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 2016  marzo 25 Venerdì calendario

L’UMORE NERO DELL’ARABIA SAUDITA


La crescente distrazione americana rispetto alle vicende mediorientali e il ritorno dell’Iran sulla scena diplomatica – ed economica – internazionale preoccupano molto l’Arabia Saudita. Mentre il paese è impegnato a riformare l’economia e a fronteggiare la caduta del prezzo del petrolio, la rivalità con Teheran si è acuita, diventando un pericolo per la stabilità non solo di Riyad, ma dell’intera regione.
Se i paesi avessero un umore, quello dell’Arabia Saudita sarebbe tetro. Il paese, tuttavia, è anche insolitamente determinato a far sentire il peso della propria presenza in una regione così turbolenta. L’anno scorso, il regno conservatore dell’Arabia Saudita ha sferrato una guerra nel vicino Yemen e si è concentrato intensamente su quella in Siria, fonte a sua volta di sempre nuovi conflitti. Intraprendendo una via mai seguita prima, ha offerto di inviare truppe di terra per unirsi alla coalizione a guida statunitense che combatte lo Stato islamico (ISIS). Intanto i suoi rapporti con l’Iran hanno toccato il punto più basso; il prezzo del petrolio, fonte del suo benessere, è precipitato; le riforme economiche potenzialmente di vasta portata sono ancora in via di realizzazione.
Non c’è dunque da meravigliarsi se il primo anniversario dell’ascesa al trono di re Salman, lo scorso gennaio, è stato salutato da entusiastici servizi giornalistici da parte dei fidi media sauditi: “Salman: forza e rinnovamento”, si è infervorato il quotidiano al Watan in un supplemento elogiativo dedicato all’ultimo discendente degli al Saud, chiamato ad assumere il titolo formale di “Custode delle Due Sacre Moschee”. Anche le meno deferenti testate giornalistiche del resto del mondo hanno concentrato sull’evento la loro attenzione, aiutate da una intraprendente campagna di relazioni pubbliche messa in atto da Riyad per pubblicizzare la portata dei cambiamenti recenti e di quelli futuri.

LA PAURA DI UN ALLONTAMENTO AMERICANO. L’umore nero dell’Arabia Saudita è direttamente collegato agli attuali cambiamenti apportati alla propria linea politica dal suo più stretto alleato internazionale, gli Stati Uniti, e alla sfida posta dalla Repubblica islamica dell’Iran, sua vicina e avversaria di lunga data. Riyad ha sempre visto il rapporto con Washington come l’ancora di salvezza della propria posizione e non ha quindi apprezzato la presidenza di Barack Obama. La decisione americana di abbandonare il presidente egiziano Hosni Mubarak nella Primavera araba del gennaio 2011 è stato un duro colpo. Del resto il rovesciamento di Mubarak da parte del popolo a piazza Tahrir è stato l’incubo degli autocrati di tutta la regione. Un altro colpo è stato quello sferrato dall’attività diplomatica che nel luglio 2015 ha condotto all’accordo nucleare con l’Iran, alla fine delle sanzioni e dell’isolamento internazionale di quel paese.
Già nel 2008, in via riservata, il re Abdullah aveva esortato gli americani a “tagliare la testa del serpente (iraniano)”, come è emerso dai documenti segreti rivelati da Wikileaks. Negli anni seguenti è stata fatta spesso allusione alla possibilità che i sauditi si potessero rifornire di armi atomiche nel caso in cui il programma nucleare di Teheran non fosse stato bloccato.
Alla fine anche Riyad, come Tel Aviv, non ha avuto altra scelta che accettare l’accordo, pur insistendo sul fatto che le “scellerate attività” dell’Iran in Medio Oriente debbano comunque essere fermate. “Quanto ad assicurare che l’Iran non acquisisca un’arma nucleare, l’accordo probabilmente ha funzionato” ha commentato un analista saudita ben informato. “Ma quanto a far sì che l’Iran possa diventare uno Stato più responsabile o che si riveli meno pericoloso per la regione e per la comunità internazionale, allora l’accordo è innegabilmente nato morto.
“La determinazione è l’altra componente dell’attuale atteggiamento saudita: “Di fronte all’abbandono da parte dell’amministrazione Obama delle responsabilità storiche degli Stati Uniti nel Medio Oriente – spiega Nawaf Obaid, influente consigliere reale – i sauditi non hanno altra scelta che quella di andare avanti più energicamente nella propria azione”. La tesi che gli Stati Uniti stiano “abbandonando” l’Arabia Saudita dopo otto decenni è in realtà un’esagerazione. In fin dei conti, un valore di decine di miliardi in armi avanzate, forniture di petrolio e basi militari statunitensi strategiche nel Golfo, sono cose che attestano tutte un impegno costante e un forte investimento.

LA PAURA DELLA “MEZZALUNA SCIITA”. Tuttavia, i sauditi hanno le loro ragioni nel preoccuparsi della strategia americana, non da ultimo della linea di condotta ondivaga nei confronti della Siria. Il punto più basso è stato toccato nell’agosto 2013, quando Bashar al Assad attraversò sfacciatamente la “linea rossa” tracciata da Obama e utilizzò le armi chimiche per uccidere 1.400 persone nell’area del Ghouta. L’esito di quell’atrocità non fu quello che i sauditi, e altri, avevano per un breve periodo sperato – cioè l’intervento militare contro Assad – ma fu un accordo tra Russia e Stati Uniti che obbligava sì la Siria a disfarsi delle armi chimiche, ma che consentiva il proseguimenti dei massacri con l’uso di quelle convenzionali. Alla fine, ciò ha soltanto reso più baldanzosa Damasco e ha convinto un maggior numero di siriani di non poter fare affidamento su aiuti esterni per vincere. I sauditi, certamente non democratici, hanno messo in chiaro sin dall’inizio di volere l’allontanamento di Assad e di appoggiare i ribelli che lo combattono. Il re Abdullah, legato da vincoli familiari alle tribù siriane, ha evocato le sofferenze di quel popolo, sebbene nelle sue valutazioni non abbia avuto un peso minore il sostegno iraniano ad Assad – e ancor di più il fatto che il clan di Assad appartenga alla setta alawita (legata agli sciiti) e governi su una maggioranza sunnita. Le obiezioni saudite erano di carattere strettamente nazionale, non religioso: nella guerra tra Libano e Israele, nel 2006, Assad aveva insultato Abdullah e altri leader arabi definendoli “mezzi uomini” che avevano saputo portare solo sconfitta e umiliazione.
Nel 2011, i sauditi erano rimasti profondamente scontenti dell’ascesa sciita al potere e dell’influenza iraniana in Iraq, del ruolo di Hezbollah in Libano e dei disordini tra la maggioranza sciita nel Bahrein dominato dai sunniti, dove erano intervenuti per schiacciare le proteste della “rivoluzione della perla”, tre settimane dopo il rovesciamento di Mubarak. L’espressione “mezzaluna sciita”, coniata dopo la caduta di Saddam Hussein, cedette il passo all’idea più aggressiva, e tuttavia esagerata, che Teheran “controllasse tre capitali arabe”. Nel 2014, all’ elenco che comprende Baghdad, Beirut e Damasco, si è aggiunta Sana, la capitale yemenita.

LA RIVALITÀ CON L’IRAN. NEL 2015, Mohammed bin Salman, figlio del re, ministro della Difesa e “viceprincipe” ereditario, ha presentato l’intervento saudita nello Yemen come una questione di sicurezza nazionale al fine di restaurare il governo legittimo e difendere dai ribelli Houti, sostenuti dall’Iran, il “cortile di casa”, selvaggio e impoverito. Gli oppositori hanno giudicato questa iniziativa una mossa avventata e mal concepita in direzione di quello che potrebbe rivelarsi il Vietnam dell’Arabia Saudita. La portata dell’appoggio militare iraniano ai ribelli Houti – appartenenti alla setta Zaydi, di area sciita – resta poco chiara. Pare che i sauditi abbiano temuto la creazione di una versione arabica di Hezbollah. Tuttavia c’è chi suggerisce che le ripetute accuse siano diventate una profezia autoavverante: lo Yemen, dove le vittime civili sono in aumento, è presente soprattutto nella propaganda iraniana e la questione ha inasprito l’animosità tra Riyad e Teheran. “I sauditi parlano spesso dei poveri siriani affamati, ma mai dei poveri yemeniti – osserva un viaggiatore che si reca frequentemente a Riyad — e a Teheran avviene l’inverso.
“Cosa c’è allora alla base delle difficoltose relazioni tra questi due potenti Stati musulmani? L’Arabia Saudita si presenta come leader dei sunniti del mondo: il pellegrinaggio haj alla Mecca è l’espressione più viva di questa posizione. L’Iran è il centro del mondo sciita, che costituisce forse il 13% della totalità dei musulmani. Lo scisma risale alla battaglia di Karbala, nell’Iraq del VII secolo, ed è stato perpetuato da differenze dottrinali che ricordano quelle esistenti tra cattolici e protestanti, aggravato dal fatto che gli sciiti percepiscono se stessi come gli oppressi, i diseredati. Ma gli antichi pregiudizi forniscono il lessico e i riferimenti utilizzati nella rivalità geopolitica contemporanea: “È più utile guardare al modo in cui la religione viene impiegata e manipolata dalle élite per finalità politiche che spiegare il conflitto soltanto attraverso i riferimenti a un antico scisma nel cuore dell’Islam”, osserva lo studioso dell’area del Golfo, Toby Matthiesen. Per Hamid Dabashi, docente universitario americano di origini iraniane, “l’intensificarsi delle rivalità e del malanimo tra Iran e Arabia Saudita non ha nulla a che vedere con la divisione tra sunniti e sciiti nella teologia islamica, ancor meno con il destino comune di arabi e iraniani”: piuttosto, “essa non è che l’esplosione della furia di due Stati determinati a ogni costo a superare l’uno la strategia dell’altro”.
Le attuali tensioni tra sauditi e iraniani risalgono alla rivoluzione islamica del 1979: un evento che ha segnato un autentico spartiacque e le cui ripercussioni sono state avvertite in tutto il Medio Oriente. L’idea teocratica del Velayat al-Fagih dell’ayatollah Khomeini (“la tutela del giurisperito”) metteva in discussione la legittimità di una monarchia assoluta. L’elemento sunnita-sciita si intrecciò con l’ostilità arabo-persiana dovuta al sostegno che i sauditi avevano dato all’Iraq durante gli otto anni di conflitto con l’Iran. Non è stata una coincidenza che, nel 1986, all’apice di quella sanguinosa guerra, il re Fahd avesse adottato il titolo di Custode delle Due Sacre Moschee, sulle orme delle prerogative rivendicate dai sultani mamelucchi e ottomani. Nel suo testamento, Khomeini – come è noto – inveì contro gli al Saud definendoli “tiranni”, “traditori del grande santuario di Dio”. L’atmosfera era migliorata negli anni Novanta, sotto la presidenza di Rafsanjani, prima, e di Khatami, poi. Ma le tensioni sono riaffiorate dopo la caduta di Saddam Hussein e, nuovamente, durante la Primavera araba, quando la rivalità strategica ha assunto una sfumatura marcatamente settaria. I religiosi sauditi erano soliti denigrare gli sciiti definendoli “Rafida”, Safavidi e Zoroastriani. I media iraniani hanno deriso gli al Saud chiamandoli “al Salul” (un personaggio del VII secolo che professava aderenza all’Islam ma che in realtà aveva sfidato il profeta Maometto). L’intollerante ideologia fondamentalista wahabita è diventata un termine usato come insulto. Della dottrina takfiri adottata dallo Stato islamico e da altri movimenti jihadisti – che legittima l’uccisione degli “apostati” – è stato accusato ingiustamente lo Stato saudita. All’inizio della campagna nello Yemen, l’Iran ha accentuato la propria retorica antisaudita con la previsione da parte di un comandante della Guardia rivoluzionaria della “caduta della casa dei Saud, sulle orme della sionista Israele”. I toni si sono alzati ancora di più dopo la tragedia del 2015 alla Mecca in cui, tra gli almeno 2.200 pellegrini morti, 460 erano iraniani. In questo, come in altri momenti di tensione, i media sauditi hanno posto l’accento sulla situazione di Ahwaz (Khuzestan o Arabistan), nell’Iran sudoccidentale, dove i cittadini di lingua araba lamentano di essere discriminati, un tema evidentemente utilizzato allo scopo di infiammare le tensioni nazionaliste in Iran.
“Entrambe le parti sono coinvolte in un ciclo sempre più aspro di reciproca ostilità – mette in guardia Ali Ansari, uno storico dell’Iran che vive nel Regno Unito – Gli iraniani confondono i sauditi con l’ISIS, ma anche gli americani con i sauditi. Pensano che ci sia un’unica grande cospirazione e questa è la ragione per la quale l’intera situazione è così pericolosa”.

UNA TENSIONE PERICOLOSA PER LA REGIONE. Per un rapporto già compromesso, l’anno nuovo è iniziato nel peggiore dei modi quando i sauditi, ignorando gli avvertimenti iraniani, hanno giustiziato il religioso sciita Nimr al Nimr, descrivendolo non come un pacifico dissidente, ma come il violento membro di una setta, colpevole di aver “sfidato il sovrano” nella provincia orientale, patria della minoranza sciita del paese. Degli altri 46 uomini decapitati il 2 gennaio, 43 erano sunniti condannati per attività terroristiche a favore di al Qaeda. Le esecuzioni hanno ricevuto un vasto consenso in quanto presentate come necessario deterrente nei confronti dell’ISIS e dell’Iran, considerati tra i più pericolosi nemici del regno. Considerarli allo stesso modo ha permesso ai sauditi di sostenere che tra i criminali non ci sono differenze settarie.
L’escalation delle violenze si è immediatamente concretizzata con i furibondi assalti all’ambasciata saudita a Teheran e al consolato a Mashhad. Questi fatti hanno segnato quella che un analista ha definito “la trasformazione dell’Iran in un agitatore politico dei movimenti sciiti nei paesi musulmani”; trasformazione che “è parsa confermare secoli di sospetti sunniti sul fatto che gli arabi sciiti rispondono alla Persia. I cittadini sauditi sono sembrati sinceramente indignati e hanno applaudito quando i rapporti diplomatici sono stati interrotti”.
“Il pensiero di Teheran è fondamentalista, non patriottico”, ha commentato il giornalista saudita Jamal al Kashoggi. “Come tutti i fondamentalismi, è ottuso e capace di vedere le cose soltanto in bianco e nero. Perciò, il confronto di oggi non è tra sunniti e sciiti ma tra il fondamentalismo sciita e quello sunnita, rappresentato dall’ISIS”.
Bin Salman si è affrettato a liquidare il pericolo di una guerra combattuta tra Arabia Saudita e Iran, ma la retorica è rimasta molto aggressiva. Adel al Jubeir, ministro degli Esteri saudita e Mohammed Javad Zarif, suo omologo iraniano, sono ricorsi alle pagine dei quotidiani occidentali per continuare la loro battaglia fatta di narrative inconciliabili.
“L’Arabia Saudita – ha dichiarato Zarif al New York Times – sembra temere che rimuovendo la cortina di fumo della questione nucleare verrà rivelato qual è la vera minaccia globale: il suo appoggio attivo all’estremismo violento. Qualche giorno dopo, Jubeir ha descritto l’Iran come “l’elemento più bellicoso della regione, le cui azioni dimostrano sia la propensione all’egemonia regionale che la profonda convinzione che un gesto conciliante segnali o la debolezza dell’Iran o quella dei suoi avversari”.
Zarif non ha esitato ad attaccare i sauditi per il loro utilizzo della pena di morte: un argomento rischioso, considerato il curriculum anche peggiore dell’Iran. Alla domanda relativa a una sua visita a Londra sulla questione dei diritti umani e sulla due diligence richiesta dalle imprese occidentali prima di avventurarsi nell’Iran post sanzioni, ha risposto: “Se volete la due diligence per le vostre aziende, chiedete loro di applicarla nei paesi che decapitano la gente, 47 in un solo giorno”.
Intanto interrogativi importanti circa il futuro dell’Arabia Saudita restano senza risposta: il più coinvolgente è se le riforme economiche – compresa la discussa vendita del gigante del petrolio ARAMCO, l’eliminazione dei sussidi e persino l’introduzione delle tasse – si tramuteranno in una richiesta di rappresentanza popolare, in un paese in cui è presente a malapena qualche istituzione elettiva.
Le prospettive di un miglioramento nei rapporti tra sauditi e iraniani sembrano scarse. Esistono molti fattori locali che alimentano la guerra nello Yemen e in Siria, ma l’elemento della competizione per delega tra questi due paesi vicini e rivali, rimane forte. “Se i nostri due paesi sapranno collaborare l’uno con l’altro, molte cose si risolveranno”, ha detto una volta Rafsanjani. Il reciproco atteggiamento di disprezzo e demonizzazione, a Teheran e a Riyad, è negativo per entrambi, e per il Medio Oriente nel suo complesso.


Ian Black è redattore del Guardian per il Medio Oriente