Francesco Merlo, DLui, la Repubblica 19/3/2016, 19 marzo 2016
L’ITALIA DEI 1000 PREMI
I premi fanno male all’Italia perché ne decorano di vanità la decadenza, dissimulano la mediocrità del nostro cinema, dell’arte e della letteratura. L’Oscar, quando ce lo danno, lo riceviamo come fosse un piano Marshall, il rilancio dell’economia, la rivoluzione culturale, l’arrivano i nostri. Fateci caso: l’unico che, sin dalla cerimonia di Los Angeles, è rimasto sobrio è stato Ennio Morricone. Contento, certo, ma con la forza calma del grande artista, che non è modestia ma consapevolezza che tra quella statua e la sua musica non c’è in realtà alcun rapporto. E infatti alla fine è lui, Morricone, che ha dato al premio più di quanto abbia ricevuto. Al contrario l’Italia, frastornandolo un po’, ha trasformato anche questo Oscar nel circo delle meraviglie, in un festeggiamento senza fine, nel risarcimento dell’identità, nel nuovo Rinascimento. Quando invece ci negano un premio, sia esso l’Oscar o la Palma d’oro di Cannes, mettiamo subito in dubbio le votazioni, ci ricordiamo dei grandi poteri economici, e poi del baraccone dello show business e della casta del cinema... Abbiamo insomma un rapporto da sottosviluppati con i premi internazionali. E intanto, per non morire, ammorbiamo noi stessi di premi nazionali. Ogni anno in Italia vengono pomposamente assegnati migliaia di david, papiri d’oro, viareggio, bancarella, gatti, gondole, Cavour e Feltrinelli, pistacchi e cannoli d’argento. E i premi hanno nomi che si adattano alle cose che indicano, perché esiste un vero linguaggio della premialità, a cominciare dal liquore dolciastro da vecchie zie dello Strega, e poi il Campiello, toponimo veneziano di piazzetta e di cortile, come ottusa mondanità appunto da cortile.
Anche le lauree ad honorem non si negano a nessuno: campioni dello sport, cantanti, ballerine, presentatori televisivi. E siamo anche il paese dei titoli a vita, dei doni, dei condoni e dei perdoni, delle presidenze come parcheggio e consolazione, e persino delle leggi ad personam. La nostra premiomania, eredità del fascismo, è una polivalente disciplina di conforto, tra le più autorevoli pur non avendo (ancora) il rango accademico (ed è bene meditare sui 160 premi che furono assegnati al “poeta” Licio Gelli).
Una vicenda significativa è quella dell’Orso d’oro che, dal Festival del cinema di Berlino, è stato assegnato a Gianfranco Rosi per il suo bel documentario Fuocammare. All’inizio è stato accolto come il riconoscimento a un esempio di cinema-verità su Lampedusa, la bellissima isola dei disperati, dove domina il colore giallo dell’eterna estate, della steppa bruciata e della sabbia arida, giallo che solo al tramonto si tinge d’arancione. Lampedusa è l’isola degli sbarchi e dell’umiliazione degli uomini ardimentosi che sopravvivono al mare e stanno lì, con le palpebre semichiuse perché non riescono più a vedere lontano, messi in riga da poveri poliziotti a loro volta costretti con i guanti di gomma e la mascherina a proteggersi dal male fisico, a non entrare in contatto con la sofferenza.
Ebbene quel film è diventato un manifesto politico. Se ne è impossessata la demagogia fatta di slogan, promesse, speranze. E lo stesso Rosi ha proposto non di imporre un piano regolatore, un ospedale, un porto o di mandare una squadra di ingegneri idraulici, di finanziare nuovi centri di accoglienza, case, scuole di agricoltura, pescherecci. No, Rosi ha proposto di assegnare a Lampedusa un premio, anzi il premio dei premi: il Nobel. E subito Dario Fo ha approvato: date il Nobel a Lampedusa! E giù appelli per il Nobel, evento miracolo, cabala da sciamani.
Anche Berlusconi, da presidente del Consiglio, sbarcò sull’isola e «Sono lampedusano», disse parodiando Kennedy a Berlino. Poi gratificò l’isola acquistando per 2 milioni di euro una villa che, ovvio, non andò mai ad abitare: «l’ho comprata stamattina su Internet, si chiama “Le due palme”». E mentre il vento di Lampedusa, che in qualsiasi stagione fa perdere la voce, agitava le piante basse, Berlusconi promise un casinò, campi da golf, un evento artistico da organizzare ogni anno e, soprattutto, il premio Nobel.
Sempre la povera Lampedusa, che conosco bene e amo, reagisce stordita alla chimera del Nobel come soluzione al suo sottosviluppo, un bel premio che viene da fuori e che la faccia diventare protagonista, porto franco, una specie di Las Vegas del Mediterraneo, il sogno come variante del sonno. Purtroppo aveva ragione l’abusato Longanesi: «In Italia i premi non basta rifiutarli, bisogna non meritarli». Ci vorrebbe, credo, un “No”’ collettivo, con la maiuscola, una sospensione decennale di tutti i premi, come una moratoria nucleare.