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 2016  marzo 23 Mercoledì calendario

LO SPORT FA MALE


Scolpiscono i muscoli per spingerli al massimo, chiedono prestazioni da record a cuore e polmoni, imparano a sopportare ferite, contusioni e formidabili sforzi, obbligando poi il fisico a recuperare in fretta, per tornare in gara prima possibile. Sono gli atleti professionisti, che usano il corpo per lavoro, fino al limite delle sue capacità. L’obiettivo è la medaglia. Che però persino sul gradino più alto del podio può avere un suo rovescio: a quei livelli, infatti, scricchiolerebbe anche Superman. E infatti scricchiola.
Al punto che, per alcune discipline, l’Inail ha stilato un vero e proprio elenco di “malattie professionali e incidenti sul lavoro”, e ha esteso, già dal 2000, la tutela assicurativa agli sportivi professionisti che le praticano.

CHE MALE! Muscoli, ossa e tendini sono più vulnerabili di altre parti del corpo. Fra distorsioni, strappi, contusioni e fratture, ci sono sport che davvero lasciano il segno – anche fra i non professionisti – specie se non si rispettano le regole del gioco o non si è abbastanza allenati. Uno studio dell’Università della Navarra di Pamplona (Spagna), pubblicato su International Journal of Epidemiology, ha stilato la classifica delle discipline in cui è più probabile farsi male. Nella graduatoria, svetta in prima posizione il calcio, seguito dallo sci, dall’atletica, dalla corsa e da altri sport di squadra come il basket o la pallamano. L’analisi non considerava però la gravità degli incidenti, che invece, osserva Gianfranco Beltrami, consigliere della Federazione medico sportiva italiana, «è massima nel pugilato, nel football americano, nel rugby e, ovviamente, nell’automobilismo e nel motociclismo». Ma anche in assenza di collisioni e capitomboli, piccole lesioni di muscoli, tendini e articolazioni possono comparire un po’ in tutti gli atleti, in punti diversi, a seconda dei movimenti che si eseguono più spesso. Per esempio, è tipica dei calciatori la pubalgia, che ha tenuto fermo Mario Balotelli per alcuni mesi l’anno scorso. «È un’infiammazione dei muscoli della coscia e degli addominali che muovono la gamba quando si calcia il pallone», spiega Paolo Zeppilli, direttore del Centro di medicina dello sport del Policlinico Gemelli di Roma.
La citatissima (dai quotidiani sportivi) pubalgia colpisce anche i ballerini, gli schermidori, i giocatori di hockey e guarisce con il riposo e i farmaci antinfiammatori, anche se a volte è necessario ricorrere a un intervento chirurgico per riparare i tessuti. Analogamente, il gomito del tennista o del golfista tormenta chi pratica quelle discipline, la tendinite della spalla costringe allo stop nuotatori, vogatori e chi lancia pesi, dischi e giavellotti, mentre il mal di schiena (e a volte l’ernia del disco) fa soffrire ciclisti e motociclisti. «La corporatura di ciascuno influenza la comparsa di questi disturbi, ma il rischio si riduce molto se il gesto atletico è impostato nel modo corretto», dice Zeppilli. «E non dimentichiamoci un buon riscaldamento e il defaticamento dopo lo sforzo», aggiunge Beltrami. «Anche la stanchezza può essere pericolosa, ed è altrettanto importante che ci sia sempre abbastanza tempo per recuperare fra un allenamento e l’altro».

PALLE E LENZE. Certi incidenti, poi, sono legati a particolarità dei singoli sport e agli attrezzi utilizzati. Com’è da aspettarsi, gli occhi corrono dei rischi nelle discipline che usano palle, palline e dischi, ma anche nei combattimenti e nella pesca con la lenza (!). Ogni anno in Italia su 40.000 lesioni alla retina, al bulbo o ad altre zone dell’occhio, circa 10.000 sono legate alla pratica sportiva. Nove volte su 10 sarebbero prevenibili con maschere oppure occhiali con lenti in policarbonato, resistenti agli urti. Eppure – fateci caso – gli atleti che proteggono gli occhi sono una rarità. E pochissimi – appena il 13% – sono anche gli uomini che, in gara o in allenamento, indossano le opportune protezioni per le “parti basse”, a dispetto del fatto che quasi 1 su 5 incappi prima o poi in un doloroso trauma testicolare. Lo ha fatto notare uno studio americano pubblicato sulla rivista Urology, secondo cui per i “gioielli di famiglia” le attività più pericolose sono il wrestling, il baseball e il football americano.

LA MALATTIA DEI PUGILI. Negli sport di squadra, gli infortuni più seri derivano invece quasi sempre da scontri con altri giocatori: la conseguenza più temuta è il trauma cranico, che può però capitare un po’ in tutte le discipline, individuali e non, in seguito a cadute o collisioni. Diversi studi hanno legato questi incidenti a problemi neurologici di vario tipo, dai disturbi del sonno a difficoltà della memoria, tanto più seri e probabili quanto più i traumi sono stati ripetuti e importanti (con perdita di coscienza).
Alcuni sport preoccupano tuttavia più di altri. Fra questi, il pugilato, dove il trauma cranico con perdita di coscienza – che può seguire al “ko” – non è un evento raro. «Ricevere un diretto al volto è come essere colpiti da un martello di legno del peso di 6 chili circa che viaggia alla velocità di 32 km/h», chiarisce la guida dell’Inail sugli infortuni nello sport. Per questo, fra le malattie professionali dei pugili, compare anche l’encefalopatia cronica post-traumatica (o “demenza pugilistica”), che può manifestarsi anche molti anni dopo aver appeso i guantoni al chiodo, e che ricorda nei sintomi il morbo di Parkinson e quello di Alzheimer. Il problema non è limitato al ring: la malattia può colpire, per esempio, i giocatori di football americano, a causa dei traumi alla testa. Il primo ad avanzare l’ipotesi fu il medico Bennet Omalu, la cui vicenda è raccontata nel film Zona d’ombra, ora nei cinema. E c’è il sospetto che anche i colpi di testa nel calcio possano alla lunga avere conseguenze sul cervello, specie nei giocatori che praticano di più il gioco aereo, anche se i rischi sarebbero molto bassi. Per proteggere i più giovani, la Federcalcio statunitense ha di recente comunque proibito i colpi di testa ai calciatori con meno di 10 anni, e li ha fortemente limitati fino a 13 anni. «Non c’è una dimostrazione scientifica che questo modo di giocare danneggi il cervello», dice Beltrami. «La decisione però mi trova d’accordo, perché in certe situazioni, per esempio se il pallone è bagnato e pesante, un colpo di testa potrebbe effettivamente provocare un piccolo trauma, soprattutto nei bambini, che hanno ossa del cranio più sottili».

CUORI DA RECORD. Il cuore non sembra patire il superlavoro. Lo ha dimostrato uno studio del Coni, che ha preso in esame 114 campioni olimpionici di discipline molto impegnative, come sci di fondo, triathlon, nuoto sulle lunghe distanze. L’analisi degli elettrocardiogrammi e degli ecocardiogrammi degli atleti mostra che nel tempo il loro cuore si modifica e diventa più efficiente, e il rischio di infarti o altre malattie cardiache non aumenta. Questo però è vero solo se il cuore è sano, perché alcune anomalie possono mettere in pericolo la vita, anche fra i dilettanti: nello sport, la morte improvvisa per arresto cardiaco, in persone che mai avevano avuto disturbi, in Italia arriva un centinaio di volte all’anno. Per ridurre i rischi anche chi fa attività non agonistica deve sottoporsi all’elettrocardiogramma. Inoltre sarebbe auspicabile che gli impianti sportivi si dotassero di defibrillatori, preziosi per soccorrere in tempo le vittime di un arresto cardiaco. Ma l’entrata in vigore della legge che li rende obbligatori è stata da poco prorogata.
Margherita Fronte