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 2016  marzo 19 Sabato calendario

TRE MINUTI DA CAMPIONE POI IL DUCE LO MISE KO


«Ha gradito il lavarello, signore?». «Ancora un goccio di sforzato?». «Yes, sir. Immediately, sir».
Ancora una volta, mentre si guadagnava la giornata ai tavoli del Passatore, la mente di Pasqualino era andata a quel giorno. Non aveva sempre fatto il cameriere Domenico Bernasconi da Carate Lario, classe 1902. E se tutti sulle due sponde del lago lo chiamavano a quel modo un motivo c’era: se lui ti dava un pugno le campane risuonavano come l’ultimo giorno di quaresima.
Nel 1924 Pasqualino aveva affogato le speranze italiane di una medaglia olimpica dalla boxe tra le scappatelle nei notturni parigini. Poi si era preso il titolo italiano dei piuma e dei gallo, poi quello europeo.
L’appuntamento con la gloria era in calendario per il 19 marzo del 1933. Domenico Bernasconi ci arrivava con un record di 44 match vinti e 17 persi, nonostante la tournée americana contro i più feroci del circuito. All’angolo opposto c’era Al Brown detto Panama, perché il Canale gli aveva dato i natali. Pasqualino giocava in casa, al Palazzo dello Sport di Milano di via VI Febbraio. La struttura progettata dai fratelli Valle, soprannominata el Sciavatun per via della caratteristica forma a pantofola, poteva contenere 15 mila persone. Smaniose di assistere allo sgarbo lariano ai danni di uno dei piccoletti più forti di ogni epoca.
Quel 19 marzo Bernasconi si sentiva in forma come mai lo era stato e prese a martellare senza tregua sin dal primo rintocco. Il panamense, sorpreso, si rifugiò in una serie di abbracci al corpo dell’avversario. La sua condotta di gara non fu apprezzata dall’arbitro, l’inglese Hart che, forse condizionato dalle urla dell’accaldato pubblico milanese, decise di porre fine alle effusioni. Comunicò in inglese allo speaker di aver squalificato Brown, ma questi non capì. Bernasconi invece sì, e si sfilò i guantoni.
Passarono tre minuti, gli unici nei quali Pasqualino sia mai stato campione del mondo. A quel punto intervenne Edoardo Mazzia, segretario della Federazione pugilistica italiana. Incredulo il pubblico assistette al conciliabolo e vide Hart tornare al centro del ring: il match riprendeva, si dice perché il regime non poteva accettare un match vinto per squalifica, era poco decoroso. Fatto sta che la campana suonò un’altra volta, poi altre ancora. E Brown vinse ai punti.
Bernasconi non andò al tappeto, né allora né in seguito. Non ebbe più chance mondiali e a fine carriera rimase a vivere a New York. Per sette anni gestì un drugstore a Coney Island, sposò la ballerina di Broadway Aida Martini e se la portò sul suo amato lago.
Le cose andarono diversamente a Panama Brown. Che si era sniffato tutti i compensi, quelli che non aveva perso ai cavalli. Nel 1951 lo trovarono morto vicino a un cassonetto della Bowery, ai funerali Bernasconi era tra i pochi intimi.
«Il pugilato fu una delle discipline ideologicamente più affini al progetto di costruzione dell’uomo nuovo fascista, quell’italiano virile capace di risollevarsi dallo stato di umiliazione vissuto nel periodo liberale», spiega Sergio Giuntini, storico e autore di volumi sul perverso rapporto tra lo sport e il ventennio.
«Voglio un popolo di cazzottatori», aggiunge, «fu una delle massime più usate da Benito Mussolini. Secondo la sua retorica valeva più un pugno di Erminio Spalla che cento discorsi parlamentari».
Il presunto scippo subito da Pasqualino era stato presto metabolizzato dal pubblico italiano, che poche settimane dopo festeggiò il suo primo campione del mondo. Era il 29 giugno del 1933 e Primo Carnera aveva abbattuto Jack Sharkey, il marinaio di Boston, per la corona dei massimi. Con la sua ascesa, mentre la doppietta Mondiale di Vittorio Pozzo nel calcio era ancora in gestazione, lo sport divenne un formidabile veicolo di propaganda, una muscolosa vetrina internazionale.
Il gigante friulano faceva al caso dell’uomo di Predappio, che non tollerava invece la morale cattolica di Gino Bartali. Ma anche per Primo la gloria fu breve, oltre che strumentale. «Fu un pugile mediocre, la cui carriera è stata costruita dalla scaltrezza di un manager», dice Giuntini. «All’inizio fu bistrattato, perché rappresentava quegli emigranti poveri che la propaganda in camicia nera diceva di aver eliminato. Quando iniziò a vincere il fascismo se ne impadronì, per vendere al mondo la favola del popolo di giganti, ma dopo la consegna del titolo a Max Baer e le veline che ordinavano ai giornali di non immortalarlo al tappeto fu immediatamente ripudiato».
Come Bernasconi, gettato nella polvere e accolto dagli Stati Uniti. Peggio ancora andò a Leone Jacovacci, campione italiano ed europeo dei pesi medi, distrutto a mezzo stampa per via della pelle nera, dono della mamma congolese. Per non parlare di Lelletto Efrati, ebreo, morto ad Auschwitz nell’aprile del 1944.
«Mussolini fu fortunato a governare in un’epoca di splendore per la nostra boxe», conclude Giuntini. «Ma l’atteggiamento nei confronti degli atleti fu sempre lo stesso: prenderli e scaricarli al primo segnale di debolezza, in attesa di un nuovo campione da sfruttare».