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 2016  marzo 23 Mercoledì calendario

ELISA: «LA MIA VITA È UNA FAVOLA» – 

Un po’ da un lato un po’ dall’altro. Elisa sposta i capelli con la mano. Difficile dire che cosa dia il ritmo al movimento.
Dà risposte articolate. Però sembra che di stare lì a parlare ne farebbe volentieri a meno. Ride quando meno te lo aspetti. Non saprei neppure se definirla una risata. È più come aspirare l’aria, da fuori a dentro. Il contrario di come funziona di solito.
Mi piacerebbe vederla come è concesso solo ai suoi amici, «la peggiore, l’ultima a lasciare una festa». Me lo dice quando le ricordo la sua immagine pubblica di timida.
Ma questa è un’intervista. E lei deve parlare di un disco cui tiene molto, On. Diverso dagli otto che lo hanno preceduto. Una svolta che può fare paura anche a una che fa musica fin da ragazzina, e che nel 2007 festeggerà vent’anni di carriera.
Ma è solo un mio pensiero. In realtà, lei dice che non fa parte del suo carattere avere aspettative. Assicura che non ne aveva neppure 15 anni fa, quando andò a Sanremo per la prima volta, nel 2001, vincendo con la canzone Luce (Tramonti a Nord Est).

Da dove arriva questo album che lei stessa ha definito «pop, estroverso»?
«È stata una scelta d’istinto. Credo sia legata al contatto con la gente, il pubblico, la musica che si sente intorno, e all’esperienza di Amici».
Com’è stare in mezzo a tutti quei ragazzi?
«Sembra di essere un po’ la mamma. Quando riesci a far qualcosa per loro, ad aiutarli a intraprendere la strada che desiderano, ti senti utile, e questo è gratificante».
Uno dei brani, Love Me Forever, lo ha scritto a 14 anni. Come funziona? Conserva in un cassetto tutto quello che compone?
«A volte ci sono canzoni che non sono in sintonia con quello che “va di moda”, con la tendenza del momento, magari sono addirittura all’opposto. Farle uscire lo stesso sarebbe come mandare fuori un bambino in maniche corte d’inverno».
Com’era quando l’ha scritta, prima che tutto cominciasse?
«Vivevo per la musica già allora. E avevo il primo fidanzatino. L’avevo composta per lui. Il testo è un po’ ingenuo, ma alcune parti sono quasi sagge. Riflettono quello che mi diceva la nonna sul rapporto di coppia».
Ovvero?
«Che anche quando si vive insieme, non bisogna mai prendere troppa confidenza. “Non bisognerebbe mai offendere l’altro: le parole possono ferire e, una volta dette, non si possono cancellare”. Una cosa semplice ma molto vera».
Mi parli ancora di lei a quell’età.
«Avevo tanti sogni che governavano la mia vita. Ripenso spesso alla mia esistenza, a quello che ho la fortuna di fare e, onestamente, mi sembra una favola. Poteva andare in tanti altri modi».
Lavorava già con sua madre nel negozio da parrucchiera?
«Sì, ma alla sera facevo concerti, per lo più nei piano bar. Oppure la corista per qualche band della zona. Ho cantato tutti i generi: soul, funk, reggae, dance».
Passo a un altro brano: With The Hurt, che parla del conflitto fra genitori e figli.
«Molti condividono la stessa sensazione, il fatto di non riuscire a essere se stessi con i propri genitori. Non importa che si tratti di famiglie dove il padre o la madre non stanno più insieme o, al contrario, di coppie solide. È una costante che mi ha molto colpita e, a me, che ho due bambini (Emma Cecile, 6 anni, e Sebastian, 3 a maggio, avuti dal chitarrista e produttore musicale Andrea Rigonat che ha sposato lo scorso settembre, ndr), serve a ricordare di non far prevalere i ruoli, madre da un lato, figli dall’altro, perché possono essere un ostacolo per i sentimenti. Come se offuscassero il bene che ci si vuole e non permettessero a nessuno di esprimersi totalmente, creando problemi anche gravi. Che, di generazione in generazione, ognuno si ritrova a un certo punto a dover risolvere. Una catena».
Lei li ha risolti?
«Credo di sì, almeno in parte. Per il bene dei miei figli e grazie a loro. I bambini, con la loro purezza, hanno il potere di farti vedere le cose in modo più equilibrato».
Con Andrea vi siete sposati a settembre. Com’è nata questa decisione?
«Volevamo celebrare la nostra storia con le persone che amiamo. Abbiamo aspettato sette anni e due figli prima di farlo. E ne sono felice. Avrei avuto paura a sposarmi subito, senza conoscere abbastanza profondamente l’altro. È stato un giorno magico, talmente bello che era quasi surreale».
Vivete ancora a Monfalcone, dove lei è cresciuta. Non le è mai venuta voglia di andare via dalla provincia?
«Sicuramente una città grande offre più stimoli culturali, ma anche la provincia ha i suoi vantaggi. Per chi ha una famiglia è più rilassante. E poi ho la fortuna di viaggiare tanto. Se non fosse stato così, probabilmente mi sarei trasferita altrove. Molti ragazzi della mia generazione sono andati via, sparsi per il mondo. Però la mia migliore amica vive ancora lì».
La stessa a cui ha dedicato No Hero?
«Sì. Quella canzone parla di rimettersi in gioco ed entrambe, in modo diverso, ci siamo trovate a doverlo fare. Per me, la scommessa è stata questo album, fare le mie scelte, ciò che sentivo giusto. Per un artista è la cosa più importante».
Mi ha fatto venire in mente quello che ha detto in un’intervista a proposito dei talent show. Ovvero che possono essere una gabbia dorata, che chi partecipa può non aver modo di esprimersi come vorrebbe.
«Esatto».
Continua a pensarlo?
«Assolutamente».
E come la mette con il suo ruolo di direttore artistico ad Amici?
«Intanto che è così lo posso confermare con più forza, visto che adesso conosco la situazione meglio e dall’interno. I concorrenti dei talent sono per lo più molto giovani, nella fase in cui ci si forma e in cui è molto difficile non farsi plasmare, influenzare».
Quindi?
«Quindi bisogna stare attenti, ascoltare quello che vogliono i ragazzi e, più che dar consigli, porli davanti a domande alle quali loro stessi devono rispondere. Ho scelto di essere ad Amici perché mi sembrava che ci fosse bisogno di “combattere in prima linea”. Sentivo tante critiche da parte degli addetti ai lavori rispetto ai talent, ai giovani che ne uscivano, alla musica, considerata scadente. Siccome parliamo di format seguiti da milioni di persone, soprattutto giovani, mi interessava capire quanto ci fosse di vero in quei giudizi e vedere se potevo dare una mano, tirarmi su le maniche e cercare di fare qualcosa di bello».
Concorda sul fatto che per molti di loro la carriera finisce appena lasciata la Tv?
«È vero. Chi esce da un talent dovrebbe darsi da fare per consolidare il rapporto con il pubblico e andare avanti anche quando le cose non funzionano al meglio. Il mio primo album vendette 300 mila copie, i concerti nei club erano tutti esauriti. Il secondo, però, si fermò a meno di 100 mila. Mi ritrovai negli stessi locali ma, questa volta, erano mezzi vuoti. Ho fatto concerti davanti a cinquanta persone e ho dovuto stringere i denti per non mettermi a piangere sul palco. Ma proprio in quei momenti ho imparato a rimanere in piedi. A resistere».
Come dice in un’altra canzone, Hold On For A Minute.
«Yes, precisely. Esattamente così. Purtroppo le cose belle passano. Gioiamo del fatto che succede lo stesso con quelle brutte».
Sua figlia ha ascoltato il suo nuovo disco?
«Non molto. A casa non suono, non metto la mia musica. Mi sembrerebbe di essere invadente».
E il piccolo?
«Non ha ancora tre anni ma ha già le sue canzoni preferite. Come Real Gone di Sheryl Crow, la colonna sonora del film di animazione Cars, e Lean On dei Major Lazer».
Ha paura di influenzarli?
«Non ho paura, ho la certezza: sono la madre. Però mi sforzo di farlo il meno possibile. Non vieto nulla. Cerco solo di dar loro spazio. Spazio in più da riempire come vogliono. È una “protezione” nei loro confronti visto che non hanno un posto solo per loro. Una forma di rispetto nei confronti dei miei “coinquilini”».
A proposito, è vero che si è fatta costruire una casa senza angoli?
«Sì. Ma non immagini la casa di Barbapapà. Semplicemente non ci sono spigoli, e i muri non sono di un solo colore, ma sempre di un mix di almeno due tinte. L’effetto è molto rilassante».
Sua madre faceva altrettanta attenzione a lasciarle i suoi spazi quando era piccola?
«Lei era il contrario. Anzi, era casuale, nel senso che non si poneva il problema. Ho notato che i genitori della mia generazione sono molto più attenti. Forse si tratta di una reazione di massa a quello che abbiamo vissuto».
Spesso ha definito la sua infanzia complicata. Mi spiega perché?
«È una domanda scomoda. La situazione era questa: mia madre stava insieme a mio padre, ma mio padre non viveva con noi (Elisa ha una sorella, Elena, più grande di lei di 11 anni, ndr) perché aveva anche un’altra famiglia. Le vacanze le faceva con noi, però il resto del tempo stava con loro».
Suo padre ha avuto figli con un’altra donna?
«Un fratello e una sorella molto più grandi di me».
È riuscita a mettere insieme i pezzi di questa «famiglia allargata»?
«Ci abbiamo provato dopo la morte di mio padre (il 21 gennaio 2015, ndr). C’è stato un momento in cui ci siamo fatti tutti una gran risata perché ci siamo sentiti come in un film di Tarantino, noi quattro in fila a scegliere la lapide per la tomba. Prima di allora ci eravamo visti solo quattro, cinque volte. Adesso, invece, ci sentiamo, andiamo a mangiare la pizza».
Ride a lungo. Reazione strana, dico.
«È una risposta all’imbarazzo, credo».
Mi spiace. Non volevo metterla in difficoltà.
«Il fatto è che non mi va di dare l’impressione di voler speculare sulla mia vita. È una questione di dignità».
Ho capito. La faccio tornare seria.
«Meglio dire concentrata. È quello che stavo cercando di essere».
Parliamo ancora dei suoi figli?
«Cerco di far vivere loro più esperienze possibili: viaggiare, vedere persone, fare la vita da bambini ma, a volte, stare fuori fino a tardi. La routine è importante, ma servono anche gli imprevisti. Lascio che si buttino, che si arrangino da soli. Se uno dei due mi dice: “Lui o lei mi ha picchiato”, rispondo: “Mi spiace, non ho visto”».
Tentazioni di allargare la famiglia?
«Ci penso spesso. E so che, nel caso, non possiamo aspettare troppo visto che ho 38 anni. Un po’ lo vorrei, un po’ mi spaventa. L’idea di ricominciare da capo: un’altra gravidanza, un altro anno di notti insonni... È tosta. Però mi piacerebbe».