Enrico Franceschini, D, la Repubblica 19/3/2016, 19 marzo 2016
CENT’ANNI D’INQUIETUDINE
«Gli irlandesi sono i campioni del mondo della lamentela. Non riconoscono che splende il sole neanche se ce l’hanno negli occhi». Lo sfogo del primo ministro Enda Kenny, nell’ultimo comizio della campagna elettorale, potrebbe diventare il suo epitaffio politico. Il voto di fine febbraio ha fatto perdere consensi al suo partito e ai suoi alleati di governo. È vero che nemmeno l’opposizione ha ottenuto i numeri per sostituirlo: dalle urne è uscito un parlamento senza maggioranze, che potrebbe portare a nuove elezioni entro fine anno. Ma se qualcosa ha vinto, in effetti, è stata proprio la lamentela. La protesta e lo scontento della gente di Dublino ha prodotto una situazione di ingovernabilità e di paralisi. Guardando alle cifre, è sorprendente: l’Irlanda ha la ripresa economica più forte d’Europa, con un Pil che cresce al ritmo del 7 per cento annuo. La disoccupazione è in calo, quasi dimezzata rispetto a tre anni fa. Dall’estero continuano ad arrivare investimenti, attirati dalla tassazione per le imprese più bassa del continente: tutti i giganti del web, non a caso, hanno scelto Dublino come quartier generale europeo e sede legale delle loro operazioni, risparmiando miliardi di euro in imposte. Soprannominata “la Tigre Celtica” negli anni 90, quando visse un primo, prodigioso boom, lasciandosi alle spalle decenni di miseria, fame ed emigrazione di massa, l’Isola di Smeraldo è stata investita più di ogni altro paese dalla grande recessione globale del 2008: la crisi dei mutui troppo facili l’ha spinta sull’orlo della bancarotta nazionale. C’è voluto un prestito di 70 miliardi di euro da parte dell’Unione Europea e del Fondo Monetario internazionale per rimetterla in piedi. Un salvataggio condizionato a un severo programma di tagli alla spesa pubblica. La cura ha funzionato, questo dicono le statistiche. Il visitatore a passeggio nel centro di Dublino non stenta a crederlo: tra grattacieli, boutique e ristoranti di lusso, la capitale somiglia a un quartiere del centro di Londra, globalizzata, alla moda, splendente, piena di giovani, molti dei quali studenti stranieri attirati dalla sua ottima università. Splende perfino il sole, circostanza non frequentissima in questa terra perennemente bagnata dalla pioggia e proprio per questo cosparsa di prati verde smeraldo. Eppure statistiche e strade del centro forniscono un’impressione sbagliata, o almeno incompleta. Basta allontanarsi dal cuore di Dublino per ascoltare un’altra musica. «Ci sono troppi senzatetto, non abbastanza posti di lavoro e inaccettabili tagli all’assistenza sanitaria»», dice Karla Donohue, 25 anni, hostess d’aereo. Separata dal marito, è tornata a vivere insieme al figlio con i genitori: da sola non ce la fa ad arrivare alla fine del mese. «Sì, i numeri ufficiali indicano che c’è una ripresa economica, ma nelle tasche non la sentiamo. La maggior parte dei miei amici sono scappati all’estero, ci sono opportunità migliori in Australia e Nuova Zelanda». Anche Irene Murphy, pensionata 67enne, è tornata a vivere con la madre, novantenne, dopo la morte del marito: «La pensione non bastava più a pagare l’affitto», racconta. «Ripresa? E chi l’ha vista? Le strade sono piene di homeless. La gente affonda nei debiti. Mio figlio è emigrato a Trinidad». Ben O’Connor è rientrato in patria dopo avere lavorato come carpentiere per otto anni a Praga. Neanche lui è contento, tuttavia: «La ripresa c’è solo per l’élite. Non tocca la classe lavoratrice. Le banche sequestrano le case di chi non riesce più a pagare il mutuo. È una vergogna».
La storia si ripete, si è tentati di commentare: un boom, la crisi, un altro boom, ora forse una nuova crisi. La verità è più complessa. L’Irlanda ha scongiurato il peggio, ma l’austerità ha imposto un prezzo sociale così alto che la cura è stata per molti versi peggiore della malattia. Ciononostante, la sensazione di déja-vu è appropriata, e non solo dal punto di vista economico. Accanto ai cartelloni elettorali, Dublino è imbandierata di manifesti sulle celebrazioni del centenario dell’Easter Rising, la Rivolta di Pasqua del 1916 che diede il via alla guerra d’indipendenza dalla Gran Bretagna: sei giornate di insurrezione popolare che misero la città a ferro e fuoco. Ci furono 130 morti e 400 feriti tra le forze britanniche, 318 morti e più di 2 mila feriti fra i rivoluzionari irlandesi. Con la superiorità dell’artiglieria, l’esercito di Sua Maestà stroncò la ribellione. Ma Dublino, al termine della battaglia, aveva l’aspetto di una città bombardata. E la ferita non si rimarginò più, facendo nascere la guerra qualche anno più tardi e quindi un graduale processo di indipendenza, fino al raggiungimento della piena sovranità nazionale e alla proclamazione della repubblica nel 1937.
Nel lungo conflitto esplose anche una guerra rivale. I due capi della rivolta, Eamon de Valera e Michael Collins, si rivoltarono l’uno contro l’altro. Il primo non perdonò al secondo, geniale artefice della guerriglia contro le truppe britanniche, di avere infine accettato un compromesso con Londra, in cambio della fine delle ostilità e dell’indipendenza, lasciando che un sesto dell’isola, la parte più settentrionale, rimanesse sotto la Gran Bretagna: quella che oggi si chiama Irlanda del Nord o Ulster. Collins fu assassinato dagli uomini di de Valera. I seguaci di quest’ultimo vennero in seguito catturati, imprigionati e giustiziati dai sostenitori di Collins. Un’epopea sanguinosa, narrata nel 1996 da un bel film, Michael Collins, con Liam Neeson nella parte dello sfortunato eroe della rivoluzione irlandese.
Un secolo esatto più tardi, lo scontro fratricida sembra ancora in corso. Fine Gael, il partito di centro-destra guidato dal primo ministro Enda Kenny, ha giurato di non allearsi in una grande coalizione con Fianna Fail, il partito di centro che era la maggiore formazione dell’opposizione, anche in nome di un odio che risale appunto al 1916. Il partito del premier discende dal clan di Michael Collins. L’altro partito, Fianna Fail, discende dal partito di de Valera. Il primo rimprovera ancora al secondo l’omicidio di Collins. L’altro accusa il primo delle rappresaglie che seguirono. Come se cent’anni fossero passati invano. Si dice che gli irlandesi abbiano la memoria lunga, ma è anche vero che la lotta tra fratelli è come una condanna nel loro dna. Si ripete in Irlanda del Nord, dove cattolici repubblicani hanno guerreggiato per trent’anni con protestanti unionisti: i primi determinati a ricongiungersi con il resto dell’Irlanda, i secondi decisi a rimanere parte della Gran Bretagna. E quando nel ’98 gli accordi di pace hanno “condannato” gli uni e gli altri a diventare alleati in un governo congiunto a Belfast, rinviando ai posteri la questione dell’indipendenza, l’ala cattolica repubblicana si è spaccata di nuovo. L’Irish Republican Army, l’esercito repubblicano clandestino, si è diviso tra una fazione che ha deposto le armi, accettando il compromesso, e un’altra di irriducibili che continuano a minacciare disordini. Come al tempo di Collins e de Valera. Fratello contro fratello. Abele contro Caino.
Il conflitto in Irlanda del Nord non è più caldo: a Belfast vige da vent’anni una pace fredda. Per ironia della sorte, gli accordi che la sancirono furono firmati nel giorno di Pasqua: un’altra ricorrenza, l’ennesimo déja-vu, nella storia dell’Emerald Island. In un certo senso è naturale che tutto giri attorno alla più importante festività del calendario cattolico: l’Irlanda è il paese più ferventemente cattolico d’Europa. O meglio, lo era. I giovani si stanno staccando dalla religione, le presenze a messa diminuiscono, l’influenza della chiesa non è più quella di un tempo. Non a caso, nonostante l’opposizione delle locali autorità ecclesiastiche, l’estate scorsa gli irlandesi hanno approvato a grande maggioranza una legge sul matrimonio fra persone dello stesso sesso. Esisteva già una legge sull’unione civile per gay e lesbiche, simile a quella discussa nei giorni scorsi dal parlamento italiano. Ebbene, gli ultra-cattolici irlandesi hanno voluto anche il diritto di potersi sposare. «Volevo che uno dei miei figli, gay, potesse sentirsi in tutto e per tutto uguale all’altro, eterosessuale», commenta Mary Robinson, ex presidente irlandese, la prima donna a ricoprire l’incarico (dal ’90 al ’97) di capo dello Stato. È un altro paradosso dell’Irlanda: la nazione più cattolica d’Europa che vota una delle leggi più rispettose dei diritti dei gay in tutto il mondo.
Ricca e povera, cattolica e laica, aperta alla rivoluzione del web ma incapace di dimenticare il passato, questa isoletta di neanche 5 milioni di abitanti all’estremità nord-occidentale d’Europa non smette di stupirci. Un bel libro dell’americano (di origine irlandese) Thomas Cahill, Come gli irlandesi salvarono la civiltà, ricorda che furono i monaci irlandesi a custodire la sapienza del passato durante i secoli bui del Medio Evo, copiando e salvando antichi testi: «Senza di loro il mondo venuto dopo sarebbe stato completamente diverso, sarebbe stato un mondo senza libri e il nostro non sarebbe mai nato», scrive l’autore. Forse anche il mondo di domani ha bisogno dell’Irlanda per guardarsi allo specchio e comprendere le contraddizioni del nostro tempo.