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 2016  marzo 25 Venerdì calendario

IL SEDILE CHE SCOTTA

Ho fatto per un giorno il copilota di Stéphane Peterhansel a bordo della Peugeot 2008 DKR16, vincitrice della Dakar 2016. Ed è stato un disastro. Ma l’esperienza mi ha permesso di capire, e di potervi raccontare, che cosa realmente voglia dire sedersi nello stretto sedile del navigatore di una di queste auto per i 500 e più chilometri di una prova speciale della gara vera, anche se per me una cinquantina è stata più che sufficiente.
Del resto, hanno fatto le cose bene quelli della Peugeot Sport per aiutarci a metterci nei panni del secondo uomo degli equipaggi, quello che, troppo spesso e a torto, nelle notizie su questo genere di competizioni, dimentichiamo di citare. Mi hanno messo a disposizione il pilota più vincente della Dakar (26 partecipazioni, 12 vittorie, equamente divise tra auto e moto), il suo fedele navigatore Jean-Paul Cottret (31 Dakar, cinque successi), il mostro meccanico che si è imposto nell’ultima edizione della gara e il tracciato di prova di Saint-Symphoriende-Marmagne, un dedalo di saliscendi sterrati e fangosi, 180 chilometri a settentrione di Lione, dove il bolide francese, un paio di anni fa, aveva mosso i suoi primissimi passi.
Ingredienti perfetti per far crescere dentro di me, chilometro dopo chilometro, salto dopo salto, la già sconfinata ammirazione nei confronti dei “dakariani”.

LEZIONE DI TEORIA
Prima d’indossare tuta, casco e collare Hans (quel supporto, utilizzato ormai da qualche anno nel motorsport, per ridurre il rischio di lesioni alla base della testa e al collo) e di farmi aiutare nella non facile operazione d’incastrarmi nel sedile di destra, come un mediocre studente di liceo sono andato a ripetizione da Cottret. Che mi ha messo in mano un road book uguale in tutto e per tutto a quelli che, il pomeriggio prima di ogni tappa, viene consegnato dagli organizzatori agli equipaggi in gara.
Uguale, tranne che nelle dimensioni: il mio è di una decina scarsa di pagine, per 9,6 chilometri da percorrere ripetutamente, quello di una singola giornata della corsa sudamericana arriva in genere a 50-60 pagine. Ma i contenuti sono gli stessi: una colonna per il chilometraggio totale e, in piccolo, quello parziale: una per il simbolo grafico che anticipa l’andamento del tracciato; una per i simboli che ti avvisano di quello che ti aspetta e di eventuali pericoli.
Basta, che nei rally-raid, a differenza di quelli “normali”, non esistono note del percorso, né ricognizioni: niente “destra 3 lunga chiude...”, per capirci. Sono le intuizioni del navigatore a guidare le azioni del pilota. La sua capacità di decifrare e comunicare tempestivamente lettere e simboli della colonna di destra. «!! Ep G cx et S» significa, per esempio: «Doppio pericolo, tornante a sinistra con pietre, poi andamento sinuoso» (le lettere derivano dalle iniziali di parole francesi, G sta per “gauche”, cx per “cailloux”: tutta la Dakar è francese nella sua organizzazione, fin dalle origini, quando andava dalla Ville Lumière al Senegal, ex colonia di Parigi).
La mancanza delle note tipiche dei rally spiega il periodo di adattamento necessario per emergere in questo tipo di gare anche di grandissimi campioni del Wrc, come Sainz, Loeb e Hirvonen. Perché un conto è sapere esattamente cosa ti aspetta dopo una curva, un altro è procedere quasi alla cieca per centinaia di chilometri al giorno, avendo in molti casi come unico riferimento il “cap” (C, sul road book), la direzione da seguire espressa in gradi («C 60°», per esempio). Il tutto, spesso, in mezzo a dune e creste di sabbia che farebbero perdere l’orientamento anche alla più esperta nave del deserto, cammello o dromedario che sia. E tra un divieto e l’altro del regolamento, partorito dalle menti sadiche della direzione gara.
«Non puoi scrivere nulla sul road book, ma solo usare evidenziatori di colori diversi», mi spiega Cottret con la pazienza necessaria verso i neofiti, «non puoi immettere dati nel Gps, che è uguale per tutti e non è di tipo cartografico; non puoi usare i telefoni in dotazione (Gsm e satellitare), se non fuori dall’auto; non puoi superare i limiti di velocità, imposti anche in certi punti delle prove speciali (per esempio, quando si attraversano i villaggi), altrimenti scattano tre minuti di penalità ogni 150 metri percorsi ad andatura eccessiva (e, dopo un certo numero di violazioni, sei fuori gara); non puoi mancare di più di 200 metri i waypoint, i punti di controllo (elettronici) del passaggio dell’auto lungo il percorso prestabilito».

SENZA RESPIRO
Assorbito tutto questo, ti senti già stanco e stressato prima ancora di sederti in macchina. Del resto, se questa fosse stata una vera giornata dakariana, sarebbe iniziata alle 5 del mattino con una rapida rilettura del road book. Che avrei dovuto già studiare a memoria il pomeriggio del giorno precedente. Prima con una sfogliata veloce, una rapida analisi per poter comunicare agli ingegneri e ai meccanici le caratteristiche della tappa, così da poter adattare la vettura a quelle del percorso (ci sono molte pietre? Meglio anticipare di un giorno la sostituzione degli ammortizzatori. E così via...). Poi, con una lettura approfondita, della durata di diverse ore, indispensabile per metabolizzare andamento del tracciato, punti di riferimento, possibili trappole.
Se, a tutto questo, aggiungiamo il debriefing con i tecnici a fine tappa, utile per individuare gli eventuali problemi della vettura e indirizzare il lavoro dei meccanici, di tempo al copilota ne resta davvero poco. Una doccia veloce nel motorhome (o nei bagni comuni, se corri con un team meno facoltoso...); venti minuti per una cena leggera; alle 20, l’ascolto attento del briefing della direzione gara, essenziale per essere al corrente di novità come le variazioni del percorso, i bollettini meteo, le decisioni dei commissari. Così, mentre il pilota può prendersi il lusso di sottoporsi alle cure di un fisioterapista (al quale il codriver ricorre solo se proprio si sente molto acciaccato) e di andare a dormire intorno alle 21.30, il navigatore deve lavorare fino all’una di notte e si deve accontentare di quattro ore di sonno o poco più.
Ma il peggio deve ancora venire. Perché, una volta installato a bordo e legato fino a diventare un tutt’uno con la scocca della vettura, inizia la rumba. Stéphane, com’è naturale in questi test, parte con relativa cautela, ma già a questa andatura mi accorgo del problema principale: la mia lentezza nel leggergli note e distanze. Sono sempre indietro di almeno una curva (ed ecco spiegato il disastro: in gara, saremmo già volati fuori strada...). In più, con il piede destro, a ogni indicazione del road book devo schiacciare un pulsante sul pavimento per azzerare il contachilometri parziale che mi sta davanti (senza toccare, invece, quello del contachilometri totale!). In questo modo, dovremmo sapere sempre esattamente in che punto del percorso ci troviamo e io dovrei avere la possibilità di gridare nell’interfono le parole giuste alla giusta distanza dalla curva, dal tornante, dal salto che ci attendono.
Dunque, il lavoro del copilota consiste in una continua alternanza dello sguardo che deve passare, ininterrottamente, dal percorso intravisto nell’inclinato parabrezza alla pagina giusta del road book, alla complessa strumentazione digitale che gli sta davanti. Chilometro dopo chilometro, scendo dalla Peugeot con una sempre più salda convinzione: non citerò mai più il nome di un pilota senza accompagnarlo con quello del suo navigatore. Massimo rispetto, Cottret!