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 2016  marzo 24 Giovedì calendario

DEFLAZIONE. MA SIAMO SICURI CHE C’È?

Chi è abbastanza vecchio da ricordare i dibattiti degli anni Settanta sull’inflazione «a due cifre» (in Italia eravamo arrivati a un’inflazione prossima al 20 per cento) non può che provare un certo sbalordimento di fronte ai discorsi di oggi. È un paio di anni che i nostri governanti invocano il ritorno dell’inflazione, come gli stregoni invocano la pioggia. Eppure, quando l’inflazione c’era, tutti, ma proprio tutti, la dipingevano come il male assoluto. Soprattutto i sindacati denunciavano l’inflazione come «la tassa più iniqua», perché colpiva più i poveri che i ricchi, così rovesciando il principio della progressività delle imposte.
Oggi, a quanto pare, il male è diventato la deflazione, ossia la diminuzione generalizzata dei prezzi, che nella maggior parte dei Paesi europei non si vedeva da molti decenni. La ragione per cui il male è diventato il bene, e il bene è diventato il male, è molto semplice: siamo tutti quanti, Stati, imprese e famiglie, pieni di debiti e, per pagarli, un po’ di inflazione ci farebbe comodo. Di qui la domanda che sentiamo ripetere: come mai, nonostante gli sforzi della Banca centrale europea (Bce), da tempo impegnata a immettere massicce dosi di liquidità nell’economia, i prezzi non accennano ad aumentare? Come mai, dopo mesi di «Quantitative easing» (Qe), l’obiettivo di un’inflazione al 2 per cento appare irraggiungibile?
Si potrebbe provare a rispondere a questa domanda con un bell’elenco di cause e concause: internet e la concorrenza tengono i prezzi bassi in molti settori, la gente è indebitata e preferisce risparmiare, le banche nazionali non prestano il denaro che ricevono dalla Bce. Ma si può anche rovesciare la domanda: siamo sicuri che non c’è inflazione?
Quando si dice che non c’è inflazione, o che siamo entrati in deflazione, in realtà si compie un piccolo arbitrio concettuale: si considerano solo certi beni e non altri. Più esattamente, si considerano solo i beni di consumo e si dimenticano i cosiddetti «asset», ossia i titoli (azioni, obbligazioni, titoli di Stato) e gli immobili (case, capannoni, ecc.). Basta dare un’occhiata all’andamento dei principali mercati borsistici per rendersi conto che, negli ultimi anni, i prezzi delle azioni sono saliti vertiginosamente. E persino quelli delle case, dopo il tracollo del 2008-2009, hanno cominciato a rialzare la testa in Paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania.
Quindi non è vero che il «bazooka» di Draghi non funziona, il problema è che colpisce i prezzi sbagliati. Il suo scopo sarebbe di far ripartire l’economia reale, rendendo il denaro più a buon mercato. Il risultato effettivo rischia di essere opposto: il denaro abbondante e a buon mercato potrebbe indurre Stati, famiglie e imprese, che negli anni della crisi hanno aumentato i loro debiti, a indebitarsi ancora di più. Ma soprattutto potrebbe alimentare una bolla speculativa sui mercati borsistici, dove i prezzi delle azioni già da diversi anni corrono più dei prezzi dei beni reali.