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 2016  marzo 28 Lunedì calendario

FOREIGN FIGHTERS PER SETTE

L’intelligence statunitense ha stimato a circa 30mila i “foreign fighters”, provenienti da quasi 100 paesi, che hanno raggiunto l’Iraq e la Siria dal 2011, molti dei quali per unirsi all’Isis. Il numero, svelato dal New York Times, è il doppio delle stime di un anno fa.

In Siria il 55% dei foreign fighters combatte con l’Isis e il 14% con Jabhat al-Nusra (l’organizzazione estremista affiliata ad Al Qaeda). Solo il 2% è nelle file del Free Syrian Army e di altri gruppi ribelli minoritari filo-occidentali.

In Afghanistan si contarono circa ventimila combattenti stranieri ma in un arco di tempo che andava dal 1979 (invasione russa) al 2001 (inizio invasione occidentale). Quindi il conflitto in Siria è la più grande mobilitazione di combattenti stranieri islamici almeno dal 1945.

L’esercito globalizzato della jihad conta oggi, oltre ai 30.000 miliziani stranieri solo in Siria e Iraq (divisi tra Stato Islamico e il fronte di Al Nusrah), più altri 6.500 in Afghanistan. Poi ce ne sono diverse centinaia tra lo Yemen, la Libia, il Pakistan e la Somalia, e alcuni sono apparsi anche tra le fazioni sanguinarie dell’Africa, al-Shabaab in Somalia e Boko Haram in Nigeria. Provengono da cento nazioni diverse: non solo dall’Europa (più di 4.000 miliziani), ma anche da Australia, Nuova Zelanda, Cile, Cina, Trinidad e Tobago, Maldive, Russia. Dalla Tunisia ne sono usciti 3.000, dall’Arabia Saudita 2.500. In Europa, è il Belgio che ha il tasso più alto: 440 combattenti su 11.4 milioni di abitanti. Il vero serbatoio per le truppe di Al Baghdadi rimane però la Francia (1.200), seguita dalla Gran Bretagna (600), la Germania (500-600), l’Olanda (200) e l’Austria (150, di cui almeno 60 secondo alcuni conteggi sarebbero reduci). Appena fuori dai confini dell’Unione, però, c’è la Bosnia Erzegovina, con i suoi 330 foreign fighters su meno di 4 milioni di abitanti. Una densità che non ha eguali sul continente europeo, accompagnata dall’esistenza di molti villaggi nati con le comunità di mujaheddin degli anni Novanta dove tuttora si applica la Sharia.


L’Isis, come strumento di propaganda e di reclutamento, usa anche le “video decapitazioni”: solo su Youtube sono stati pubblicati circa 175.000 video riguardanti la decapitazione del giornalista americano James Foley: tra questi soltanto i tre più popolari hanno generato circa 7 milioni di visualizzazioni.

Il presunto assassino dei giornalisti americani James Foley e Steven Sotloff è Abdel-Majed Abdel Bary, 23 anni. Origini egiziane, è cresciuto a Londra. Poi l’anno scorso ha mollato tutto e ha abbracciato la guerra santa. Prima era L Jinny, il rapper che infarciva le sue canzoni (passate anche sulla radio della Bbc) con invettive contro i giovani che spendono soldi per droghe, alcol e discoteche. Poi è diventato Jihadist John. È stato indottrinato all’Islam radicale da uno dei più controversi imam di Londra, Anjem Choudray, un avvocato che professa la sharia come legge britannica e aspira al Califfato mondiale.

Secondo il Viminale i foreign fighters italiani sono ottantasette. E «nessuno di loro è ancora tornato in Italia». Reclutati e indottrinati soprattutto via Internet, vengono dalle città del Nord: soprattutto Brescia, Torino, Ravenna, Padova, Bologna, e diversi piccoli centri del Veneto. Ma anche Roma e Napoli. La gran parte, almeno l’80 per cento di loro, sono italiani convertiti all’Islam da poco. E di colpo. Ma ci sono anche figli di immigrati, di seconda generazione. Tutti sono attualmente tra Siria e Iraq. Dalle indagini finora svolte, sono tutti molto giovani: hanno tra i 18 e i 25 anni. E sono per lo più maschi. Non si hanno per il momento notizie di donne partite dall’Italia per combattere.

Il genovese Giuliano Delnevo, morto a 24 anni nel 2013 combattendo come jihadista contro il regime di Bashar al-Assad, in Siria. A 19 anni si è convertito all’Islam ed è diventato Ibrahim. Quattro anni dopo ha detto ai suoi che andava in Turchia e invece è partito per la Siria. Il padre Carlo: «La Siria e la difesa dei musulmani erano diventate le sue ragioni di vita. È morto combattendo vicino ad Aleppo. Era l’alba del 12 giugno, i militari di Assad hanno ferito un suo amico somalo, che è finito a terra. Giuliano, senza pensarci, è uscito dal rifugio per trascinarlo al riparo. I soldati governativi, che continuavano a sparare, l’hanno colpito. Giuliano è morto per salvare un fratello. Mi ha chiamato il comandante a cui Giuliano aveva affidato il cellulare, sapeva che stava rischiando la pelle. Quel giorno, prima di andare al fronte, gli disse: “Se muoio, chiama mio padre, digli che l’ho amato e che, se si converte, staremo per sempre insieme”».

Giuliano Ibrahim Delnevo usava il Web per le lezioni coraniche. Il suo avvicinamento al jihadismo militante nasceva anzitutto nella volontà di combattere le «ingiustizie perpetrate dall’Occidente» in particolare nella Siria dove un «dittatore sanguinario sostenuto dall’Occidente», Bashar al-Assad, «aveva dichiarato guerra al popolo siriano».

Marc, studente universitario di Marsiglia convertitosi all’Islam col nome di Ahmed, cresciuto con il mito dei campioni dell’Olympique Marseille, finito a ingrossare le fila del Fronte al-Nusra, branca siriana di al Qaeda. Marc Ahmed è stato ucciso all’inizio del 2014 a Raqqa, divenuta oggi una delle roccaforti delle milizie dell’Isis. Gli amici lo descrivono come un “ragazzo normale” che a un certo punto della sua esistenza ha cercato di dare un senso alla sua vita abbracciando la causa islamica. Marc non era di origine araba, veniva da una famiglia borghese, padre impiegato, madre impiegata nell’assistenza pubblica.

Douglas McAuthur McCain, il primo cittadino statunitense morto combattendo nella fila dell’Isis. I suoi amici lo descrivono come un “ordinario ragazzo americano”. Da adolescente si divertiva a guardare i cartoni animati dei Simpsons e a giocare a baseball. Poi, a vent’anni, la crisi di identità, risolta convertendosi all’Islam e al jihadismo militante.

Perché si diventa foreign fighters? In una recente ricerca di un centro studi libanese, Quantum, condotto su basi psicologiche e sociologiche, basato su decine di interviste a combattenti arabi e stranieri sia attivi che prigionieri o che hanno deciso di abbandonare la causa jihadista, risulta che per il 63% degli occidentali il movente principale dell’adesione al jihadismo combattente è «la ricerca di identità». Anche se i linguaggi e i riferimenti sono quelli dell’Islam integrista, la ricerca libanese non ha dubbi nel sottolineare che la religione è un riferimento essenziale («influencing factor», in linguaggio psicologico) piuttosto che la vera motivazione. Come dice lo studio: «Lo rivelano le parole dei combattenti jihadisti: è un mezzo piuttosto che un fine». La seconda motivazione che prevale fra i combattenti provenienti da Paesi occidentali è la ricerca dell’avventura, delle emozioni («thrill»). Invece fra le motivazioni dei jihadisti locali (siriani e iracheni) prevalgono la vendetta (ribellione contro il dominio e l’oppressione di soggetti interni o dei loro alleati stranieri) e lo «status» sociale derivante dal potere che danno le armi (essere «qualcuno» attraverso l’incontrollato dominio sugli altri, soprattutto le donne: pensiamo all’atroce vicenda delle donne yazidi ridotte in schiavitù). (Roberto Toscano, La Stampa 5/7/2015)
Roberto Toscano su La Stampa: «La ricostruzione da parte del New York Times del percorso della ragazzina americana irretita tramite messaggi su Facebook da propagandisti dello Stato Islamico risulta particolarmente significativo. Il punto di partenza è l’isolamento, la solitudine, una mancanza di senso: è qui che s’inserisce una subdola e abile azione fatta di disponibilità all’ascolto, di gesti di attenzione e amicizia (non solo l’invio di libri sull’Islam, ma persino di cioccolatini), e di offerta di una risposta, quella della militanza jihadista, capace di riempire quel vuoto e quell’isolamento» (Roberto Toscano, La Stampa 5/7/2015)
Da una recente indagine condotta da servizi d’intelligence su due aspiranti «foreign fighters» occidentali è risultato che avevano ordinato via Internet, alla vigilia della partenza, manualetti tipo-Bignami sull’Islam (Roberto Toscano, La Stampa 5/7/2015)
Il numero delle donne “foreign fighters” che partono per lo Stato Islamico non è chiaro. Secondo alcune stime, riportate dal New York Times, costituirebbero il 10% dei foreign fighters. La maggioranza delle spose del jihad avrebbe tra i 18 e i 25 anni. Le ragazze proverrebbero soprattutto da Francia e Regno Unito, ma anche da Austria, Belgio e Spagna. Un quarto del totale sarebbe andata in Siria accompagnata da membri della famiglia.

Maria Giulia Sergio – la 28enne nata a Torre del Greco, cresciuta in provincia di Milano, convertitasi all’Islam e trasferitasi in Siria dall’autunno 2014 – è una spietata, feroce jihadista. Esulta per le chiese bruciate, il pilota giordano bruciato vivo, la strage di Charlie Hebdo, la decapitazione di «miscredenti». (Roberto Toscano, La Stampa 5/7/2015)


I foreign fighters offrono supporto sia fisico sia economico allo stato jihadista, raccogliendo direttamente denaro nei Paesi d’origine.

Le lettere dei giovani jihadisti “mammoni” («Aiutatemi, voglio tornare a casa») un centinaio quelli pentiti tra i 1.100 foreign fighters francesi partiti per Siria e Iraq, pubblicate a dicembre 204 da Le Figaro. Il reporter veneto Ivan Compasso, già corrispondente da Medio Oriente, Siria e Libano per Radio Sherwood: «Ma la maggior parte dei guerriglieri che vanno là sanno bene le regole di Is. Chi si arruola non ne esce più. Molti vengono da situazioni di difficoltà personale o addirittura di disperazione. E là nella jihad trovano una realizzazione».

L’esercito dei miliziani, pagati in media 100 dollari al giorno, è rifornito di droghe e viagra (per gli stupri; le donne dei paesi e delle città conquistate vengono violentate come segno del passaggio di Is). Secondo la Cia, gli uomini attualmente arruolati nelle fila dello Stato islamico sono impegnati 7 giorni su 7, 16 ore al giorno. Dopo un mese di combattimento scatta la licenza di 3 o 4 giorni. L’altro modo per ottenere un congedo, che viene autorizzato da un ufficio ad hoc, è sposare una donna dei Paesi del Califfato, una pratica sempre più richiesta dai capi miliziani soprattutto ai foreign fighters.