Federico Rampini, la Repubblica 27/3/2016, 27 marzo 2016
LA MELA AVVELENATA
NEW YORK
Quando l’Fbi ha chiesto il suo aiuto per “violare” l’i Phone usato dai terroristi nella strage di San Bernardino a dicembre, Apple si è lanciata in una crociata in difesa della privacy e dei diritti costituzionali. Molti hacker la pensano diversamente. Non hanno esitato a fare la loro scelta di campo: si sono offerti di aiutare l’Fbi. Per loro il chief executive di Apple, Tim Cook, è solo un turbo-capitalista impegnato in un’operazione di marketing.
Questo episodio recente la dice lunga sull’evoluzione di Apple a quarant’anni dalla nascita. Sempre più ricca e potente. Molto meno amata di una volta.
Steve Jobs non ha fatto in tempo a vedere la parabola discendente del suo mito. Finché era vivo il fondatore, era troppo forte il ricordo delle origini eroiche. Jobs era allora un grande venditore di sogni. Era anche, nell’immaginario di molti suoi clienti, il protagonista di un’epica battaglia: quella di Davide contro Golia. Era stato il piccolo outsider coraggioso, capace di sfidare ben due monopolisti della prima rivoluzione di internet: Ibm da una parte, Microsoft dall’altra.
Sfiorò il fallimento, fu cacciato e poi ripreso al vertice dell’azienda che lui aveva creato. Quando saliva su un palco per ipnotizzare la folla dei suoi fan lanciando un nuovo prodotto, era preceduto e circondato da quella leggenda delle origini. Il revisionismo storico cominciò quando Jobs era ancora vivo, con le biografie che raccontavano una personalità non proprio esemplare. Dopo la sua morte l’attacco al mito è diventato sistematico. Il lato oscuro di Apple è ormai un contro-tema che accompagna i suoi successi economici.
Da una parte c’è la gigantesca elusione fiscale. Così fan tutti, certo: le multinazionali sfruttano privilegi normativi, debolezze e indulgenze degli Stati sovrani, e spostano virtualmente i profitti laddove pagano meno tasse o non ne pagano affatto. Apple è la regina di queste operazioni perché fa profitti record. Ha accumulato all’estero, per lo più in paradisi fiscali europei come l’Irlanda, un tesoro di liquidità superiore ai duecento miliardi. Dal punto di vista del contribuente americano, è una rapina ai suoi danni. Non a caso se ne parla parecchio in questa campagna elettorale dove il tema dell’elusione delle multinazionali è stato affrontato da Donald Trump, Bernie Sanders e Hillary Clinton.
Un’altra pagina ignobile nella storia di Apple è lo sfruttamento della manodopera cinese nella famigerata “fabbrica dei suicidi”, il maxi-stabilimento della Foxconn vicino Shenzhen, nella Cina meridionale. Foxconn è di proprietà taiwanese ma fin dai tempi di Jobs le è stato affidato l’assemblaggio della maggior parte degli iPhone, iPad e iPod. Le condizioni di lavoro in quella fabbrica sono spaventose, dopo uno stillicidio di proteste represse e di suicidi per disperazione, la più clamorosa protesta avvenne nel gennaio 2012 quando centocinquanta operai minacciarono il suicidio collettivo per denunciare la loro sofferenza.
Nel frattempo anche il glamour dei prodotti Apple ha subìto un logorìo naturale. Ai tempi di Jobs il ritmo forsennato delle innovazioni dava l’impressione che Apple fosse in grado di “reinventare il mondo in cui viviamo”, senza sosta. In realtà molti suoi prodotti si ispiravano a invenzioni altrui: dai lettori digitali di musica agli smartphone ai tablet, altri avevano avuto l’intuizione iniziale. Ma il genio di Apple lanciava quei prodotti come mode di massa, rivoluzioni di costume. Ci aggiungeva un’eleganza estetica quasi impareggiabile, il vero tratto distintivo di Jobs. Negli ultimi anni però la concorrenza si è fatta agguerrita, smaliziata, implacabile. Dalla Samsung alle marche cinesi, gli smartphone degli altri offrono prestazioni equivalenti a prezzi inferiori. Apple è diventata così il marchio di lusso di un’industria molto affollata. Continua a essere uno status symbol, continua ad avere masse di affezionati che sono disposti a pagare per un prodotto Apple un sovrapprezzo considerevole. È questo il segreto di una redditività eccezionale, e di una quotazione in Borsa stratosferica. Ma la poesia di una volta è un ricordo lontano.
Federico Rampini, la Repubblica 27/3/2016