Renzo Rosati, pagina99 19/3/2016, 19 marzo 2016
LA NOSTRA DEUTSCHE SI CHIAMA UNICREDIT
Qualcuno l’ha definita la Deutsche Bank italiana, perché tra le grandi banche nazionali è la più problematica, la più esposta alla speculazione dei mercati e, dall’inizio dell’anno, alle montagne russe della Borsa che ne hanno fortemente eroso le rispettive capitalizzazioni. Eppure di Unicredit, sorvegliato speciale del nostro sistema di credito, si parla poco e sottovoce, con l’attenzione tutta concentrata invece sulle “piccole”, quasi che del destino della seconda banca italiana dovessero occuparsi altrove. Per esempio nella Francia di Vincent Bollorè, che della controllata Mediobanca è il secondo azionista.
Mentre i vertici di Unicredit litigano sulla governance, le sorti del secondo istituto di credito italiano potrebbero – in un futuro non lontano – essere decise non tra Milano e il Veneto, ma Oltralpe, nel Paese del finanziere bretone, la parte d’Europa opposta rispetto a quella che l’ex storico Credito Italiano e poi il gruppo guidato da Alessandro Profumo e oggi da Federico Ghizzoni hanno sempre individuato come mèta della propria missione, cioè la Germania, l’Austria, la Polonia, l’Est europeo.
Le simmetrie tra l’Unicredit e l’istituto di Francoforte non sono molte, ma quelle che esistono appaiono decisive: per Deutsche Bank l’Italia è il primo mercato fuori dalla Germania, e per Unicredit l’area tedesca (Germania e Austria) è il primo fuori dall’Italia. Deutsche Bank ha sempre parlato un po’ italiano, nel bene e nel male (nel 2011 vendette 7 miliardi di Btp dando il via alla micidiale impennata dello spread), così come Unicredit conosce la lingua di Goethe, e l’ex numero uno Alessandro Profumo veniva chiamato, oltre che “arrogance”, “il tedesco” anche per via dei suoi trascorsi alla Allianz. Ma soprattutto entrambe sono sottoposte a una cura drastica di tagli, ristrutturazioni e cambi nel modello di business, affidata per l’Unicredit all’amministratore delegato Federico Ghizzoni e per Db al nuovo top manager inglese John Cyran, che tra l’altro dovrà superare il modello di governance duale che invece la concorrente italiana non ha. E il dovere riconquistare la fiducia degli investitori è in effetti il parallelo più vistoso, la missione da non fallire. Unicredit è alle prese con l’ennesima ristrutturazione che prevede in tre anni il taglio di 18.200 dipendenti, seimila dalle cessioni della controllata ucraina e di Pioneer. Gli altri 12.200 esuberi sono individuati in Italia, Germania, Austria ed Europa orientale. Alla fine dovrebbero comunque rimanere in organico ben 111 mila persone. Il piano industriale, che aggiorna i precedenti, include anche il taglio di 800 filiali in Italia, Germania e Austria.
Lo scorso autunno, come rivelato da Lettera43, la banca tedesca Berenberg aveva ipotizzato la vendita in blocco di Hvb (Hypovereinsbank), la controllata di Monaco di Baviera: un cantiere infinito, e il parallelo con i tedeschi che ritorna. L’obiettivo sono risparmi per 1,6 miliardi per arrivare nel 2018 all’utile netto di 5,3. Per raggiungerlo occorre però intanto ricompattare un azionariato diviso tra le storiche fondazioni Cariverona e Caritorino, gli stranieri del fondo Aabar di Abu Dhabi, che ha portato Luca di Montezemolo alla vicepresidenza, gli americani di BlackRock, la Central Bank of Libya e il nucleo dei soci industriali Leonardo Del Vecchio e Francesco Caltagirone. Alla vigilia del consiglio d’amministrazione del 9 febbraio, Del Vecchio aveva proposto un cambio di vertice che non ha avuto seguito; in compenso è tornato in campo, con un ufficioso mandato di mediazione, il 76enne Paolo Biasi, già presidente della Fondazione Cariverona. Il suo scopo è mettere d’accordo Ghizzoni, arabi, italiani, fondazioni; intanto vigilerà sull’attuazione del piano industriale. Ghizzoni ha annunciato per il 2015 un utile di 1,7 miliardi, inferiore ai due del 2014 ma meglio degli 1,4 previsti dagli analisti, la Borsa ha reagito con un calo di otto punti, seguito da un rialzo di undici. I mercati speculano ma percepiscono una debolezza data anche da altri fattori, oltre che dalla estrema difficoltà a ricorrere per ora a nuovi aumenti di capitale.
I parametri dell’Unicredit, quanto a patrimonio proprio e crediti deteriorati, non sono tra i migliori in Italia e in Europa, tanto più ora che imperversa l’occhiuta vigilanza della Bce. Però la banca resta di gran lunga la seconda in Italia per capitalizzazione (22,8 miliardi) dietro a Intesa (41,4) e ben davanti alla terza, la controllata Mediobanca (5,9): i suoi guai rischiano dunque di essere problemi di sistema, anche qui esattamente come quelli di Deutsche Bank. Forse anche per questo tornano voci di soluzioni sistemiche, stavolta non sull’asse Milano-Monaco, come per la cessione di Hvb, ma Milano-Parigi.
Si parla così di Mediobanca, controllata da Unicredit con l’8,6%, e Generali, partecipata da Mediobanca con il 13,4: insomma, di quanto c’è di più pregiato nei possedimenti a valle. Nella compagnia assicurativa triestina, dopo le dimissioni di Mario Greco a gennaio per contrasti con il management, espresso proprio da Mediobanca e Unicredit, diventa amministratore delegato Philippe Donnet, francese, già responsabile di Generali Italia e beniamino di Vincent Bolloré, il 67enne finanziere bretone dal 2015 primo azionista di Telecom; nonché, con l’8%, salito in Mediobanca fin proprio alle spalle di Unicredit. Tra la banca e Bolloré c’è da luglio 2014 un accordo biennale – non chiamiamolo patto di sindacato – che coinvolge anche Mediolanum. E siccome al player francese vengono ormai attribuiti progetti su tutto, dalle comunicazioni ai media, qualcuno si chiede anche che idee abbia su Mediobanca, e se ora – vista la stretta amicizia con Donnet – ne abbia anche su Generali. Una partnership operativa darebbe vita al maggior polo europeo di assicurazioni, previdenza privata, risparmio e consulenza finanziaria e difficilmente potrebbe essere contrastata ai piani alti di Unicredit. E qui si torna ai dilemmi iniziali. Che cosa rende Unicredit così debole ed esposta tra le big? Certo una serie di perdite di bilancio (13,6 miliardi fra il 2008 e il 2014, terza peggiore performance europea dopo Royal Bank of Scotland e la spagnola Bankia, salvate però dagli stati), di tre aumenti di capitale e cali di borsa fino al minimo storico del 9 febbraio (2,77 euro ad azione). Ma soprattutto un azionariato meno coeso rispetto, per esempio, all’asse cattolico Torino-Milano, cioè San Paolo-Cariplo, che governa Intesa. L’integrazione di Capitalia-Banca di Roma, e del Banco di Sicilia, di personaggi come Cesare Geronzi, è stato di più difficile digestione di quanto il Banco di Napoli non sia risultato per Intesa. A lungo tempo gemelle diverse nei due ex top manager – Profumo e Corrado Passera, entrambi ex McKinsey – e pure nelle aspirazioni “di sistema”, si sono poi divise sulle strategie e sui risultati. Resta a Unicredit il primato del grattacielo abitato piu alto d’Italia, quello di Porta Nuova a Milano: supera di 65 metri la sede di Intesa a Cit Turin. Che però è più ecologica.
Renzo Rosati