Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 26/3/2016, 26 marzo 2016
IL DEMONE DEI BALCANI CHE PRATICÒ LA PULIZIA ETNICA
Dominare la vita, corteggiare la morte, infliggerla agli altri, architettare stragi e pulizie etniche, credersi un grande poeta che salva un mondo in disfacimento insieme alla Jugoslavia e poi cambiare vita, nascondersi da latitante e ricercato con una nuova identità per diventare una sorta di guru psicopatico delle periferie di Belgrado: tutto questo è stato Radovan Karadzic, amico anche di quel Limonov descritto da Emanuel Carrére con il quale spareranno su Sarajevo accanto alle Tigri di Arkan, con il generale Mladic che dirigeva l’artiglieria e Milosevic a contare i morti nella residenza dove aveva abitato per decenni il Maresciallo Tito.
Karadzic, condannato dal tribunale dell’Aja a 40 anni di carcere, è stato per un decennio uno dei demoni dei Balcani e anche l’incubo, insieme alle granate, dei giornalisti ospiti all’Holiday Inn durante i 1200 giorni dell’assedio di Sarajevo. Al culmine della sua parabola amava farsi annunciare rumorosamente. Nel febbraio del ’92 le sue milizie entrarono sparando all’impazzata nella hall dell’Holiday Inn per non lasciare dubbi su cosa si stava preparando.
Lui arrivò poco più tardi, a notte fonda, a occupare le suite dell’albergo. Si accomodò su in divano e passò rapidamente, senza mostrare alcun disagio, dalle raffiche di mitra alle “interviste”, rilasciando dichiarazioni sconcertanti. «I musulmani bosniaci non sono altro che stranieri, turchi da eliminare, visto quello che fecero qui i pasha durante l’Impero ottomano mozzando le teste dei nostri antenati». «Sono solo degli ammazzacristiani, dei nemici della civiltà». Era inutile far notare che a Sarajevo, esempio di convivenza, c’erano molti matrimoni misti e che nelle moschee, all’epoca, non andava neppure il 10% della popolazione.
Karadzic era convinto di essere nel giusto e inframmezzava i suoi discorsi con citazioni che volevano essere forbite: si piccava di essere poeta, oltre che psicanalista. Un oratore efficace con inclinazioni da teatrante che stava preparando non una recita innocua fatta di frasi roboanti ma il peggiore massacro nel cuore dell’Europa dai tempi della Seconda guerra mondiale: 200mila morti, un milione di profughi.
Lo ascoltavamo perplessi ma non increduli, perché dopo il referendum sull’indipendenza della Bosnia si erano già manifestati i presagi della tragedia. L’altro criminale, il generale serbo Ratko Mladic, aveva mobilitato l’artiglieria mentre il neo-presidente bosniaco, il musulmano Alja Izetbegovic, si illudeva di poter contare sull’esercito per tenere a bada le milizie.
Un colpo di pistola, come quello che nella Sarajevo del 1914 aveva dato inizio alla Prima guerra mondiale, innescò l’assedio. Davanti a una chiesa ortodossa un attacco prese di mira il corteo di un matrimonio e fu freddato sul sagrato il padre della sposa. I ponti sulla Miljacka vennero invasi dalle barricate, l’arteria principale si tramutò nel Viale dei Cecchini, dove gli sniper di Karadzic fecero poi fuori buona parte della popolazione (12mila morti), la città si divideva tra serbi e bosniaci, il suo cuore era spezzato, andava in frantumi un altro pezzo di Jugoslavia.
Karadzic impartiva all’Holiday Inn le sue “lezioni” di storia balcanica. Alto, imponente, con una folta capigliatura pepe e sale, dominava un uditorio tenuto discretamente sotto tiro dai mitra. Voleva essere efficace nel descrivere il diritto degli slavi a possedere in esclusiva quella terra, rafforzato, secondo lui, da concrete evidenze razziali: «Vedete come sono alto – diceva – noi del Montenegro abbiamo i femori più lunghi d’Europa. I musulmani sono una razza inferiore, sono rimasti più piccoli perché mangiano e pregano per terra. E poi mentono sempre».
Queste strampalate teorie antropomorfe sull’inferiorità dei bosniaci si tradussero in massacri come quello di Srebrenica dove nel luglio del ’95 le sue milizie e le truppe di Mladic fecero fuori 8mila civili. Poco lontano da Sarajevo, tra vallate rigogliose e così ingannevoli da ricordare la Svizzera, instaurò la Repubblica di Pale, ancor oggi una delle tre entità della Bosnia: questa era la Salò di Karadzic, un altro dei moncherini etnici in cui si dissolse la Jugoslavia.
Ai Karadzic e ai criminali come lui, non solo serbi ma anche croati e musulmani, dobbiamo il “buco nero” dei Balcani, la nascita di entità deboli, inaffidabili, etnicamente “pure” e frammentate. Era il fallimento della Jugoslavia ma anche di un progetto più generale di convivenza e solidarietà tra etnie e religioni. Quello che è accaduto nei Balcani ci riguarda direttamente. L’Unione europea, con un paracadute composto da migliaia di soldati e miliardi di euro, ha attutito la disastrosa traiettoria dei Balcani e sta tenendo a galla un manipolo di piccoli Stati con accordi e trattati di associazione: la Bosnia, la Serbia, il Kosovo, la Macedonia, l’Albania. Non c’è altro da fare: ma siamo sicuri di avere imparato a difenderci dalle deliranti “lezioni” balcaniche dei Karadzic?
Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 26/3/2016