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 2016  marzo 26 Sabato calendario

CRUYFF, UN FENOMENO TOTALE IL GENIO CHE CAMBIÒ IL CALCIO

Se parliamo di fuoriclasse dal punto di vista tecnico, lunga vita a Pelé e a Maradona e stiamo a vedere cammin facendo se Leo Messi riuscirà a sfiorarli, o a eguagliarli, o a soppiantarli. Se ne parliamo dal punto di vista tattico, pur con il conforto di una tecnica di prim’ordine, Johann Cruyff resta secondo di una corta incollatura al solo Alfredo Di Stefano. Che vinse di più e di più, soprattutto, durò. Ma essendo l’alfiere, il tuttocampista, il trascinatore e insieme goleador di un calcio d’altri tempi. Mentre Cruyff è stato il portabandiera e l’interprete più illustre della rivoluzione che negli Anni 70 mandò in soffitta il calcio degli specialisti e aprì la via all’eclettismo e alla polivalenza. Al calcio dei giorni nostri.
QUEI FAVOLOSI ANNI 70
Poliedrico al punto da riuscire a essere centravanti classico, anche spalle alla porta, oppure playmaker, indifferentemente alto o basso, oppure ancora ala d’appoggio, preferibilmente a sinistra. Ma non da una partita all’altra. Da un’azione all’altra. Seguendo innanzitutto l’istinto, poi i movimenti dei compagni, poi il piazzamento degli avversari. Sempre in accelerazione, sempre sgasando il motore e strappando all’improvviso quando prima di chiunque altro intuiva il varco. Emblematica quanto memorabile la sequenza iniziale della finale Mondiale del ’74, quando l’Olanda battè il calcio d’inizio e prese a palleggiare a metà campo apparentemente senza costrutto. Sino a che lui, al tocco numero 16, arretrò all’improvviso a farsi dar palla e puntò l’area sul centrosinistra a velocità doppia: Hoeness lo travolse e Neeskens infilò il rigore. Poi i tedeschi rimontarono, perché gli olandesi, lui compreso, erano per davvero un po’ cicale. L’anno prima, con la maglia dell’Ajax, avevano vinto la Coppa Campioni facendo gol alla Juve dopo quattro minuti e imbastendo da lì alla fine un’interminabile melina. Pretesero forse di rifarlo, per umiliare la Germania padrona di casa, e finirono per perdere un Mondiale di cui erano stati i dominatori. Più o meno come l’Ungheria vent’anni prima.
DESTINO BLAUGRANA
Quell’anno però Cruyff non l’aveva giocato più nell’Ajax. Nell’estate del ’73 Rinus Michels, il suo profeta anche se è difficile dire a quei livelli sublimi di panchina e di campo chi fu il profeta di chi, l’aveva voluto con sé al Barcellona che non vinceva una Liga dai tempi di Helenio Herrera. Non solo arrivò il trionfo, con la ciliegina della prima manita della storia ai rivali del Real. Ma cominciò la seconda vita di un campionissimo, che prima da giocatore e poi da tecnico mise radici in Catalunya. Vincendo fior di trofei nell’una e nell’altra veste, a cominciare dalla prima coppa Campioni nel ’92 in finale sulla Sampdoria. Ma prima ancora ispirando la filosofia che è tuttora alla base dei trionfi del Barça e che Pep Guardiola, uno dei suoi allievi prediletti, perfezionò crescendo una generazione di campioni e trapiantandoli in prima squadra.
ARRIVATO DAL FUTURO
E se Ajax e Barça hanno ora diritto a un dolore speciale per la scomparsa della loro bandiera, anche chi lo ha vissuto di lontano non può non accusare la fitta di un vuoto che fa male. Cruyff è stato il simbolo assoluto di una generazione che era un po’ figlia dei fiori, fuori dal campo, con i primi ritiri aperti e le coppe di champagne a bordo piscina, e un po’ arancia meccanica per quel modo assolutamente nuovo di aggredire e martellare in tutte le zone del campo. Una sera a Wembley l’Olanda decise di fare il fuorigioco sistematico a metà campo. La tv era ancora in bianco e nero, ma quella che scattava in avanti sui lanci degli inglesi sembrava ugualmente una nuvola arancione: e gli sventurati attaccanti di sua maestà non di un metro o due si ritrovavano in fuorigioco, ma di dieci-quindici. Il calcio di un futuro che era già diventato presente contro quello che pareva fermo al tempo dei pionieri, con i mutandoni e i baffi a manubrio. O i primi albori di un’Ajax ancora in costruzione che il Milan disintegrò al Bernabeu nella finale del ’69 con il magistero di Rivera e i gol di Pierino Prati. Era andato a spiarlo Cesare Maldini, che fece a Rocco una relazione rassicurante tranne che per quel giocatore che andava di qua, andava di là e non c’era verso di prenderlo. Cesarone si mise a tracciare su un foglio una miriade di frecce che ne sintetizzavano i movimenti. Mostrighe all’Anguilla, tagliò corto il Paròn, ma per mi ti te vedi tropi film de indiani.
UNA CARRIERA DA 400 GOL
A 22 anni l’indiano, non precocissimo così come non riuscì a essere longevo, non era ancora quel trasformatore di corrente che sarebbe diventato da lì a poco. O forse era già troppo avanti, e i compagni non ancora alla sua altezza. Quando scattò il sincronismo, nacque come per incanto un calcio che nessuno che l’abbia visto ha più dimenticato. Tre volte Pallone d’oro, Johan Cruyff senza avere la mistica del gol ne segnò 402 in 716 partite. Tra i suoi colpi preferiti, oltre a ogni genere di acrobazia, il cross di esterno destro da sinistra che rubava il tempo al difensore e diventava una frustata dipinta sulla fronte di chi ne aveva seguito lo strappo.
Addio fenomeno. Lascio l’epitaffio a una straordinaria battuta di Bochini, grande interprete argentino del futbol bailado. Corre tanto quel Cruyff. Però non è male.
Gigi Garanzini, La Stampa 26/3/2016