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 2016  marzo 23 Mercoledì calendario

LAUREATI IN FELICIT


Love is the answer, l’amore è la risposta. Sì, sembra una scritta sulla carta dei cioccolatini, ma le cose stanno proprio così: il segreto della felicità (e anche di una vita lunga, sana e coronata dal successo economico e professionale) sta nel mantenere rapporti affettivi decenti. Con il partner, ma anche con i parenti, con gli amici e perfino con i colleghi. A poco o nulla, invece, valgono da soli soldi, sesso o fama, poiché alle fortune come alle sventure ci si abitua velocemente, senza che questo cambi nel profondo la nostra percezione della vita come evento miracoloso o... inferno di disperazione.
Si rassegnassero i cinici: a sostenere questa idea sono i risultati di una ricerca scientifica. E non una qualsiasi, ma lo “Studio Grant” dell’Università di Harvard, “La madre di tutti gli studi sociali e psicologici”, una ricerca longitudinale iniziata nel 1938 e tuttora in corso. La più lunga, la più costosa e probabilmente la più esauriente della storia sulle radici del benessere fisico e psicologico umano.

LA MEGLIO GIOVENTÙ. «La gioia è connessione e si può sperimentare e apprendere solo attraverso le relazioni umane. Questo è il dato più importante emerso dallo studio», conferma lo psichiatra George E. Vaillant, professore emerito di Harvard, che ha diretto (dal 1978 al 2004) e poi continuato a seguire l’indagine fino a oggi. Ma per capire come sia giunto a questa conclusione bisogna fare un passo indietro nel tempo.
Nella primavera del 1938, il campione era formato da 268 matricole della prestigiosa Università: tra loro futuri imprenditori, scrittori, politici e perfino un presidente, John Kennedy (ma i dati che lo riguardano sono secretati fino al 2040). Accanto a loro fu studiato anche un secondo gruppo: 456 ragazzi, ugualmente sani e intelligenti, provenienti però da famiglie svantaggiate di Boston. Gli uni e gli altri, il fior fiore della gioventù americana. La stessa che, pochi anni dopo, avrebbe combattuto la Seconda guerra mondiale.
Ma la cosa più straordinaria dello studio riguarda il campo d’indagine: in pratica, tutto, ma proprio tutto, quello che interessava questi ragazzi e la loro vita, famiglia compresa. Quindi tratti psicologici, fisici, antropologici, comportamentali, ambientali, che andavano dal quoziente intellettivo alla propensione all’alcol, ai rapporti affettivi e lavorativi, alla pressione del sangue, “alla lunghezza dello scroto in tensione”. Il tutto testato al meno una volta all’anno, per 78 anni, aggiornando nel tempo gli strumenti d’indagine. I dati raccolti sono milioni. I soggetti sopravvissuti allo studio invece sono pochissimi, avendo superato i 90 anni, ma continuano a rispondere alle domande degli sperimentatori e a sottoporsi alle analisi mediche. Lo stesso fanno i loro figli e nipoti, anch’essi coinvolti nella ricerca.

VITA DI SUCCESSO. Obbiettivo finale di tutto questo, quello fissato dal primo finanziatore dello studio (il signor Grant, per l’appunto, proprietario di una catena di supermercati) insieme al fondatore e direttore scientifico, Arlie Block, medico dell’Università. I due erano intenzionati a scoprire, spiegava Block, “quali fattori contribuiscano alla ‘fioritura’ di un essere umano. (...) Quali siano le forze che producono quella combinazione di sentimenti e di fattori fisiologici che comunemente interpretiamo come vita di successo”. E dire “vita di successo”, all’epoca, era la stessa cosa che dire “vita felice”. Quindi: nascere in una famiglia benestante con la giusta dote di intelligenza e salute, avere accesso allo studio e poi a un lavoro ben pagato, sposarsi, avere figli e invecchiare con una buona pensione. In questo quadro, anche la “maggiore larghezza delle spalle rispetto a quella dei fianchi” era considerato un indicatore di futuro benessere.
Già a pochi anni dall’inizio dello studio, però, osservando sempre più da vicino le vicende dei partecipanti, diventava evidente che la strada della felicità non sempre coincide con quella del successo. E che, in ogni caso, il percorso è molto più complicato del previsto. A metà degli Anni ’60, infatti, circa un terzo del campione, ormai intorno alla cinquantina, aveva già dato, almeno in un’occasione, segni di squilibrio mentale.

DIFESE CHE FUNZIONANO. Fu allora, nel 1966, che Vaillant entrò a far parte del team dello studio. E questa fu la prima domanda alla quale cercò di dare una risposta: perché qualcuno regge e altri invece soccombono sotto il peso delle difficoltà che incontrano da adulti o che hanno vissuto durante l’infanzia?
«Più lo studio procedeva, più emergeva chiaramente che a fare la differenza sono i meccanismi di difesa, che usiamo per adattarci alle frustrazioni, e che nell’insieme formano quella capacità che oggi chiamiamo “resilienza”», dice Vaillant. «Possiamo suddividerli in due gruppi: quelli basati sull’empatia, che ci permettono cioè di entrare in una relazione positiva con gli altri, e quelli non empatici, che ignorano le esigenze altrui e perciò ci isolano. La differenza tra i due, ci ha insegnato lo studio, è che i primi funzionano, i secondi no».
Il primo meccanismo empatico è l’umorismo. Poi, la sublimazione: «Quello che fece Beethoven, depresso e ormai sordo, componendo l’Inno alla gioia anziché uccidersi», chiarisce Vaillant. Infine, la soppressione, o “stoicismo”: affrontare responsabilmente i propri problemi mantenendo gentilezza e rispetto verso chi ci circonda.
I meccanismi difensivi che non funzionano sono quattro: l’aggressività («Scagliare oggetti attraverso una stanza è liberatorio, ma spaventa le persone intorno a noi»). La proiezione: cioè dare sempre la colpa a qualcun altro dei propri problemi. La fantasia: «Cioè costruirsi nell’immaginazione persone finte e trattare con loro piuttosto che con le persone vere». Infine, l’abitudine a lamentarsi unita al rifiuto di accettare aiuto quando ci viene offerto, «atteggiamento tipico degli ipocondriaci e dei border line, che rende gli altri insofferenti nei nostri confronti». Ma perché è così importante avere cura delle persone che ci circondano? Siamo sicuri che non si possa essere felici lo stesso, anche da soli? Sembra di no. Nel 2009, utilizzando i dati della ricerca, Vaillant mise a confronto gli obbiettivi raggiunti dai partecipanti, ormai anziani, nel corso della loro vita. Ne risultò una sorta di “Decathlon della felicità” che esaminava le varie sfaccettature del successo. Due delle “categorie” considerate avevano a che fare con i risultati economici, quattro con la salute mentale e fisica, quattro con il supporto sociale e le relazioni. Di ognuna di queste aree venne quindi considerata la correlazione con i tre “doni” che la fortuna distribuisce alla nascita: costituzione fisica, vantaggio economico e sociale, infanzia piena di affetto. «Scoprimmo che non c’erano relazioni significative tra lo status socioeconomico della famiglia di provenienza e il successo futuro, in nessuna delle aree considerate. Anche l’alcolismo e la depressione familiari alla lunga non influivano sulla realizzazione di una persona, né incidevano sulla sua longevità. Altri parametri considerati vincenti all’inizio dell’esperimento, come un carattere estroverso, o un alto quoziente intellettivo, si rivelavano ininfluenti.

DONO PREZIOSO. Quello che invece era in grado di predire il successo in tutte e dieci le categorie del Decathlon era il terzo dono: l’affetto ricevuto nei primi anni di vita, che veniva sviluppato in relazioni più calde e profonde durante la vita adulta. «Volendo restare soltanto sui “risultati economici” dell’amore, chi aveva goduto di un maggiore affetto materno guadagnava 87.000 dollari in più rispetto a chi era stato più trascurato. Chi aveva avuto relazioni strette con i fratelli 51.000 $ in più», dice Vaillant.
Quindi, se non si ha avuto la fortuna di una madre amorevole, si è condannati all’infelicità tutta la vita? «No. Imparare ad amare non è semplice ma si può fare», dice Vaillant. «Occorre però prima di tutto aprirci alle emozioni positive come il perdono, la gratitudine, la fiducia. Molti ne hanno paura, perché si tratta di emozioni orientate al futuro, che è imprevedibile». Anche questo timore, però, può essere superato in presenza di una spinta amorosa. «Solo attraverso le emozioni impariamo le emozioni e quindi a perfezionare quei “meccanismi di difesa empatici” che ci permettono di rafforzare tutte le relazioni. L’amore insegna l’amore», conclude Vaillant. E infatti, dice una delle ultime ricerche basate sui dati dello studio, più passano gli anni più diventiamo bravi a gestirlo e più diventiamo felici. Insomma, se le cose vi sono andate male fin qui, fidatevi: non è mai troppo tardi. Siete ancora in tempo per invecchiare contenti.
Isabella Cioni