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 2016  marzo 23 Mercoledì calendario

LA TRAPPOLA DEL PROTOCOLLO


Barack Obama, il primo presidente afroamericano della storia. Il giapponese Akihito, ultimo imperatore sul pianeta. L’incontro tra i due uomini-simbolo del potere d’oggi e di ieri si tenne a Tokyo nel 2009 ed è ritenuto un caso di scuola sulle insidie del cerimoniale. Ovvero quell’insieme di regole, scritte e non, che governano posti a tavola, appellativi, scambi di doni e quant’altro è necessario all’ambasciatore, all’uomo di governo, ma anche al top manager di una grande azienda, per consolidare relazioni e condurre in porto trattative internazionali.

PRESIDENTI SCATENATI. Per Obama, ancora fresco di nomina, la situazione era delicata: il Tennō (“Imperatore Celeste”) andava omaggiato con un inchino dal rituale preciso. L’uomo più potente del mondo lo eseguì con diligenza, ma a sorpresa ecco lo strappo alla regola: non suo ma di Akihito, che al saluto tradizionale volle rispondere tendendo la mano in uno “scandaloso” gesto di familiarità con l’illustre ospite. Confuso, Obama gliela strinse restando a novanta gradi, col suo metro e ottantacinque spezzato in due di fronte al piccolo sovrano del Sol Levante. Il risultato grottesco, immortalato dai fotografi, fece il giro del mondo. Eppure, anni prima, nel ’92, George Bush senior fece ben di peggio, vomitando a tavola sul premier giapponese Miyazawa. Incidenti che, già imbarazzanti nella vita normale, risultano disastrosi al cospetto di capi di Stato e teste coronate. Anche perché non serve arrivare a simili estremi per trovarsi in difficoltà. Il protocollo infatti è pieno di insidie perché deve rispettare molte sensibilità diverse oltre all’amor proprio del “vip” di turno. «Tutti guardano dov’è sistemata la loro sedia rispetto agli altri», commenta ironico Massimo Sgrelli, per decenni capo del cerimoniale di Palazzo Chigi e oggi una delle maggiori autorità italiane in materia. «Ricordo negli anni Ottanta una sfuriata dell’allora capo del governo, Giovanni Spadolini: era stato messo a sedere dietro un cardinale. Dovetti ricordargli che per le norme dei Patti Lateranensi i porporati erano a tutti gli effetti principi della Chiesa, al pari di quelli di casate reali, e dunque da collocarsi subito dopo i capi di Stato».
Il “sistema” del cerimoniale di fatto nacque con il Congresso di Vienna del 1815: un’intesa tra i vincitori delle guerre napoleoniche ne fissò i paletti principali, aggiornata poi sempre a Vienna nel 1961 con la Convenzione sulle relazioni diplomatiche, tuttora vigente. «In sostanza», spiega Sgrelli, «si stabilì la pari dignità di tutti i capi di Stato e dei loro ambasciatori, per non causare attriti. Ancora oggi il cerimoniale non valuta il peso specifico di uno Stato per assegnare un posto più o meno prestigioso al suo rappresentante: conta l’anzianità di accreditamento (cioè l’anzianità “di servizio”). Ed è così anche per altre cariche di pari livello ma di tipo diverso dagli ambasciatori (per esempio i generali di divisione), favorendo però l’ospite straniero». Ovviamente anche lo zelo nell’assecondare quest’ultimo può scatenare polemiche: le tende beduine montate da Gheddafi a Roma e, più di recente, i nudi classici coperti nei Musei Capitolini per la visita del presidente iraniano Rohani ne sono un esempio eloquente.

NON TOCCATE SUA MAESTÀ. In linea generale però la preoccupazione è di non far meno di quanto ci si aspetta. E anche senza essere dei gaffeur reiterati come il principe Filippo d’Edimburgo, l’elenco dei possibili “sfondoni” è sterminato. Di fronte a un ospite musulmano, per esempio, mai accavallare le gambe: mostrare la suola delle scarpe è considerato offensivo. Ma poco appropriato è anche il contegno di una signora che si presenti in udienza dal papa senza la tradizionale veletta o, peggio ancora, vestita di bianco: un privilegio concesso solo alle regine cattoliche, e che la first lady messicana Angélica Rivera ha usurpato tra mille critiche durante la recente visita di papa Francesco nel suo Paese. Ancora a proposito di monarchie: i corpi dei sovrani non vanno mai nemmeno sfiorati. «Lo fece Silvio Berlusconi nel 2011 con Juan Carlos, toccandogli il gomito alla parata del 2 giugno dove il re di Spagna era ospite nel palco d’onore. Ma lo aveva fatto due anni prima anche Michelle Obama in Inghilterra con la regina Elisabetta». Altra regola aurea: l’ospite d’alto rango si attende, se non all’aeroporto, almeno al portone. «Anni fa l’allora vicepresidente cinese Xi Jinping e i suoi funzionari giunsero in visita ufficiale alla Regione Lombardia; formalissimi come tutti gli orientali, non trovando il governatore Formigoni ad accoglierli sull’uscio, fecero dietrofront e se ne tornarono in albergo». Superato l’uscio, c’è poi lo scoglio dei saluti. Anche la semplice stretta di mano non è mai la stessa: bisogna adeguarsi a quella vigorosa dell’ambasciatore russo, da effettuare guardandosi sempre negli occhi, e a quella debole e un po’ floscia del dignitario marocchino. Con un thailandese è invece di rigore il saluto wai, capo chino e mani giunte sul petto. E se vi sembra facile, sappiate che l’altezza dei palmi sul torace va proporzionata al rango dell’ospite: piazzati troppo in alto o troppo in basso, possono imbarazzarlo o addirittura umiliarlo.
Sempre in quest’ambito fanno capolino anche le note distanze culturali sulle differenze di genere: islamici ed ebrei osservanti non danno la mano a una donna in contesti pubblici e, se costretti dalle circostanze, non nascondono il loro imbarazzo. La parità tra i sessi non ha riscontri nemmeno nel galateo orientale, dove salutare cavallerescamente prima le signore è considerata una mancanza di rispetto: è sempre l’uomo più anziano l’ospite da omaggiare per primo. Anche lo scambio dei doni è un campo minato. In molti Paesi extraeuropei è scortesia assoluta porgerli con una mano sola, oppure scartarli al momento in cui li si riceve. E poi bisogna fare attenzione ai colori. «In Oriente il bianco indica lutto. Mai quindi offrire fiori candidi e, men che mai, recarsi a un funerale di Stato vestiti di nero!», ammonisce Sgrelli. «Nei pacchetti regalo anche il blu è da evitare, mentre il rosso, l’oro e il verde sono graditi».

IL VINO? È UN’OFFESA. Altri errori clamorosi: regalare un oggetto in cuoio a un ospite indiano, fiori gialli a un russo, piante in vaso a un finlandese. La tavola è un’altra via crucis, perché oltre ai noti precetti sulla cucina kosher per gli ospiti ebraici ed halal per gli arabi, c’è il problema dell’alcol: «L’ospite islamico non solo non beve, ma in genere non tollera neanche la vista di una bottiglia di vino. Il problema si pose nel ’99 con la visita in Francia del presidente iraniano Khatami: il suo omologo Chirac s’impuntò, facendone una questione di identità nazionale, e così il pranzo ufficiale fu derubricato dal programma della visita». Cariche religiose a parte, non meno importanti per il cerimoniale sono poi i titoli dell’interlocutore. «“Altezza Reale”, per esempio, è l’attributo di chi è in linea diretta per la successione al trono, gli altri sono “Altezze Serenissime”. Idem per i titoli nobiliari. La nostra Costituzione repubblicana non li riconosce, ma altrove sono qualifiche pubbliche che l’ufficialità ci impone di sciorinare fino all’ultimo predicato: per esempio quelli spagnoli o britannici. Oppure quelli del sultanato del Brunei, lunghi a volte fino a 20 parole! In mezzo a tanta diversità c’è però un imperativo a cui ogni cerimoniale obbedisce senza eccezioni: «È la “regola della destra” per cui, tra due cariche, o anche due bandiere, appaiate, alla più importante si assegna il posto di destra secondo il punto di vista dell’osservatore collocato posteriormente. Questo perché siamo tutti in prevalenza destrimani, dunque il destro è considerato il lato più forte e “d’onore”». Per gli addetti ai lavori, un’uniformità che rinfranca. E un punto fermo, l’unico, in un mestiere da equilibristi.
Adriano Monti Buzzetti Colella