Marco De Martino, Vanity Fair 23/3/2016, 23 marzo 2016
VOLEVAMO ESSERE SERVITI AL RISTORANTE
«Quella per l’uguaglianza dei cittadini omosessuali è una battaglia epica per l’Italia, perché la libertà parziale non esiste: o sei una persona libera oppure sei oppresso. Essere tollerati non basta: creare classi di cittadini con diritti diversi dagli altri equivarrebbe a vivere nella paura. Ma al tempo stesso, quando sento i miei amici italiani lamentarsi per la lentezza con cui la situazione progredisce nel vostro Paese, mi viene da ricordare che è solo da un anno che abbiamo il matrimonio gay negli Stati Uniti, e che non esiste mai un viaggio perfetto sulla strada che porta ai diritti per tutti. Per questo è importante fermarsi a celebrare le vittorie, anche quelle piccole: altrimenti rischiamo di dimenticare che, nel passato, la nostra battaglia è stata piena di lacrime e sangue. Questi piccoli passi dimostrano che siamo capaci di grandezza».
Grandezza è una parola che David Mixner usa spesso parlando del movimento gay, mentre conversiamo interrotti dalla gente che passa a salutarlo. «Sono una leggenda vivente», scherza, ma in realtà è vero, e non solo perché stiamo mangiando una «Mixner salad» di fianco a una placca che dice «David Mixner Corner» in un ristorante vicino a Times Square.
Da circa 50 anni Mixner è tra i più combattivi leader nella battaglia per i diritti civili negli Stati Uniti. Ha lavorato per Martin Luther King, ha organizzato le marce contro il Vietnam, è stato definito un eroe da Bill Clinton. Consigliere di sei presidenti compreso Obama, consulente di molte campagne elettorali per il partito democratico, si prepara a portare al Teatro Elfo Puccini di Milano David Mixner Show. Oh Hell No!,
lo spettacolo teatrale in cui racconta la storia del movimento per i diritti gay attraverso la sua vita. Lo fa per l’associazione Parks-Liberi e Uguali, che aiuta le aziende a costruire una cultura di inclusione e di rispetto nei luoghi di lavoro. E per dare il suo aiuto alla battaglia per i diritti in Italia.
«Mi sento come una vecchia puttana. Conosco tutti i trucchi del mestiere di attivista, e so che è facile cadere nella tentazione di dire: “Vabbè, ma dopotutto il mio è un Paese tollerante”. La verità è che le leggi sono fondamentali. Come lo è capire che lo scopo di un movimento non è incolpare qualcuno, o dimostrare di avere ragione, ma convincere gli altri a sposare la tua causa. Per questo mi ha sorpreso che Renzi su questo tema si sia speso così tanto da minacciare di far cadere il suo governo. È un buon segno, anche se sarà una lunga battaglia».
Per lei la battaglia quando è iniziata?
«Nel 1976, quando feci coming out. All’epoca ero già conosciuto perché ero uno dei leader dell’opposizione alla guerra in Vietnam, e per il mio lavoro con King e John Kennedy. Ma ancora mi nascondevo, e assieme ad altri gay nella mia stessa condizione avevo formato un gruppo di sostegno. Allora l’omosessualità era considerata una malattia: ho amici che vennero sottoposti a lobotomia e ora vivono come vegetali».
Che cosa la spinse a dichiararsi?
«Lo sdegno. In molte contee americane passarono referendum promossi dalla destra conservatrice che toglievano ai gay ogni diritto, compreso quello di essere serviti al ristorante. Li promuoveva Anita Bryant, una che non era riuscita neppure a vincere il concorso di Miss America, era arrivata seconda. Fu lei che dopo quelle vittorie venne in California, dove vivevo, a proporre una consultazione che avrebbe reso illegale per un maestro LGBT insegnare nelle scuole, e avrebbe radiato qualsiasi professore che si fosse scoperto essere gay».
Una caccia alle streghe.
«Che rese inevitabile il mio impegno, il mio dichiararmi. Mamma e papà non la presero bene: per tre anni non potei tornare a casa.
Venni ripudiato anche dai democratici: restituirono i soldi che raccoglievo per loro. Entrai in crisi, ma misi in piedi un comitato di azione che comprendeva Harvey Milk (che sarebbe diventato il primo gay eletto a una carica pubblica, consigliere comunale a San Francisco, e poi sarebbe stato ucciso nel 1978, ndr). Riuscimmo a far fallire il referendum per radiare gli insegnanti omosessuali. Anche grazie a Reagan, allora governatore della California, che pur essendo repubblicano ci aiutò. Da presidente, purtroppo, fu pessimo nel gestire l’emergenza Aids. Si figuri che pronunciò la parola per la prima volta solo nel 1986, sei anni dopo essere arrivato alla Casa Bianca. I malati non avevano accesso alle medicine: quante volte andai in Messico a prenderle di contrabbando per gli amici. Intanto veniva indetto un referendum per aprire campi di isolamento per i malati».
Agghiacciante.
«Se questo era il panorama politico, mi lasci dire come fu a livello personale. Mi lasci raccontare di quella cena per raccogliere fondi che riuscii finalmente a organizzare a Hollywood, e in cui mi servirono in piatti di carta perché avevano paura di essere contagiati. Mi lasci ricordare i 300 amici che ho perso, tra cui Peter, mio compagno da dodici anni. O le 90 orazioni funebri che recitai. O il gruppo clandestino di sostegno dell’eutanasia che formammo per aiutare chi voleva affrontare una morte dignitosa».
Ricordo la speranza quando tornò un democratico alla Casa Bianca.
«Bill Clinton mi piaceva molto, e accettai volentieri di essere il suo consigliere. In comune avevamo l’estrema povertà delle nostre origini, e date di nascita vicinissime: siccome ho solo tre giorni più di lui mi chiamava “Big Daddy”, e quello divenne il mio soprannome in politica. Ma Bill è sempre stato più bravo a diventare amico di chi cambia le cose che a cambiarle lui stesso. E infatti per mancanza di coraggio introdusse l’orribile legge del Don’t Ask, Don’t Tell (Io non chiedo, tu non dire, ndr) che proibiva ai militari gay di dichiarare la propria omosessualità. Clinton mi chiese di appoggiarlo e io risposi con la frase che dà ora il titolo al mio spettacolo: “Oh Hell No!”».
Che cosa fece?
«Organizzai un picchetto davanti alla Casa Bianca e mi feci arrestare. Clinton era imbestialito, e io persi in 24 ore tutti i clienti della mia agenzia di pubbliche relazioni. Facemmo pace, poi lo feci arrabbiare di nuovo appoggiando Obama invece che Hillary alla nomination democratica nel 2008».
Chi sosterrà quest’anno?
«Ho lavorato con Sanders, ma ormai è chiaro che non può farcela. Sosterrò Hillary: sarà una grande presidente. Questa è un’elezione cruciale: un repubblicano alla Casa Bianca ci toglierebbe tutte le conquiste raggiunte con Obama, che secondo me è stato il migliore di sempre, soprattutto per quanto riguarda i diritti civili».
Non mi dirà mica che il matrimonio gay è a rischio?
«Trump ha già promesso di cancellarlo. E io so per esperienza che un 30 per cento di americani non aspetta altro che eliminare i nostri diritti. Ci percepiscono come una minaccia alla società, non vedono la nostra nobiltà d’animo. Anche nei momenti più bui, anche quando morivamo per indifferenza o ci mettevano in prigione, non abbiamo mai odiato nessuno. Abbiamo lottato sempre e solo con la gioia e con l’amore. È una delle grandi storie del nostro tempo, e io non finirò mai di raccontarla».