Gianluca Ranzini, Focus 4/2016, 23 marzo 2016
RAZZI!
Tre, due, uno... contatto. No, non è il countdown di un lancio, ma di un atterraggio. Siamo abituati ai razzi come a oggetti usa-e-getta: parte un colosso da centinaia di tonnellate tra un tripudio di fiamme e boati, mette in orbita un satellite o porta qualche astronauta sulla Stazione spaziale e il resto... si disintegra nell’atmosfera. Uno spreco tollerabile ai tempi della corsa alla Luna, quando l’importante era arrivare primi senza badare a spese. Ma oggi è diverso. Quello dei razzi, o meglio dei “lanciatori” (come li chiamano i tecnici), è ormai un mercato come altri, dove accanto alle tradizionali agenzie spaziali nazionali o internazionali (come la Nasa americana e l’Esa europea) si sono inserite molte realtà private. Per esempio SpaceX, che ha realizzato (con la Nasa) il primo lanciatore privato in attività, Falcon 9, il cui sviluppo è costato un miliardo di dollari.
A MARCIA INDIETRO. Il Falcon aveva però un punto debole: ben 9 motori a propellente liquido che andavano persi, pure loro con tutto il resto, disintegrandosi durante il “solito” rientro in atmosfera. Da qui l’idea, rivoluzionaria: perché non recuperare o riciclare quel materiale?
Da questo punto di vista, il 21 dicembre 2015 è una data storica per l’esplorazione spaziale: quel giorno il primo stadio di un Falcon 9 ha messo... la retromarcia e, 10 minuti dopo il lancio, grazie a un preciso sistema di guida e a motori che hanno rallentato la discesa, è atterrato morbidamente a 10 km da Cape Canaveral. «Se si considera che SpaceX sta progettando una versione più potente, con ben 27 motori», spiega Marcello Onofri, direttore del Centro ricerca aerospaziale della Sapienza Università di Roma, «sarà ancora più facile intuire perché scommettano sul “riutilizzabile”».
I due tentativi successivi, a dire il vero, sono andati meno bene: in gennaio il razzo si è posato su una piattaforma ancorata in mare, ma una delle zampe di sostegno non si è aperta in modo ottimale. Il Falcon si è accasciato, incendiandosi. E anche il 4 marzo un tentativo analogo, sempre su una piattaforma al largo, non ha avuto successo. Si tratta di mettere a punto un sistema molto complesso di sistemi e di manovre, ma di certo a breve diventerà affidabile.
La SpaceX ha già ottenuto una serie di record: ha sviluppato il primo razzo privato a propellente liquido che abbia raggiunto l’orbita terrestre bassa (Falcon 1, alimentato con ossigeno liquido e un tipo speciale di cherosene), ha realizzato la prima navicella privata che si è agganciata alla Stazione spaziale internazionale per una missione di rifornimento (la Dragon, nel 2012) e ora è stata la prima che ha riportato a terra lo stadio di un razzo.
UNA SERRA SU MARTE. Alle spalle di questa azienda c’è un visionario come Elon Musk, magnate americano che è stato tra i fondatori di PayPal, il celebre sistema di pagamento online, e di Tesla Motors, che produce autovetture elettriche di lusso. Appassionato di spazio, nel 2002 si mise in testa di riaccendere l’interesse su Marte, inviando sul pianeta una serra con semi e nutrienti per portarci la vita. Si accorse, così, che il problema principale non era far atterrare la serra, ma farla partire dalla Terra. E che “comprare” un razzo costruito da altri era costoso anche per lui. Così decise di farselo in casa, spendendo un terzo del denaro (e del tempo) che sarebbe stato necessario per un “dinosauro” come la Nasa.
Oggi, in questo settore, Musk ha un obiettivo: ridurre in modo drastico i costi dei lanci, che per un Falcon 9 si attestano a poco più di 60 milioni di dollari. Significa che per ogni kg da inviare in orbita si spendono circa 5.000 euro. Che è, sì, una cifra inferiore rispetto agli altri lanciatori americani (e perfino al razzo low-cost cinese Lunga Marcia), ma che Musk ritiene si possa ridurre ancora molto (a meno della metà, se non a un decimo) con un razzo in buona parte riusabile. Solo così lo spazio sarà davvero accessibile.
Per capire la portata di questa innovazione, bisogna però capire come funziona un razzo. Nonostante le dimensioni, si tratta di una macchina semplice, formata da tre parti principali: la struttura (guscio, impianti ecc.), il carburante e il payload, cioè il carico “pagante” che è in grado di trasportare: satelliti, astronauti, esperimenti scientifici ecc.
AZIONE E REAZIONE. Sorprenderà molti sapere che quasi tutto il peso di un razzo è del carburante necessario per vincere la gravità terrestre. In un Ariane 5, per dire, ben il 97,5% della massa di partenza è rappresentato da propellente e anche per gli altri lanciatori i numeri sono simili: per ogni kg da portare in orbita, servono 50 kg di combustibile. È come se, per portare due passeggeri, un’auto dovesse trascinarsi dietro 7 o 8 tonnellate di benzina! L’altra cosa sorprendente è che, mentre nel campo dei computer in 50 anni siamo passati da bestioni grandi come appartamenti a gioielli che stanno in una mano, per i razzi l’evoluzione non è stata così evidente. Quelli moderni non sono così diversi dai primi, il principio fisico su cui si basano è sempre il classico di azione e reazione: si deve “sparare” un gas ad alta velocità attraverso un foro (l’ugello) in modo da procurarsi una spinta nella direzione opposta.
Nonostante la fisica “semplice”, la ricetta del razzo perfetto non esiste, ma varia a seconda della missione da svolgere. «Per le orbite basse, tra 160 e 2.000 km, quelle dove si collocano i satelliti per l’osservazione della Terra o la Stazione spaziale, non serve una spinta straordinaria, basta un lanciatore piccolo», spiega Onofri. «Un esempio è Vega, realizzato col contributo dell’Agenzia spaziale italiana, in grado di “piazzare” un satellite con un errore di 10 metri». Una precisione ottenuta grazie all’ultimo dei quattro stadi, che entra in funzione a circa 200 km di quota e controlla l’assetto del razzo al momento dell’inserzione in orbita.
«Se invece bisogna collocare un satellite di diverse tonnellate in orbita geostazionaria, a 36.000 km dalla Terra, è necessario avere un lanciatore di grande potenza, come quelli impiegati per andare sulla Luna». Il Saturno V che “spingeva” gli Apollo, infatti, era un colosso alto più di 90 metri, come un palazzo di 35 piani. Se però oggi lo avessimo sulla rampa non potremmo lanciarlo, perché non rispetterebbe le norme di sicurezza: negli Anni ’60 si prendevano rischi che oggi non si accetterebbero...
VERSO LA LUNA E MARTE. Gps, meteorologia, osservazioni: se lanciare satelliti oggi è fondamentale per la nostra vita quotidiana, il sogno vero resta quello di riportare l’uomo al di là dell’orbita terrestre. Oltre ai progetti di SpaceX (come una versione della capsula Dragon che possa ospitare un equipaggio umano, spinta da un Falcon potenziato) c’è lo Space Launch System (Sls) della Nasa. Sarà il lanciatore più potente mai costruito. Un progetto ambizioso, che procede a passi successivi: la prima versione, Sls Block 1, dovrebbe volare entro il 2018, senza equipaggio, ma con la capacità di collocare in orbita lunare una serie di satelliti. Una seconda versione (1B) porterà invece un equipaggio umano in orbita attorno al nostro satellite nel 2023. Poi sarà la volta della visita a un asteroide, catturato e portato sempre in orbita lunare. Infine, tra una ventina d’anni, la Nasa ipotizza una missione umana verso Marte, con astronavi assemblate in orbita e spinte da propulsori nucleari. Meglio della fantascienza.
Gianluca Ranzini