Natalia Aspesi, la Repubblica 27/3/2016, 27 marzo 2016
«QUANDO PAOLO POLI INTERPRETÒ ME»
In un giorno qualunque del 2006 Paolo Poli venne a intervistarmi per una delle sue meravigliose radiose cattiverie teatrali: il suo nuovo spettacolo raccontava con la stessa generosa malizia con cui aveva interpretato Carolina Invernizio o Caterina de’ Medici, il dolente ridicolo di certe donne che per ragioni molto diverse e ovviamente di diversa importanza, erano uscite dal protettivo anonimato destinato alle femmine.
Per, in qualche modo, alto o basso, infastidire le regole che le volevano inesistenti. L’ho ricordato in una breve introduzione a un bel libro di Marina Romiti ( Paolo Poli e Lele Luzzati, Maschietto Editore) che raccontando il rapporto professionale tra l’attore e l’autore delle scene dei suoi spettacoli, approfondisce la passione di Poli per l’arte e la sua enciclopedica cultura. “Mi guardavo sul palcoscenico, con il caschetto biondo perfetto, alta, slanciata, sinuosa e persino carina: infatti non ero io ma Paolo Poli che faceva la Aspesi in un suo non del tutto crudele spettacolo, Sei brillanti giornaliste del Novecento: era il 2006, quindi giustamente ero stata collocata con le colleghe, loro sì grandi, (Mura, Masino, Brin, Cederna, defunte e Gianini Belotti) nel secolo scorso”. Era vero, non ci avevo mai fatto caso a questa ovvia realtà: che appartenevo completamente anche se ancora in vita, al secolo passato. “Spararsi? No, anzi rassicurarsi perché quella Aspesi più vispa e colta della vera, quel Paolo Poli, così leggiadro e agile, erano, sono miei coetanei”. Alla vecchiaia ci si abitua senza rimpianti, solo un po’ infastiditi e un po’ impazienti. Così è stato per Poli, che non si è mai celebrato ed ha sempre vissuto in segreto, esibendosi solo in palcoscenico, mai come se stesso ma come una serie di personaggi soprattutto femminili con cui ci faceva ridere senza ridicolizzarli.
Ho un altro ricordo più recente, di pochi anni fa al Teatro Carcano di Milano. In prima fila proprio davanti a me, era arrivato a spettacolo già iniziato un celebre noiosissimo maleducato esperto d’arte infiltrato in politica, che tra due sue amiche così belle da sembrare travestiti, passò tutto il tempo al cellulare. Alla fine andò con le sue dame a salutare Poli, per cui io me ne andai: fuori vidi un uomo che scappava dentro un mantello, ed era lui, l’attore, che fuggiva per non dover incontrare quel rompiscatole.
Cinquant’anni fa, nel 1966, vidi per la prima volta Paolo Poli che in un teatrino milanese, con treccine bionde e uno sbuffante abitino da pastorella, interpretava in modo incantevole Rita da Cascia. Milano era scandalizzata, e infatti io ci andai con un giovanotto che si dichiarava mio fidanzato e che invece poco tempo dopo a uno spettacolo dei Legnanesi che non erano considerati riprovevoli perché il loro travestimento era grottesco, si rivelò un simpatico gay. Si sa che in quegli anni, gli omosessuali non esistevano, erano quasi tutti fidanzati con ragazze bruttine e poco esigenti, ma Paolo Poli no, non si nascondeva, parlava sempre di sé al femminile con grande ironia. Non aveva mai vicino un altro uomo, non si fidanzava mai, né con una né con uno. Era un uomo solitario di aristocratica bellezza ed eleganza e lo è stato sino alla fine: interpretando le sue celebri vittime senza mai sembrare un travestito, rendendole più belle del vero, e solo se necessario pudicamente grottesche. Non ha mai offeso le donne, le ha anzi celebrate nella loro infelicità femminile, facendole specchiare nella sua angelica bellezza e nella sua malinconica vitalità.
NATALIA ASPESI, la Repubblica 27/3/2016