Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 19 Sabato calendario

MR. DISNEY


A guardarlo John Lasseter, con le sue camicie hawaiane e l’aria da buontempone, sembra un assiduo frequentatore di convention di fumetti, più che il businessman che sta dietro a un colosso come la Walt Disney Studios – Pixar. Corpulento e ridanciano, look da nerd spiazzante per chi ancora associa il potere all’abito formale, basta però ascoltarlo cinque minuti per avere la conferma di quanto già sospettavamo: giacca e cravatta non sono nulla rispetto alla passione. E quella che arde nel cuore del regista, animatore, produttore e, dal 2005, direttore creativo della Pixar e Walt Disney Pictures, l’impero dell’animazione per antonomasia, è una fiamma speciale. Degna di quel «bambino interiore» cui amava fare riferimento Walt Disney, suo modello e ispirazione: «Tutto quello che ho fatto», ci racconta, «l’ho fatto pensando a lui, a quel suo modo di raccontare favole che piacessero a tutti, con intelligenza e cuore». Un sogno che insegne fin dai suoi esordi, e che oggi, a detta di molti, lo rende l’unico vero erede del padre dei cartoni animati.
Cinquantanove anni, nato ad Hollywood, è la mente creativa dietro alla rivoluzione digitale dei cartoon. Tutti i più grandi successi degli ultimi vent’anni portano la sua firma come direttore esecutivo, spesso anche autore e regista: da Toy Story (uscito nel 1995 e diventato un franchising, il quarto capitolo in arrivo nel 2018) a La ricerca di Nemo (2003), da Frozen (2013) fino all’Oscar di quest’anno Inside Out e all’ultimo arrivato al cinema Zootropolis. Proprio da questo cominciamo la nostra chiacchierata, accompagnandolo nel suo quotidiano tragitto di un’ora in macchina da casa sua, a Sonoma, Napa Valley, fino agli studi della Pixar, dove lavora tre giorni, mentre il resto della settimana vola a Los Angeles dove si trovano da sempre gli studi della Disney. «Sono cresciuto con Robin Hood, ho sempre avuto la passione per i cartoni animati in cui gli animali vestono abiti umani e ho capito che era da un bel po’ che la Disney non faceva un film del genere», racconta a proposito di Zootropolis, ambientato in un mondo dove prede e predatori convivono in armonia tra di loro. Il film segue le avventure di Judy Hopps, una poliziotta coniglio che si trasferisce nella città di Zootopia e che, tra lo scherno dei colleghi molto più grandi di lei (letteralmente, trattandosi di elefanti, leoni, rinoceronti e bufali), si ritrova a dover risolvere un caso di “sparizione di mammifero” grazie all’aiuto di una volpe, Nick Wilde. Un coniglio e una volpe, nemici giurati per natura. «Abbiamo studiato molto le abitudini degli animali, cercando di riprodurle nel film. Una nostra squadra è anche andata a fare un safari in Kenya, accompagnata da un esperto di zoologia».
Il risultato, come in tutti i film prodotti da Lasseter, è una storia che fa riflettere sull’uguaglianza e la diversità, in questo caso partendo dal rapporto preda-cacciatore, ma anche sugli stereotipi del nostro mondo. «Abbiamo preso spunto dalle nostre città e dai problemi che tutti affrontano quotidianamente rivendendoli in chiave animale: chi non ha mai avuto l’impressione di essere circondato da bradipi in un ufficio burocratico?», scherza Lasseter. Dopo pochi giorni di programmazione, il film è schizzato in pole position nelle classifiche, mentre in Italia solo nel primo weekend di programmazione ha fruttato 3 milioni di incassi: il miglior esordio di sempre nelle nostre sale per un film animato. Un’altra conferma che l’uomo in camicia hawaiana è l’asset vincente nelle scuderie Disney. «Sono un tipo molto normale, mi piacciono le cose pop, dalla musica al cinema, e fin dall’inizio mi sono fidato del mio intuito». Alla fine degli anni ’70, sentiva che «all’animazione mancava qualcosa, non c’erano più storie nuove, mancava un appiglio con la realtà, un legame con le vite del pubblico». Ma come spesso accade alle menti che vanno “troppo avanti”, non sempre il resto del mondo riesce a stare loro dietro. Fu così anche per Lasseter, che prima di rientrare in Disney con tutti gli onori nel 2006 (con la fusione con la Pixar) fu assunto e poi licenziato dai celebri studios hollywoodiani perché nel suo entusiasmo aveva «involontariamente schiacciato qualche piede», proponendo progetti che prevedevano l’integrazione dell’animazione digitale alla tradizionale.
Era il 1979 e all’epoca la CG1 (computer generated imagery) cominciava solo timidamente ad affacciarsi nell’industria cinematrografica, però soltanto applicata agli attori in carne e ossa. Nessuno concepiva le potenzialità di quella tecnologia per fare animazione, alla quale invece Lasseter, fresco di diploma alla CalArts (California Institute of the Arts, ricorda che tra i suoi compagni c’erano anche Tim Burton e Brad Pitt), dedicava tutte le energie. Così, tra un «John, non ci sono nuovi progetti per te», un «considera il tuo lavoro alla Disney terminato» e la bocciatura dell’ennesimo progetto «per mancanza di benefici economici percepibili», l’allora amministratore dell’animazione alla Disney, Ed Hansen, liquidò il giovane animatore il cui riconosciuto talento però gli era valso quel posto ambito da 10mila candidati. «Con il cuore spezzato», Lasseter finì la sua esperienza giovanile alla Disney e cominciò quella con la Pixar, nata come divisione della Lucasfilm, di George Lucas e poi acquistata da Steve Jobs per 10 milioni di dollari, operazione che la rese indipendente.
Il resto è storia, anzi, rivoluzione: Toy Story, primo lungometraggio realizzato in computer grafica, gettò le basi per un nuovo standard nel settore e oggi è inserito nella lista dei 100 migliori film di sempre secondo l’American Film Institute. La Pixar diventava il nuovo punto di riferimento per l’animazione, lasciando un po’ indietro la Disney. Quando Lasseter vi tornò, nel 2006, venne accolto con un boato di applausi: «Quando entrai alla Disney si pensava che il mondo fosse diventato troppo cinico per apprezzare le storie di animazione. Ma sapevo che non era vero: bisognava solo cominciare a raccontare favole contemporanee». I numeri parlano chiaro: Frozen (uscito nel 2013 a marchio Disney-Pixar) è quella che ha incassato di più nella storia. Un personaggio, quello della protagonista Elsa, che Lasseter ha voluto dedicare al figlio diabetico. «Quando lo ha scoperto era molto depresso, si sentiva maledetto. Elsa ha, suo malgrado, il potere di trasformare tutto in ghiaccio. La canzone Let it go rappresenta proprio quella trasformazione, l’accettazione della propria condizione che ti dà potere».
Perché John Lasseter, oltre a essere un creativo di prim’ordine e un affarista geniale, è prima di tutto padre. Cinque i figli, di cui quattro dal suo precedente matrimonio e uno con la moglie Nancy, con cui è sposato dal 1988: «Ci siamo sempre divertiti come matti. Ora più che mai, dato che il nostro ultimogenito ha cominciato il college e siamo soli in casa!». Cioè una splendida tenuta a Glen Allen, Napa Valley, dove producono vino. Lasseter ne è entusiasta: «Nancy porta avanti l’azienda, io mi occupo di più del prodotto», precisa. «Viaggiamo molto, impariamo tanto dall’Europa, soprattutto dall’Italia. Spesso facciamo cene di beneficenza a casa e proponiamo delle cine-degustazioni: tutti a tavola e poi a vedere un cartone, vecchio o nuovo». Sono tante le associazioni cui la famiglia Lasseter devolve denaro. «Mia moglie ha un innato spirito filantropico. Vent’anni fa, con il successo di Toy Story, ho capito che abbiamo un potere speciale quando facciamo vedere i film ai bambini malati in ospedale. È bello pensare che i miei cartoni non solo divertano, ma aiutino anche il prossimo». Chissà che penserebbe Walt Disney del suo erede. Considerando che una delle sue frasi più celebri è «se solo puoi sognarlo significa che puoi farlo», un’idea ce l’abbiamo già.