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 2016  marzo 27 Domenica calendario

DUBUFFET L’UOMO CHE TRASFORMÒ GLI SCARABOCCHI IN ARTE

BASILEA
Ci sono artisti che sono come le anguille, non sai come afferrarle, e ciascuno che si occupa di arte ha la pretesa o il cattivo vizio di classificare: come un filatelico che deve mettere il francobollo al posto giusto. Ma a volte la casella non c’è. Tale è il caso di Jean Dubuffet: nato a Le Havre nel 1901 fece il commerciante di vini fino a quarantuno anni, quando decise di fare l’artista, del tutto fuori dai circuiti istituzionali. Era affascinato dai disegni dei bambini, guardava le scritte nei vespasiani, sui muri che oggi chiamiamo graffiti, osservava gli scarabocchi dei folli o deboli di mente. A guerra finita, nel 1945 non andò in un atelier o in una accademia di belle arti per imparare il mestiere, preferì trasferirsi in Svizzera vagando tra Berna e Ginevra per visitare cliniche psichiatriche e stava lì a sbirciare i pazienti che per ragioni terapeutiche venivano indotti a disegnare, e a esprimersi in qualche modo. Tradizione ben radicata in Svizzera che risale a fine Ottocento quando si formò la comune naturista di Monte Verità ad Ascona: d’altronde Gustav Jung prevedeva nel cursus clinico il disegno come forma di terapia. Cosa sia Dubuffet è davvero difficile dirlo: pittore, scultore, operatore di forme, bricolueur? Ma aveva le sue idee e formulò il concetto di Art Brut nel ’45, prima mostra a Parigi nel ’49 con mille opere assai eterogenee. Avrà conseguenze in tutte le arti plastiche compresa l’architettura e il Brutalism fu un vivace movimento che segnò il dopoguerra inglese.
La grande mostra Jean Dubuffet. Metamorfosi del paesaggio, a cura di Raphaël Bouvier, alla Fondation Beyeler di Basilea (fino all’8 maggio) illustra tutta la sua opera nelle eclettiche e camaleontiche espressioni che comprendono ritratti o nature morte e sono quasi sempre riconducibili al fil rouge del paesaggio. Ernst Beyeler ne rimase affascinato ed infatti è l’artista più rappresentato nella fondazione. Dubuffet si serviva di colori, di fango, di sabbia, di pietre, di mescole informi e di materie le più diverse. La mostra offre nella sua articolata scansione tutte le fasi evolutive dell’artista e l’opera totale Cocou Bazar in cui pittura, scultura, teatro, danza e musica concorrono a formare un’installazione di spettacolare impatto.
Agli esordi si vede Garde du corps (1943) in cui la memoria fauve ed espressionista è ben chiara per la violenza cromatica delle due figure su un fondo nero: un’opera la cui tenuta stilistica ritorna in temi campestri come il Contadino con l’aratro tirato da cavalli. Il ritratto assume una tenuta più sobria con il Nudo (1945) dove una sagoma umana ritagliata con i suoi connotati anatomici è di un color ocra su fondo nero, mentre il Fumatore al muro (1945) ha un fondo screziato che sta a testimoniare l’oscillare continuo della sua tavolozza. È già questo un paesaggio che s’esprime nella nera Facciata di immobile (1946) con finestra balconi e alcune figurine che guardano, altri percorrono la strada dove si leggono scritte come Journal, Optique e altre insegne di locali. La città e la campagna divengono i temi sempre più ricorrenti, e animali ( Vacca bianca su un campo verde) o figure umane sono incorporati nel paesaggio e il paesaggio diviene corpo. Un’interazione insistita come si vede nella serie, in qualche modo omogenea di Mirobolus e Macadam & C in cui il colore sulla tela scompare e le superfici sono trattate con sabbia, argilla, polvere di carbone materiali cioè estranei al colore tradizionale. L’interesse per l’arte primitiva è continua e rimanda a Picasso, Braque e Brancusi: ma in lui non ci sono le maschere africane o oceaniche, ma i graffiti preistorici dell’Homo sapiens rinvenuti in grotte disseminate nei luoghi e nei continenti più diversi di ere antichissime. Il Ritratto di Henri Micheau, Evreux 5 km o
Paesaggio che saluta il pubblico, Viaggiatore – fine anni Quaranta – segnano un’ulteriore esperienza: nel Geologo ogni elemento figurativo è quasi del tutto scomparso e la tinta monocroma fino a Natura genitrix (1952) rimanda alla Mater Tellus lucreziana per il crepitare dei materiali. Ma per far dannare l’anima ai classificatori nel ’55 dipinge il Mio carro, mio giardino: un ritorno inatteso alla figurazione e ci dice che elegante disegnatore sia. Una sezione che affascina è quella dedicata alle Farfalle con le cui variopinte tinte cangianti compone personaggi. Passa alle sculture che fanno pensare a Giacometti, se non fosse per la loro cruda sostanza di pietra. Poi una fase quasi da Secessione come in Ricco sole o Io abito un ridente paese (1956) per eleganza klimtiana delle tessere che compongono le tele. Un capolavoro è La porta (1957): grigi su grigi di legno, sabbia e terre. Ha visto di certo Burri. Poi la serie dedicata alla celebrazione del sole che sono già informale, ma non con i gesti vorticosi di un Pollock, ma con quelli di un miniaturista medievale. Violenta l’esplosione cromatica dei paesaggi urbani, con personaggi che sono fumetti. Negli anni Sessanta con Paris circus la tela nulla ha più a che vedere con le città che aveva dipinto: sono invenzione fantastiche del suo immaginario. Nel 1962 avvia il ciclo Hourloupe, un neologismo difficilmente risolvibile, e alla grande messa in scena di Coucou Bazar (1972-73). Di lì trascorre alle grandi sculture in poliestere bianco-blu-rosso che sono l’aspetto più noto dell’artista, una sorta di landarchitecture e di lì al Circulus (1984) a tutti gli effetti action painting e qui la suggestione dell’arte americana è ben evidente nelle sue figurazioni di New York. La versatilità di Dubuffet, l’intenso lavoro e il successo gli consentono di raccontare, di scrivere testi non occasionali: in Memorie per lo sviluppo del mio lavoro a partire dal 1952, mostra un piglio narrativo insolito per un artista che riesce ad autoanalizzare la propria opera con perspicacia.
CESARE DE SETA, la Repubblica 27/3/2016