Giulio Sapelli, Aspenia 3/2016, 25 marzo 2016
IL PREZZO GEOPOLITICO DEL PETROLIO
Indicatore cruciale della crisi sistemica in corso – non solo finanziaria, ma ancor più di sottoconsumo e povertà – è il prezzo del petrolio. Da decenni è determinato dalle turbolenze geopolitiche dell’“heartland”, l’area che va dalla Turchia all’India. Il crollo dei prezzi di oggi è legato alla strategia dell’Arabia Saudita (che soffre di gravi contraddizioni su più fronti) per indebolire il controllo americano. Il “grande gioco” è ricominciato, e tra gli attori in movimento c’è anche la Russia.
Che il pianeta sia scosso da una crisi quale mai si è manifestata prima d’ora credo che oggi possano dubitarne solo coloro che non hanno mai letto un libro di storia, ossia la stragrande maggioranza degli economisti neoclassici oggi imperanti. La crisi c’è, invece, ed è profonda. Non si tratta solo di una crisi economica più pericolosa di quella del 1929, ma anche di una crisi geopolitica che rischia di mettere in discussione qualsivoglia equilibrio di potenza. Avere abbandonato il paradigma “westfaliano” per abbracciare le teorie antirealistiche dell’intervento umanitario ha scatenato un terremoto di cui iniziamo ora a sentire gli echi; e tra poco vedremo aprirsi la terra sotto i nostri piedi. La crisi scatenata dalla finanza serve infatti a prendere tempo rispetto a quella di sottoconsumo mondiale, con la conseguente deflazione internazionale che tale sottoconsumo determina.
GEOPOLITICA E PREZZO DEL PETROLIO. La crisi ha il suo termometro decisivo nel crollo del prezzo del petrolio. La questione è assai più seria di quanto non appaia a prima vista. Pensiamo al fatto che se il petrolio fosse ancora remunerato in quantità fisiche e non secondo scommesse spericolate, attraverso i molteplici strumenti del circo finanziario, i paesi dell’OPEC lo venderebbero oggi a prezzi non lontani da quelli degli anni settanta, ossia 40 dollari al barile. Certo, allora la base di formazione dei prezzi erano le quantità fisiche scambiate su mercati molto ristretti e che iniziavano a essere dominati non più dalle grandi compagnie ma, come accade oggi, dagli Stati nazionali produttori, che detengono più dell’80% dei giacimenti mondiali. Ciò che viene insegnato ai ragazzini, spacciandolo per nozioni di economia – ossia che prezzo e domanda si condizionano a vicenda e il loro rapporto determina il prezzo – era allora quasi vero: il petrolio, come il gas, aveva dinanzi a sé prospettive sconfinate di un consumo che divenne rapidissimamente – in mezzo secolo – un consumo mondiale, condizionando gli assetti geopolitici dell’intero pianeta.
La mia tesi è che mai il mercato è stato decisivo nella determinazione del prezzo del petrolio e che tutte le oscillazioni di tale prezzo sono sempre state dovute alle condizioni geopolitiche delle aree in cui si è storicamente concentrata la produzione su vasta scala del greggio.
Un’altra tesi ne consegue: lo scambio fisico è pressoché irrilevante e tale irrilevanza è aumentata a dismisura allorché il tardo capitalismo si è trasformato in capitalismo a dominazione finanziaria e oligarchica stock-opzionista.
Sino agli anni Cinquanta, il petrolio si comprava a 14 centesimi al barile, per raggiungere i 3 dollari alla fine degli anni Sessanta. La fine di Bretton Woods e del dollaro come moneta di riferimento diede vita allo shock petrolifero: il prezzo triplicò nel 1973 e raggiunse gli 11 dollari.
La guerra dello Yom Kippur tra Israele e i paesi arabi indusse questi ultimi a ridurre la quantità delle esportazioni e aumentare le tasse sull’estrazione, con una forte impennata del prezzo di vendita alle grandi compagnie. Il prezzo rimase invariato fino al 1979. Nel 1980-81, per effetto della rivoluzione iraniana, il prezzo si impennò del 300% circa. Nel 1986 si ebbe un ribasso del 70% dovuto all’adattamento dei paesi consumatori alle mutate condizioni di prezzo; e il ribasso continuò sino alla fine degli anni Ottanta intorno ai 10-11 dollari al barile. Con la prima guerra del Golfo nel 1991, a causa dell’incendio dei pozzi petroliferi in Kuwait ordinato da Saddam Hussein che faceva presagire una imminente scarsità del greggio, si produsse un aumento del 400% arrivando a 40 dollari, poi un crollo a 25 nel dicembre dello stesso anno: era finita la paura, tanto che nel 1994 il prezzo scese (-45%) a 14 dollari, e rimase a questo livello fino al 1999.
Nel 2000 il greggio subì un aumento del 45% circa, con una oscillazione da 26 a 34 dollari nel corso dell’anno. Dal 2001 (anno dell’attentato alle torri gemelle) al 2003 il prezzo rimase pressoché invariato, oscillando intorno ai 20 dollari, mentre nel 2004, a fine anno, si ebbe un forte rialzo del 100%, raggiungendo la soglia dei 40 dollari al barile. Le cause congiunturali determinanti furono la previsione di scarsità legata alla seconda guerra del Golfo in Iraq e le crisi politico-sociali in Nigeria e Venezuela. Da quell’anno il prezzo ha registrato continui aumenti, per ragioni dettate principalmente dall’emersione economica della Cina e anche dell’India e dalla mancata ripresa della produzione irachena e iraniana. Dal 2008 in poi il prezzo ha continuato a salire, raggiungendo i 149 dollari.
Entriamo in pieno nel periodo del capitalismo finanziario e nel ruolo determinante del gambling borsistico, il tutto favorito dalla svalutazione del dollaro. Il crollo a 40 dollari al barile è anche la conseguenza dell’inizio della stagnazione secolare che culmina nella deflazione dell’Europa a dominazione teutonica.
Oggi tutto è cambiato rispetto agli anni Settanta: è la finanza che fa il prezzo e non le quantità fisiche. Ma le quantità fisiche – non dimentichiamolo! – hanno ancora un grande margine di manovra in tempi di crisi, ossia quando la finanza svolge anche rispetto al petrolio lo stesso ruolo che svolge rispetto a tutte le altre merci prodotte in un mondo come quello odierno, caratterizzato da un regime di sovrapproduzione da un lato e di sottoconsumo dall’altro: ossia di mancato ampliamento della domanda interna in forme e modi che rendano sostenibile l’enorme aumento della capacità produttiva dell’industria e dei servizi su scala mondiale. Questa è la cosiddetta deflazione mondiale. I prezzi crollano nonostante la finanza, con i suoi artifici che spesso si sgonfiano come bolle, prenda tempo rispetto alla crisi di sovrapproduzione, ossia paghi a debito ciò che il reddito non paga e non compra perché non esiste più per effetto della povertà.
L’epicentro di questo fenomeno è ora divenuta l’Europa dove non si acquista quasi più nulla di rilevante se non a debito o in condizione di sopravvivenza minimale, di sottoconsumo, nel dilagare della povertà e della miseria. Il fascino della finanza è così forte che non solo prendiamo tempo facendo debiti privati, ma neppure ce ne accorgiamo salvo quando il debito, sotto forma di povertà e rabbia, prende le forme antropologiche della rivolta e delle aggressioni sessuali degli abitanti delle periferie, come è successo a Colonia e presto succederà – se si continua in questo modo a sottovalutare il problema della deflazione secolare – in tutta quanta l’Europa.
Di qui la crisi internazionale delle banche e soprattutto la crisi internazionale del petrolio e del suo prezzo.
IL CROLLO DEI PREZZI: LA STRATEGIA SAUDITA. Le cause del crollo del prezzo del petrolio oggi si complicano perché accanto alle ragioni finanziarie si accumulano, si affollano, quelle geopolitiche. Il petrolio è ritornato a essere quello che è stato nella prima metà del Novecento, ossia una pedina del grande gioco di potenza mondiale.
L’Arabia Saudita si è messa alla testa della lotta scismatica islamica per indebolire irreversibilmente il ruolo degli Stati Uniti nel Grande Medio Oriente, ossia nell’area mondiale che va dal Marocco sino all’India e che un tempo era l’“heartland”, il punto nevralgico che univa Occidente e Oriente e dava a chi lo dominava il controllo del mondo. Di qui il sangue continuamente versato in quelle terre. Da circa dieci anni, lo scannatoio è ricominciato. Gli Stati Uniti si sono illusi che il recente accordo con l’Iran – ossia con il grande impero persiano che ora pare risorgere dalle ceneri di un lungo silenzio – potesse ristabilire l’ordine di potenza, dando nuovamente a Washington il ruolo dell’arbitro sovrano. Ciò non è accaduto e non accadrà. Il silenzio dura dagli anni Cinquanta, quando il tentativo della Persia di riacquistare dignità nazionale attraverso il controllo delle sue fonti petrolifere fu bloccato dal colpo di Stato del 1953 della CIA e dei servizi segreti inglesi contro il principe di sangue Mossadeq, che solo l’ENI di Mattei coraggiosamente appoggiò.
Così facendo gli USA e l’UK sceglievano un campo, quello wahabita e antisciita, nel complesso mondo islamico e si affidavano nel contempo al nazionalismo arabo e ai partiti appunto panarabisti e nasseriani per il controllo di un’area essenziale per il confronto di potenza mondiale con l’URSS, che passava – e continua oggi a passare con la Russia – attraverso l’energia.
Molti pensano che la storia del petrolio mondiale sia sempre stata determinata dal prezzo. Questo è vero solo a metà. Il ruolo del prezzo diviene determinante solo in condizioni di stabilità e di equilibrio di potenza. Se questo non esiste, chi possiede i giacimenti e controlla l’offerta può tentare di mettere in scacco qualsivoglia equilibrio di potenza si voglia costruire.
L’Arabia Saudita, per bocca del presidente dell’ARAMCO, ha dichiarato che continuerà a produrre quale che sia il crollo dei prezzi che verrà a determinarsi. Il disegno è chiaro. Indebolire il ruolo degli Stali Uniti in tutto l’heartland, contando sull’alleanza con gli Stati del Golfo, il Pakistan e il Bangladesh. Pechino non svolge, come si crede, un ruolo di equilibrio tra Arabia Saudita e Iran, come appare chiaro seguendo i viaggi diplomatico-energetici di Xi Jin Ping. La Cina, con l’India, non riesce ancora a uscire dalla morsa del carbone ed è quindi interessata a quanto più rifornimento di greggio sia possibile; ma, come gli Stati del Golfo, ha come obiettivo di indebolire gli Stati Uniti con ogni mezzo. Per questo non è escluso che l’acquisto di greggio abbia un ruolo strategico per sostenere i conti dello Stato saudita, piuttosto che un vero e proprio ruolo cosiddetto di mercato.
L’Europa tace e non ha più voce e chi si ostina ancora a invocarne un ruolo viene rimproverato arrogantemente dalla potenza che, per circa un secolo dopo Sedan (1870), dell’Europa è stata l’incubo e la distruzione. Chiedersi perché tutto ciò accada ora e proprio ora non è improprio. Tutto ciò accade ora perché le potenze del Golfo guidate dall’Arabia Saudita e dalla Turchia, a fianco della Cina, hanno deciso di tentare di indebolire in forma irreversibile il dominio nordamericano sul mondo.
IL “GRANDE GIOCO” NELL’HEARTLAND È RICOMINCIATO. Ma il punto debole di questa strategia risiede proprio dove essa pare avere il suo punto di forza, ossia l’Arabia Saudita. L’aggregato tribal-poligamico che non riesce a farsi Stato weberiano legalrazionale ha giustiziato inizio gennaio 2016 decine di prigionieri politici, tra i quali l’imam sciita al Nimr, nel tentativo di nascondere i profondi problemi in cui è immersa la dinastia saudita. La crisi interna alla monarchia rischia così di trasformarsi nella classica scintilla che dà fuoco a una più vasta prateria. Re Salman si trova ora a dover affrontare una situazione regionale e internazionale molto complessa e foriera di minacce per la stabilità del regno. In primo luogo, due situazioni molto difficili ai suoi confini meridionale e nordorientale: a sud, lo Yemen sta attraversando una grave crisi politica che potrebbe portare alla presa del potere da parte dei ribelli sciiti Houthi appoggiati dall’Iran, il grande nemico dei sauditi. A nordest, l’Iraq è controllato per circa un terzo del territorio dai miliziani dello Stato islamico contro cui l’Arabia Saudita ha cominciato una campagna aerea militare, mettendo a nudo la contraddizione profonda in cui il regno si dibatte: perché la vittoria dell’esercito di Baghdad rafforzerà di fatto una potenza – l’Iraq – che a differenza del passato diverrà, una volta sconfitto l’ISIS, alleata dell’Iran sciita, sconvolgendo l’equilibrio di potenza nel Golfo e in tutto l’heartland, ossia nelle terre che vanno dalla Turchia all’India.
Non a caso l’Arabia Saudita ha tentato in tutti i modi di attirare, attraverso azioni militari congiunte, la potenza del Pakistan, anch’esso paese a dominazione etnica sunnita, ma l’intelligence americana e la pressione dello stesso presidente Obama hanno sventato questa minaccia che avrebbe internazionalizzato sino ai confini dell’India la crisi del Golfo, con conseguenze imprevedibili. È noto, tuttavia, quale sia stata e sia l’arma principale di questo tentativo di fermare l’ascesa della potenza dell’Iran, nazione sciita ma soprattutto rivoluzionaria come orientamento internazionale, ossia capace di proiettare truppe combattenti al di fuori dei confini della madre patria con decine di martiri esaltati nel loro sacrificio in terra irachena e siriana, l’arma principale dei sauditi avrebbe dovuto essere la rottura del patto che ha retto l’OPEC per più di due decenni, ossia la regolazione congiunta dell’offerta di petrolio così da concordare il prezzo tra tutti i paesi produttori che di quella organizzazione fanno parte.
L’obiettivo saudita è, come noto, quello di far crollare i prezzi sino a vanificare gli investimenti americani nello shale gas e nello shale oil, impedendo così al Nord America di raggiungere l’autosufficienza energetica e contrastando l’imprevisto cambio di rotta di Washington nel sistema di equilibri di potenza del Golfo, con l’alleanza di fatto stipulata con Teheran attraverso l’accordo sul nucleare concluso a Vienna tra mille polemiche e mille ostacoli, tutti superati grazie all’intransigenza nordamericana e all’intelligenza politica dell’establishment iraniano, che ha avuto nelle sue componenti più moderate gli alfieri dell’accordo. Accordo difficile che deve ancora essere implementato e che deve trovare l’assenso sia di Israele sia dell’opinione pubblica americana e del Congresso. L’offensiva saudita è rivolta anche contro la Russia, giù indebolita dalle sanzioni economiche per la crisi ucraina e che vede nel crollo dei prezzi del petrolio un’ulteriore difficoltà economica. I sauditi sperano in tal modo di indebolire l’asse siriano-russo, non comprendendo che tale asse è indistruttibile pena la perdita del prestigio e dell’influenza russa nei mari caldi e che per Mosca è vitale e irrinunciabile, soprattutto oggi che i rapporti con Ankara sono pessimi. I russi non possono cedere.
Del resto l’insegnamento del grande Evgenij Maksimovič Primakov, testé scomparso, è sempre più attuale. Primakov è stato il più intelligente dei diplomatici mondiali dopo Kissinger (del quale non a caso era grande amico); prima di morire aveva compreso benissimo che l’unico modo per ridare alla Russia dignità internazionale era riprendere la strategia di un altro grande personaggio russo dell’era zarista: Aleksandr Michajlovič Gorčakov, ministro degli Esteri della Russia dal 1856 al 1882 e protagonista politico dell’espansione dell’impero russo in Asia centrale. Gorčakov riuscì a far annullare, dopo la sconfitta francese del 1870 nella guerra contro la Germania, le pesanti clausole imposte alla Russia dal Trattato di Parigi del 1856, a seguito della sconfitta subita dal paese nella guerra di Crimea. Questo consentì alla Russia grazie alla neutralità dell’Austria – di attaccare l’impero ottomano nel 1877. Putin persegue esattamente questo obiettivo, che oggi si traduce nel garantire la stabilità dell’influenza russa in Asia centrale: ed è per questo che non può evitare il conflitto con Ankara.
Il “grande gioco” è di nuovo iniziato e l’Arabia Saudita entra in esso nel peggiore dei modi e, se si vuole, anche in quello più infantile, ma non per questo meno crudele e spietato: uccidendo i suoi oppositori, a iniziare dai capi spirituali degli sciiti che languiscono nelle sue prigioni, come dimostra l’esecuzione dell’imam al Nimr e la persecuzione di tutta la sua famiglia. I sauditi sperano in questo modo di indebolire l’ala riformista iraniana, di intensificare l’odio tra le fazioni, di soffocare i problemi interni del loro paese attraverso una strategia di repressione. E pensare che i sauditi presiedono all’ONU il Comitato sui Diritti umani! Una vera e propria vergogna, dell’ONU e dell’Occidente. La realtà dei conflitti e degli sciismi è già durissima e la coppa del destino è colma di sangue. Sarebbe opportuno non trasformare, o meglio non accompagnare, alla tragedia la farsa.
Giulio Sapelli è professore ordinario di Storia economica all’Università statale di Milano