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 2016  marzo 26 Sabato calendario

ORSI & TORI – Pesenti, Indesit-Merloni, Pirelli, Pininfarina, Ansaldo, Riello, Krizia... Ora Telecom Italia

ORSI & TORI – Pesenti, Indesit-Merloni, Pirelli, Pininfarina, Ansaldo, Riello, Krizia... Ora Telecom Italia. Tutte, e non sono tutte, in meno di un anno sono passate sotto il controllo di azionisti non italiani. È l’Europa bellezza, o meglio la globalizzazione, sarebbe sicuramente la risposta del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, se gli venisse sottoposta la lista. Anzi, sicuramente aggiungerebbe: per anni ci si è rammaricati in Italia della mancanza di investimenti stranieri, ora che il Paese è tornato affidabile per le riforme, è naturale che capitali esteri arrivino in Italia e acquistino il controllo di varie società. Giusto, giustissimo, Signor Presidente: l’afflusso di capitali esteri è positivo e indica la fiducia ritrovata, ma è proprio certo che farà bene al Paese che i centri di comando di aziende che rappresentano buona parte della struttura economica del Paese si spostino in Cina, in Russia, in Germania, in India, in Giappone, negli Stati Uniti? Per rispondere occorre approfondire, occorre capire perché ciò avviene e perché, nel caso, se ne potrebbe essere contenti, ammesso che se ne possa gioire. I Pesenti perché hanno venduto il comando dopo oltre quattro generazioni di re del cemento? Perché il business andava male? Perché dalla dura industria di base, dopo anni di crisi drammatica del settore delle costruzioni di cui il cemento è essenziale, è meglio spostarsi sulla finanza con la holding storica Italmobiliare che, come dice il nome, è società di portafoglio non di industria? Per capire vale ricordare che il vero creatore dell’impero del cemento, l’ingegner Carlo, nonno del Carlo ultimo amministratore della gloriosa Italcementi, concepiva che l’industria potesse convivere benissimo con la finanza, le banche e le compagnie d’assicurazioni. L’impero bergamasco comprendeva, infatti e appunto, l’Italmobiliare, allora controllata da Italcementi (l’industria) e a sua volta con un portafoglio formidabile comprendente altre industrie come la Franco Tosi, la Lancia, il quotidiano della sera, La Notte, e in maniera mascherata Il Tempo di Roma, ma anche più banche come l’Ibi (Istituto bancario italiano), la Banca provinciale lombarda, La Ras, allora seconda compagnia d’assicurazioni italiana. Dopo cinque infarti e molte battaglie, oltre che un forte indebitamento, con una operazione incredibile, attuata attraverso lo Ior, l’ingegner Carlo, come lo chiamava Papa Giovanni XXIII da Sotto il Monte (Bergamo), capovolse la struttura e miracolosamente, in funzione di un debito in franchi svizzeri con lo Ior (sarà stato vero o finto?), Italmobiliare divenne la capogruppo di tutto. Un tutto che nel 1984, alla morte dell’ingegner Carlo, nemico giurato degli Agnelli (per lo scherzetto di Giovanni che pagò cash con poche lire il pacchetto Lancia) e nemico di Mediobanca, il figlio Giampiero, tenuto per decenni compresso dal padre, iniziò la stagione delle vendite. Per sua sventura proprio nel momento in cui l’inflazione stava partendo all’insù e il prezzo delle banche e delle assicurazioni aumentava di mese in mese, abbassando il peso del debito del gruppo. La vendita più clamorosa (allora la più importante operazione di M&A fatta in Italia) compiuta dal serissimo Giampiero fu quella La Ras (circa 700 miliardi di lire) ad Allianz. Ma non solo, dimostrando una visione opposta a quella del padre, Giampiero accettò di entrare nel consiglio della Fiat e di mettersi sotto l’ala di Mediobanca, il che più avanti gli ha consentito di diventare presidente del sindacato di controllo di Rcs. Investimento dal quale non ha ricavato che perdite. Pochi mesi fa suo figlio Carlo, anche lui ingegnere come il nonno e il padre, ha giudicato che era tempo di uscire dal cemento, non avendo giudicato interessante e possibile comprare altre società cementifere all’estero dopo quella in Francia, fattagli acquistare da Mediobanca. Sia Carlo che suo padre Giampiero sono persone degnissime, ma hanno deciso di poter rimanere imprenditori industriali diventando secondi azionisti, con una quota sotto il 10%, del gruppo tedesco Heidelberg, del cui comitato esecutivo Carlo entra a far parte. La vicenda di Merloni è diversa per la grave malattia di Vittorio, che aveva avuto la capacità di portare ai vertici europei la divisione elettrodomestici dell’ex gruppo di famiglia fondato dal padre grazie alla commessa di bombole per il gas ricevuta dal conterraneo Enrico Mattei. Prima Ariston, poi Indesit, grazie anche al lavoro di Andrea Guerra, la società di Fabriano dominava nel settore del cosiddetto bianco. Nonostante ciò, nessuno dei figli è riuscito a sostituire il padre. Ci ha provato Andrea, che per altro prima aveva cercato invano fortuna in altri settori. Ma i due fratelli non l’hanno mai giudicato in grado di sostenere la continuità. Maria Paola è entrata in politica; Aristide è diventato presidente della finanziaria di famiglia, Fineldo, e nominato tutore del padre. Non era facile avere la forza imprenditoriale e la voglia di successo di Vittorio, ma certo nell’altro ramo dei Merloni, quello del figlio maggiore del fondatore Aristide, Francesco, più volte senatore e ancora oggi ultraottantenne inarrestabile, il figlio Paolo ha saputo raccogliere il testimone e imprimere un forte sviluppo all’Ariston Group (area riscaldamento, partendo dagli scaldabagni) fino ad avere oggi un’azienda multinazionale che si avvicina ai 2 miliardi di fatturato. La vendita di Indesit a Whirlpool, se non fosse per la continuità garantita da Paolo Merloni con Ariston Group, segnerebbe la fine della storia e del primato italiano in un campo che ha segnato la rinascita del Paese e un radicale miglioramento della vita degli italiani con frigoriferi, lavatrici lavapiatti... Un’epopea che per anni ha riempito le poche pagine di economia dei giornali italiani, grazie all’intraprendenza di Vittorio anche alla guida della Confindustria. Anche il passaggio di Pirelli a ChemChina e ai russi di Rosneft ha una storia diversa da quella Pesenti. In primo luogo, perché Marco Tronchetti Provera rimane per cinque anni plenipotenziario, incluso il potere di riquotare in borsa la società dei pneumatici. In secondo luogo perché in effetti Tronchetti è stato il salvatore della Pirelli attraverso la Camfin, società della sua famiglia. Quando, dopo aver sposato Cecilia Pirelli, Tronchetti fu scelto da Mediobanca per salvare l’azienda, la partecipazione azionaria della famiglia fondatrice all’epoca guidata da Leopoldo si era ridotta a poco più del 5% attraverso la Finanziaria P. Il figlio di Leopoldo, Alberto, bravissima persona, era in California a studiare le balene. Tronchetti accettò ma acquistando anche azioni Pirelli con Camfin. Con un duro lavoro riportò la società in rotta, eliminando l’arcaica e non democratica struttura di comando che si basava (arte di Mediobanca) su Pirelli&C come società in accomandita per azioni localizzata in Svizzera, in una catena di controllo lunga chilometri. Il capolavoro di Tronchetti è stato quello di riuscire a vendere per 6 miliardi di dollari all’americana Corning la piccola ma avanzatissima società di fotonica nata in Pirelli Lab. Quei soldi, come è noto, Tronchetti li reinvestì in Telecom, senza riuscire a completare il progetto di integrazione con il gruppo media di Rupert Murdoch, fino ad essere costretto a cedere il controllo alla holding Telco a causa del forte indebitamento, conseguenza anche della lodevole volontà di tagliare la catena di controllo comprando il 100% di Tim. Uscito non certo vincitore da Telecom, Tronchetti ha saputo rilanciare nel settore core dei pneumatici di alta gamma fino a diventare fornitore della Formula Uno. Ma solo la sua abilità consentiva di mantenere il controllo in Italia. Ha quindi deciso, vicino ai 70 e con un figlio, Giovanni, che non è mai entrato in azienda, di puntare sullo sviluppo dell’azienda, che il passaggio del controllo ai cinesi consente insieme al ruolo collaterale dei russi. Sicuramente Tronchetti e i suoi figli diventeranno più ricchi, ma essendo partito dalla quota residua del 5% di Finanziaria P era quasi impossibile, anche per il fallimento dell’associazione con i Malacalza di Genova, mantenere il controllo in portafogli italiani. Ma da Tronchetti nei prossimi cinque anni c’è da aspettarsi qualche sorpresa. Pininfarina è una storia triste, segnata prima dalla malattia di Sergio e poi, nel 2008 la morte per incidente di Andrea, che si era preparato a guidare l’azienda. Il fratello Paolo ha fatto ciò che poteva, aiutato moltissimo dalle banche. Ma appunto per permettere la continuità dell’azienda, in attesa di un compratore. La storia dei Riello è invece tipica di una dinastia del Nordest. Due cugini, non della stessa età, Pilade più anziano e Italo più giovane, che non riescono ad andare d’accordo e si separano. Italo, che è stato presidente della Fiera di Verona, con l’aiuto di fondi di private equity, rileva l’azienda principale. Pilade e i figli che ripartono e innovano e oggi continuano l’avventura mentre Italo ha deciso, non certo per scelta, di vendere. La vendita di Ansaldo energia in parte ai cinesi e di Ansaldo sts, leader nella segnaletica ed elettronica ferroviari, ai giapponesi di Hitachi è una scelta manageriale del nuovo presidente di Finmeccanica (futura Leonardo) Mauro Moretti per rimediare agli errori delle gestioni passate dell’azienda controllata dallo Stato. Romagnolo di Rimini, ex sindacalista e risanatore delle Ferrovie dello Stato, Moretti se avesse potuto non avrebbe venduto. È quindi questo passaggio di controllo allo straniero una scelta per ripartire, che pone il problema di come lo Stato in alcuni (o molti) casi abbia distrutto ricchezza, mentre ne ha creata quando il capo azienda è stato capace e indipendente. Krizia fa parte della di questa analisi, perché è stata pioniera della moda italiana e ha resistito fino a più che ottantenne, perché del resto sono numerose le aziende del lusso made in Italy che sono passate in mani estere non per mancanza di utili ma per voglia di smettere, come è stato per i fratelli Bulgari, che pure avevano lasciato la gestione al nipote Francesco Trapani. O come le sorelle Fendi, anch’esse passate sotto il controllo di Bernard Arnault, numero uno del lusso mondiale. Mentre nel caso di Loro Piana, anch’esso nella scuderia di Lvmh, non è possibile dire quanto abbia giocato la malattia di Sergio o la sua consapevolezza, alla fine condivisa dal fratello Pier Luigi, che per battere Hermés o per non soccombere era necessario arrivare a fatturare miliardi di euro e non solo un miliardo. Causa di una dissoluzione familiare e di un omicidio il passaggio di Gucci prima agli arabi di Investcorp e poi a Pinault-Kering. Come si vede, il campionario è vario e consente una analisi a tinte differenziate, ma nella vendita prevale o la mancanza di capitali o la caduta della voglia di intraprendere, o la mancanza di sapienza manageriale, oppure disgrazie improvvise. Ma il minimo comune denominatore è una struttura industriale italiana che si basa non sulle grandi aziende, anche se nel settore del lusso ci sono aziende con ricavi miliardari come Prada, il maestro di tutti Giorgio Armani, Diego e Andrea Della Valle, la famiglia Ferragamo, dove una madre centenaria ha saputo per tempo scegliere un manager straordinario come Michele Norsa mentre i figli hanno accettato di fare essenzialmente gli azionisti. Altri incalzano e crescono. Ma sono pochi, come Brunello Cucinelli. Si può trovare un colpevole di questa mancanza di forte struttura industriale del Paese? È facile: i giochi del capitalismo familiare che ha attuato per anni Mediobanca, per esempio tenendo in vita il controllo di Pirelli da parte di Pirelli e di Luigi Orlando della Smi con un incrocio azionario superiore in ciascuna società al 20%. Sì, Pirelli e Smi erano quotate in borsa, ma in una borsa asfittica, perché tutto il potere voleva averlo Mediobanca. Così il compito di fare da trasmissione fra il risparmio e le imprese è stato per il 90% del sistema bancario. Ciò, non certo per colpa delle banche, ha impedito una cultura della borsa e ora che le banche italiane sono ingiustamente bastonate da una vigilanza unica assurda, solo formalmente in Bce, ma di fatto completamente autonoma, l’impresa di salvare il tessuto industriale del Paese si fa arduo. Naturalmente lo Stato e i governi sono anch’essi colpevoli almeno quanto Mediobanca. Drammaticamente colpevoli e artefici dell’attuale passaggio sotto il controllo di Vivendi di Telecom: basta ricordare l’assurda privatizzazione attuata per entrare nell’euro con lo schema francese del nocciolo duro. Quello creato dal governo Prodi con Carlo Azeglio Ciampi ministro del Tesoro fu un nocciolino piccolo piccolo: lo 0,7% con cui il gruppo Fiat doveva comandare. L’opa fu inevitabile e con essa il super indebitamento della stessa Telecom, la stessa Telecom che era n. 1 fra le tlc europee grazie all’opera del governo statale attraverso boiardi che però avevano fatto bene il loro lavoro. Lo Stato che ha distrutto ricchezza statale. Attento, Signor Presidente Renzi. (riproduzione riservata) di Paolo Panerai, ItaliaOggi 26/3/2016