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 2016  marzo 27 Domenica calendario

DIETRO LA COVER

Le rassicuranti facce dei Beatles sorridono felici. Indossano camici bianchi da macellaio imbrattati di sangue e in mano, in grembo o sulle spalle hanno bambole decapitate, pezzi di carne, frattaglie. Punk ante litteram, anticipatori anche in questo. Per la raccolta prevista solo per il mercato americano e intitolata Yesterday and Today, nel 1966 la Capitol stampò ben 750mila copertine, molte dalle quali non uscirono dallo stabilimento viste le proteste dei primi negozianti a cui erano state inviate. I Beatles, stanchi dei «soliti, noiosi servizi fotografici» avevano infatti voluto usare uno scatto del fotografo Robert Whitaker per una performance di arte concettuale intitolata A Somnambulant Adventure. Tra gli stessi componenti del gruppo non c’era concordia su quell’immagine scioccante, con Paul McCartney che l’aveva voluta e John Lennon che la definì «as relevant as Vietnam», mentre George Harrison la considerava «un’idea stupida e volgare». Tra le voci c’era anche quella che diceva che quel “macello” (la cover prenderà in futuro proprio il nome di “Butcher Cover”) fosse una polemica contro la Capitol che fabbricava a tavolino un disco che non esisteva contro il volere della band. Tutto questo contribuì a renderla una delle copertine più rare e introvabili della storia valutata a prezzi incredibili.
Oggi, in tempi di musica liquida, le copertine contano meno di un tempo, peccato, perché attraverso uno scatto, si può raccontare un intero mondo. Farlo nel rock’n’roll è una delle prove più difficili che possono toccare a un fotografo. Che deve essere anche un esperto psicologo (o meglio, psichiatra) perché avere a che fare con le star richiede grandi capacità di conoscenza dell’animo umano. Quello che vediamo raccontato nelle pagine di Pics Off!, serie di foto raccolte da Matteo Torcinovich che mette a confronto la copertina del disco con gli altri scatti realizzati durante il servizio, è dunque un modo di lavorare che va scomparendo, artigianale e molto romantico, che contempla un contatto diretto con l’artista, ormai quasi impossibile. Da un lato per i mille filtri che le star frappongono (uffici stampa, agenti, sponsor) e dall’altro per il contatto diretto con i fan che oggi i social network consentono. Incontri come quello di Roberta Bayley con i Ramones o di Edo Bertoglio con i Blondie, oggi non avvengono più.
Ma è proprio da questa combinazione che può nascere la magia.
Guardando le copertine insieme ai provini la domanda che viene in mente è se le cose sarebbero andate bene ugualmente se fosse stato scelto un altro scatto. Il più delle volte la risposta è no. È ovvio che se fosse stata scelta una foto dei Ramones che ridono per l’incidente occorso a Dee Dee di cui ci racconta nella pagina a fianco Roberta Bayley, si sarebbe perso completamente il senso di che cosa era la band in quel momento: l’icona stessa del punk. L’estetica povera, in bianco e nero, che riduce tutto all’essenziale non è casuale. Così come non lo è quella scelta di luogo in apparenza banale e scontata. Quella scelta è la strada. Anzi, è un muro pieno di scritte in una periferia senza nome. E quattro giubbotti di pelle. Quella foto diventa un’icona insuperata perché in uno scatto rivela uno stile di vita: nuovo, vero, intenso. Come l’altra grande foto che rappresenta il punk: quella di Pennie Smith per London Calling dei Clash, anno 1979, che ritrae Paul Simonon mentre distrugge il suo basso durante un concerto al Palladium di New York. La fotografa Pennie Smith accompagnò i Clash durante tutta quella tournée stando giorno e notte insieme alla band, vivendo le loro stesse avventure. Fosse stato per lei, non avrebbe mai usato quell’immagine perché «non a fuoco». Fu proprio il cantante della band, Joe Strummer, a volerla, insieme al grafico Roy Lowry che l’assocerà come omaggio (ma molti ai tempi la lessero invece come contrasto e presa in giro) al primo album di Elvis Presley, con lo stesso lettering e quegli assurdi colori verdi e rosa che diventeranno un’altra bandiera del punk. Nel 2002 quello scatto verrà segnalato dalla rivista Q come “miglior foto rock di tutti i tempi” perché “rappresenta lo stato d’animo più puro del rock’n’roll: la totale perdita di controllo”. Simonon dichiarò che fece quel gesto perché era arrabbiatissimo con i buttafuori che non permettevano agli spettatori di alzarsi dalle loro sedie per ballare.
Un’altra cover controversa è quella di Born in the Usa di Bruce Springsteen: lui di schiena contrapposto alla bandiera americana. Viste le sue posizioni anti-establishment di quel periodo (era il 1984 di Reagan) si diffuse la leggenda che Springsteen stesse urinando sulla bandiera. Fatto da lui smentito su Rolling Stone: «Non c’era alcun significato segreto, davvero. Semplicemente, guardando le foto scattate, sembrava che sulla cover ci stesse meglio il mio sedere piuttosto che la mia faccia». Resta il dubbio che quelle spalle voltate, quel cappellino working class, quei jeans sdruciti, qualcosa sul sogno americano la volessero dire. Del resto ogni copertina, riuscita o meno, è uno scrigno di segreti che lascia le porte aperte al sapore della leggenda. Abbiamo così bisogno di storie.
LUCA VALTORTA, la Repubblica 27/3/2016