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 2016  marzo 19 Sabato calendario

AL GRAN BAZAR DELLE BANCHE NON SI FA PIÙ CREDITO


Dal cielo scende moneta, ma a terra non se ne vede traccia. «I numeri parlano chiaro. Il credito alle imprese è inchiodato a 800 miliardi, e non cresce». Fabio Bolognini ha lasciato da qualche anno il vertice di un grande istituto di credito italiano, e si è messo dall’altra parte, assistendo i piccoli imprenditori nei loro rapporti con le banche. Ha un buon osservatorio, per spiegare cosa succede, e cosa non succede, ogni volta che Draghi apre i rubinetti del credito. Stavolta, dovrebbe arrivare un’inondazione, dopo le decisioni del 10 marzo. Eppure, prestare denaro è un rischio che le banche preferiscono evitare di prendere. Ma allora a che servono?
Spingere una corda, pushing on a string. Uno come Draghi, che si è formato alla scuola keynesiana di Federico Caffè (prima di fare una brillante carriera americana molto più ortodossa), questa espressione la conosce bene. Attribuita all’economista inglese, ma in realtà forse pronunciata per la prima volta nel Congresso americano nel 1935, dice che la politica monetaria è come una corda, va benissimo per tirare e per frenare, ma per spingere serve a poco. Eppure il governatore spinge, spinge. Dopo il super-giovedì monetario di marzo, le banche possono prendere denaro a costo zero dal caveau di Francoforte. Sono persino “premiate” per dare crediti. Di più: la Bce può comprare direttamente titoli emessi da società private. È l’estremo tentativo per far sgocciolare soldi all’economia, dalla fortezza della Bce, dove superMario terrà la posizione fino al 2019. Ma la riuscita dell’operazione non dipende solo da lui. Nel mezzo ci sono le banche, il cavallo da spingere con la corda.
«Una frase circola con insistenza nelle aziende: le banche danno i soldi a chi li ha», dice un imprenditore brianzolo, che opera nelle calzature. Il suo è un gruppo commerciale importante, di riferimento per i consumatori della Brianza, e anche abbastanza solido. Eppure, preferisce restare anonimo se deve dire la sua sulle banche, come fosse vittima di un giro troppo potente. Alla domanda sugli effetti positivi dell’invasione di liquidità che arriva da Francoforte, la risposta è in una scettica alzata di spalle. A meno che non si parta già da una posizione di sicurezza. «Per noi piccoli e medi imprenditori alla parola credito viene abbinata senza deroghe la parola garanzie. La storia dell’azienda e i suoi risultati non contano più per avere finanziamenti, serve che l’imprenditore garantisca con il proprio capitale». Risultato? «In questo Paese non si può fare l’imprenditore con una buona idea partendo da zero, bisogna per forza partire da mille».
I numeri che raccontano quel che è successo finora, dall’avvio del quantitative easing in poi, sembrano dare ragione allo scetticismo dell’imprenditore brianzolo. È dal 2011 che la quantità di credito erogata alle imprese dal nostro sistema creditizio si riduce, anno dopo anno. E anche dopo la piccola inversione di tendenza, dal 2014, siamo sempre in territorio negativo: cioè, i crediti all’economia scendono meno di prima, ma continuano a scendere. In più riprese, in occasioni istituzionali o accademiche, il governatore della Bce Mario Draghi ha parlato di un “meccanismo di trasmissione” della politica monetaria che si è inceppato. Ma dove sta l’intoppo?
Torniamo a Fabio Bolognini, che con la sua società Linker accompagna in banca le piccole imprese. Avendo lavorato per anni nella seconda banca italiana, Unicredit, può raccontare la storia anche dall’altro punto di vista, quello di chi i soldi deve darli. «A partire dal 2011», spiega, «le banche hanno cominciato a reagire all’aumento di incagli e sofferenze contestuale al peggioramento dei risultati delle imprese per effetto della crisi, e le politiche di concessione del credito sono diventate più rigorose». Le sofferenze bancarie, i crediti diventati inesigibili, sono schizzate verso l’alto. Solo nel febbraio del 2016, per la prima volta da anni, l’Abi ha annunciato una piccola riduzione, da 89 a 83,6 miliardi. Per questo, le banche hanno preso a “razionare” il credito, per salvare i loro bilanci. Attenzione, però. Bolognini invita a guardare dentro i numeri medi, che come al solito nascondono realtà opposte. «La riduzione del credito non è stata lineare, ma ben più violenta per le piccole imprese: anche nel 2015 dai risultati di Ubi Banca si vede chiaramente come gli impieghi alle grandi imprese siano cresciuti del 9,8%, mentre quelli destinati alle piccole imprese sono scesi ancora del 2,7 per cento».
Dunque, sono stati i piccoli a subire i danni peggiori, anche se non sono stati loro a dare i problemi più grossi alle banche. Anzi, un rapporto di Unimpresa relativo al 2014 mostra che il 67% delle sofferenze bancarie è legato a grandi prestiti non rimborsati, per cifre superiori ai 500 mila euro. Il punto è che, quando il “razionamento” è scattato, ha colpito di più ai piani bassi. Lo racconta, con esercizi econometrici complicati ma con una conclusione chiarissima, un paper recente della Banca d’Italia, intitolato Una stima del razionamento del credito alle imprese. Vi si legge: «L’offerta di credito aumenta con il livello di capitalizzazione della banca e con la dimensione dell’impresa, mentre si riduce all’aumentare della quota di crediti in sofferenza nei portafogli dell’intermediario e del rischio creditizio dell’impresa affidataria». Ma c’è anche un altro nesso, tra le dimensioni delle imprese e della banca e quel che è successo al credito negli anni precedenti la crisi e poi negli anni del razionamento. La presenza di istituti saldamente connessi alla politica e la diffusa presenza di “banche del territorio” sembra aver inquinato la qualità del credito stesso, spesso concesso guardando alla solidità delle relazioni più che a quella dei bilanci. Ci sono state banche, soprattutto tra quelle di credito cooperativo, fondate dagli imprenditori per finanziare le loro stesse imprese; casi eclatanti, come l’apertura infinita di credito al finanziere Roman Zaleiski da parte del fior fiore del sistema creditizio italiano, Banca Intesa in testa; e ancora: i finanziamenti al videopoker per i quali è a processo Massimo Ponzellini, l’ex presidente della Popolare di Milano, così come l’enorme esposizione dei principali immobiliaristi italiani nei bilanci delle quattro banche fallite nell’autunno scorso. «La concessione di prestiti sulla base di relazioni personali – dice Bolognini – ha generato un alto volume di posizioni deteriorate», ma adesso a suo avviso il fenomeno sta diminuendo: «Ora tutte le banche grandi e piccole stanno prestando attenzione al punteggio di merito del credito e alle garanzie, prima di concedere alcunché».
Rieccole, le garanzie. Quel fenomeno per cui, come diceva il nostro imprenditore, si presta denaro a chi già lo ha. Con la piccola ripresa economica – in percentuali da prefisso telefonico, ha certificato l’Istat, ma pur sempre positive, soprattutto in alcune zone e settori – la domanda di credito è cresciuta molto, cioè le imprese si sono riaffacciate in banca per farsi finanziare. Finora, non hanno trovato porte aperte. A febbraio, primo mese di inversione di tendenza, l’aumento degli impieghi a imprese e famiglie è stato sotto le percentuali da prefisso: più 0,04%, dice l’Abi. E non è detto che l’ultima manovra di Draghi cambi molto le cose, secondo Bolognini: «L’entusiasmo per le prospettive di crescita del credito come conseguenza della recente manovra della Bce andrebbe stemperato, bisognerà vedere se cambieranno atteggiamento, fin qui totalmente prudenziale». Eppure alle banche conviene prendere soldi dalla Bce, con le nuove condizioni. «Ricordiamo che il costo del credito è dato dalla somma di tre fattori: costo del rischio, costi del servizio e costi della raccolta. Di fatto, la Bce azzera il costo della raccolta: se a seguito di questo azzeramento le banche troveranno conveniente offrire più credito a un maggior numero di imprese questo avverrà, ma soprattutto per le grandi e medie imprese», conclude Bolognini. E qualche analista finanziario aggiunge: attenzione, perché le banche potrebbero anche utilizzare le agevolazioni che arrivano da Francoforte per aggiustare i loro parametri, cioè sostituire i vecchi crediti un po’ traballanti con nuovi, a condizioni migliori. In questo caso non si tratterebbe di nuova linfa all’economia, ma di un bel lifting per i bilanci delle banche stesse.
«La mia sensazione è che la liquidità che le banche ricevono serva a coprire i loro buchi», traduce con altre parole il nostro imprenditore brianzolo. «Le banche preferiscono dare mutui a dipendenti pubblici e pensionati, perché non vogliono prendersi il rischio d’impresa». E il rischio d’impresa, per una banca, è legato mani e piedi a quello dei soggetti che finanzia: alla possibilità che questi si rivelino insolventi. Per questo rischio, ricevono un profitto: la differenza tra gli interessi riconosciuti ai depositanti e quelli incassati sui crediti. Ma ogni banca decide quanto rischio imprenditoriale prendersi, non sentendosi tenute ad alcun ruolo sociale di olivettiana memoria: tanto più che gli istituti di credito hanno perso il supporto pubblico (la disciplina del bail-in ne è l’esempio più lampante), se sbagliano nell’assegnare il credito, finiranno in fallimento. Gli interventi della Bce favoriscono, indirizzano, facilitano, ma non possono costringere al credito, se per le banche è e resta più conveniente fare qualcos’altro, cioè investire in altro modo la liquidità che ricevono: attualmente nei bilanci degli istituti italiani ci sono 400 miliardi di titoli pubblici, ossia il quadruplo di quanti ne avevano nel 2008, prima della crisi. E le manovre di allentamento della Banca centrale possono favorire questi impieghi alternativi, perché ogni volta che si riduce il costo del denaro tutto il patrimonio esistente, che incorpora le condizioni precedenti, si rivaluta. Insomma, alle banche conviene fare altro che prestare soldi, e questo spiega, in parte, perché la liquidità che piove dalla Banca centrale non sgocciola all’economia reale.
Ma allora a che servono le banche? Le stesse imprese, quando possono, cercano strade alternative. Un’autostrada l’ha aperta proprio Draghi, dando alla sua Bce la possibilità di acquistare obbligazioni emesse da imprese. Se ne avvantaggeranno soprattutto le grandi, e quelle dei Paesi con rating più alto; dunque in prima fila allo sportello Bce ci saranno le imprese francesi e tedesche, per l’Italia potranno affacciarsi solo alcuni colossi, come Eni ed Enel.
Le banche vengono quindi, almeno in parte, disintermediate. Peraltro come accade anche sul fronte dei servizi di pagamento o della consulenza per gli investimenti. Qui la tecnologia fa la sua parte, come dimostra l’espansione a ritmi costanti di soggetti parabancari o di applicazioni tecnologiche. Su alcune piattaforme di servizi finanziari, è già possibile trovarsi davanti un robo-advisor, che dà informazioni e consigli di gestione del portafoglio. Magari sarà un po’ carente sotto il profilo psicologico, nelle fasi di panico o euforia, ma per tutto il resto se la cava.