del maiale) e lasciato affumicare con essenze resinose e aromatiche. La ’nduja è pronta dopo un anno di stagionatura.

«I calabresi emigrati in America agli inizi del Novecento si portano in tasca un peperoncino come portafortuna e come ricordo della patria lontana. Quelli che restano in Calabria si affidano al peperoncino per riscaldare le loro pietanze senza sapore, per risolvere i loro problemi di salute, per sentirsi più forti, per superare le miserie di ogni giorno», scrive Enzo Monaco, fondatore e presidente dell’Accademia del Peperoncino. Dal 1994, l’Accademia – che ha sede a Diamante –, si propone di creare, approfondire e diffondere una vera cultura del peperoncino, al quale sono riconosciute virtù portentose. Oltre che afrodisiaco, sarebbe la spezia ideale per curare quasi tutti i mali: dall’alcolismo all’arteriosclerosi, dai reumatismi alle bronchiti, dalla depressione alle vene varicose, unitamente a molti altri acciacchi.


Secondo la medicina tradizionale cinese lo zenzero è una specie di panacea anti-crampi, anti-nausea, anti-dolori artritici, e in generale un alimento energizzante e vitalizzante.


Secondo la medicina orientale, la cannella disintossica e ha proprietà antisettiche. Recenti ricerche evidenziano un rapporto fra il suo consumo e il controllo della glicemia.


Le bacche aromatiche di cardamomo, digestive, energizzanti e ottime per la freschezza dell’alito, sono considerate afrodisiache dagli indiani, che ne consumano grandi quantità nel chai, il loro tè profumatissimo.

Il dottor Maoshing Ni, esperto cinese di longevità (sic), titolare di una seguita rubrica sull’Huffington Post, rivela che, contenendo cineolo, il cardamomo potrebbe rendere più acuti e mentalmente vivaci.

Secondo gli orientali i chiodi di garofano sono ottimi contro i disturbi intestinali e il mal di denti.

Alla curcuma, ingrediente principale del curry, sono attribuiti poteri antiossidanti e la capacità di fluidificare il sangue.


Gary Wenk dell’Università dell’Ohio, autore del libro Your Brain on Food, dice che la noce moscata contiene miristicina, che chimicamente è simile alla mescalina e all’anfetamina. Ovviamente dipende da quanto se ne prende: mandando giù un intero flacone si potrebbero avere effetti allucinogeni degni dell’Lsd. Non solo: ha pure un altissimo valore afrodisiaco. Però fa venire la diarrea. Gary Wenk: «Chiedetelo a quel mio studente che ha provato a farsi di noce moscata. Voleva passare tutta la notte a letto con la sua bella e invece l’ha trascorsa al gabinetto».


La curcumina contenuta nella curcuma blocca la formazione di grasso nel corpo e abbassa i livelli di colesterolo. Lo dice uno studio sui topi pubblicato sul "Journal of Nutrition". Mohsen Meydani, coordinatore della ricerca: «L’aumento di peso è il risultato della crescita e dell’espansione del tessuto adiposo, che non può avvenire senza la formazione di nuovi vasi sanguigni; un processo noto come angiogenesi. Sulla base dei nostri dati, sembra che la curcumina sopprima l’attività angiogenetica nel tessuto adiposo dei topi nutriti con diete alto contenuto di grassi».

Alcune preparazioni tradizionali della cucina Feng Shui: zuppa di zenzero per curare l’ubriachezza, sciroppo di zenzero nel caso di svenimenti e per ridurre il gonfiore; saltato insieme al riso, è indicato alle puerpere per riprendersi dalle fatiche del parto.


Il lecca-lecca al peperoncino lanciato dalla Chupa Chups per il solo mercato messicano.


Fu Szent Gyorgyl, medico ungherese, a scoprire la vitamina C all’interno del peperoncino. Grazie ai suoi studi, nel 1937 Walter Haworth vinse il Nobel per la chimica.

Il friulano Vincenzo Maiolino, campione italiano di mangiatori di peperoncino nel 2014: ha conquistato il titolo nazionale mangiandone 900 grammi in mezz’ora.

Le spose cambogiane prima delle nozze purificano il loro corpo spalmandoci sopra una pasta piccante a base di curcuma che agisce come un antibiotico naturale.

Gli imperatori romani della decadenza assorbirono dagli Egizi l’uso esotico di cospargere di zafferano le stanze destinate ai ricevimenti. Di zafferano erano tinte le tuniche degli scribi e le bende con cui si avvolgevano le mummie per l’ultimo viaggio. E con lo zafferano si coloravano le tuniche dei monaci buddisti, quando l’esercito cinese invase il Tibet.

In Persia, dove oggigiorno si produce il 90% dello zafferano mondiale, questa spezia è da sempre considerata un potente afrodisiaco.

Marco Polo racconta di un mercato mediorientale dove le contrattazioni avvenivano a peso d’oro o di zafferano. E proprio a causa dell’altissimo valore, questo fu tra i beni più contraffatti del mondo, come annotato da Lucio Giugno Moderato Columella nel suo De Rustica. Nei secoli il reato di falsificazione fu tanto diffuso da imporre, nel Medioevo, la pena di morte per i venditori di finto oro rosso. Nel 1444, in Baviera, chi era pescato con le mani nel sacco veniva bruciato vivo.

Oggi la produzione di zafferano originale è di sole 150 tonnellate all’anno in tutto il mondo e il 90% dello zafferano che arriva sulle nostre tavole è falso (ma non crea rischi per la salute).

In dosi elevate lo zafferano è un potente abortivo e oltre i venti grammi al giorno può condurre alla morte.

Lo zafferano è la spezia più cara al mondo. Nelle colture più pregiate i bulbi vengono estratti dal terreno ogni anno e riposizionati, fino a dovere essere rimpiazzati. E per ottenere un grammo di zafferano servono 150 fiori, e almeno 500 ore di lavoro completamente manuale. Il costo è di almeno 15 mila euro al chilogrammo, ma lo zafferano di qualità può raggiungere i 50 mila.

Cleopatra scioglieva lo zafferano nella vasca da bagno per rendere splendente la pelle.

Per tingersi i capelli di biondo le antiche greche si strofinavano le chiome con lo zafferano.

In Afghanistan lo zafferano veniva utilizzato anche come colore per i tappeti.